SCENARI DEL CINEMA ITALIANO NEGLI ANNI NOVANTA (saggio). [ORIGINE n. 1]
SCENARI DAL CINEMA ITALIANO ANNI NOVANTA
di Vito Zagarrio
Il rapporto tra cinema e scrittura in Italia è un rapporto divenuto complesso, per le esplosive mutazioni mediologiche intervenute in questi ultimi anni.
Non si può più parlare solo del tradizionale rapporto tra cinema e letteratura, cioè dei film tratti o ispirati a romanzi e racconti, che pure, come vedremo, è nel nostro Paese determinante. Bisogna anche pensare alla relazione che i giovani cinefili o aspiranti cineasti hanno con la scrittura: va quindi affrontato il tema dello scrivere in sé e dell’imparare a scrivere, nei tanti corsi di sceneggiatura, o nei tanti fogli o siti on line (segnalo per tutti il ricco luogo di sperimentazione che è “Cinemavvenire”, dove una nuova generazione si cimenta con la critica cinematografica). Va allargato il tema della scrittura all’uso delle nuove tecnologie digitali, che permettono di “scrivere” con parole o per immagini, riflettendo sulla struttura narrativa anche solo col montaggio. C’è insomma quella che ho chiamato in altre occasioni una complessa mutazione dell’universo iconico, fenomeno che impone di ripensare alle stesse nozioni di “scrittura” e di “letteratura”.
Ma restiamo al più semplice tema del rapporto tra romanzo e film. In mancanza di soggetti originali e di sceneggiature di peso, il cosiddetto “nuovo” (sic!) cinema si rifugia spesso nella letteratura, che a volte fornisce un appiglio ben più saldo dei generi, che la tradizione italiana non è abituata a frequentare con adeguata professionalità e organizzazione (salvo ovviamente il mega-genere della commedia). Così che ogni piccolo o grande best seller ha ormai una quasi automatica “riduzione” cinematografica. Riduzione nel doppio senso, visto che quasi sempre le versioni filmiche sono ben lontane dal livello di qualità dell’originale narrativo. Tra questi esempi di lavoro compilativo, e quindi di riduzione e banalizzazione dell’originalità del prototipo, possiamo citare Jack frusciante è uscito dal gruppo, fortunato e fresco romanzo “giovanilistico” di Enrico Brizzi, che diventa una storiella sentimentaleggiante nella sua versione cinematografica del ’96, diretta da Enza Negroni (che rivela però Stefano Accorsi).
Tra i film tratti da “casi” letterari va segnalato anche Tutti giù per terra del ’97 di Davide Ferrario, ispirato dal romanzo di Giuseppe Culicchia. Ferrario è un regista che proviene dalla critica e dall’organizzazione culturale, e ha lavorato anche sul terreno “militante”. Qui, dopo la commedia Anime fiammeggianti, si avventura in un prodotto trendy, che indugia un po’ troppo alla moda dell’effetto elettronico e del videoclip. Ma la mano è fresca, e valorizza il volto emergente di Valerio Mastrandrea, che vaga per una Torino non stereotipa, una città che è rientrata con forza nell’immaginario del nuovo cinema.
Altro discorso, invece, va fatto nel caso di Sostiene Pereira. Si tratta di un bel romanzo, campione delle classifiche dei libri, di Antonio Tabucchi. Dalla riduzione per lo schermo però, viene fuori un film certamente onesto, ma che non regge il paragone col libro da cui è tratto (benché lo stesso Tabucchi abbia collaborato in sede di sceneggiatura e di scrittura dei dialoghi).
Sostiene Pereira è, come si sa, la storia di un anziano redattore della pagina culturale di un quotidiano “indipendente” di Lisbona, la cui vita è sconvolta dall’arrivo di alcuni giovani dalle idee strane: Montero Rossi, un giovanotto di origine italiana dalla faccia accattivante, e la sua ragazza, Marta, una “pasionaria” tutta d’un pezzo. Il tranquillo tran tran del signore perbene, cattolico, metodico, tendente alla pinguedine, viene spiazzato da questo vento trasgressivo, mentre anche in Portogallo si addensano fosche le nuvole della repressione poliziesca. Nel film il protagonista è un convincente e commovente Mastroianni, in una delle sue ultime performance. I giovani sono Stefano Dionisi e Nicoletta Braschi (compagna e collaboratrice di Benigni). Detto questo, il film di Faenza è fedele al romanzo, o no? È più bello o più brutto? Certo, quando ci si confronta con un libro di grande successo, il rischio è enorme. Faenza ne esce abbastanza bene, con un film dal finale coinvolgente (quando Mastroianni decide di partire volontario per la guerra di Spagna, in una inquadratura intensa sullo sfondo della città); ma lo si può rimproverare di aver rischiato troppo poco: il film è una riduzione un po’ “scolastica” del romanzo (si veda l’uso eccessivo della “voce fuori campo”, come filo conduttore della storia), un buon compito in classe eseguito a dovere. Ci si aspettava, magari, qualche colpo d’ala, un volo d’autore in più. Stessa osservazione si può fare, del resto, per le successive riduzioni che Faenza opera nel 1997, con Marianna Ucrìa dal romanzo della Maraini, e nel 1999 con L’amante perduto, da Yehoshua.
Tra gli esempi più recenti, ecco un altro best seller che si trasforma rapidamente in film: Io non ho paura di Niccolò Ammaniti è il nuovo film di Gabriele Salvatores in concorso a Berlino. Il giovane “cannibale” è, del resto, gettonatissimo: da suoi racconti erano stati tratti, infatti, L’ultimo capodanno di Marco Risi, film incompiuto e maltrattato dal pubblico ma a tratti molto interessante e provocatorio, e il brutto Branchie di Francesco Martinotti, con protagonista un intollerabile Gianluca Grignani.
La griglia si potrebbe ancora allargare: si pensi, in merito al rapporto tra scrittura e film, agli scrittori che si cimentano con la regia (penso al vecchio Bevilacqua, per non scomodare Pasolini, sino all’ex giovane De Carlo, con Treno di panna); oppure agli scrittori che sono anche valenti sceneggiatori per il cinema, come Veronesi (fratello del regista); oppure ancora agli sceneggiatori (ma questo è già più consueto) che passano dietro la macchina da presa: si veda Enzo Monteleone e il suo ultimo El Alamein.
Ma si tratta, ripeto, di una relazione in progress, che viaggia per nuovi canali e con nuove modalità, ed ha bisogno, dunque, di nuovi strumenti critici ed ideologici.