Indicazioni geografiche, rappresentazioni culturali e sviluppo locale
di Michela Felicettin(Facoltà di Giurisprudenza, Università Telematica e-Campus).
Introduzione.
Parte della letteratura scientifica sullo sviluppo locale, considera le indicazioni geografiche (IGP), strumenti protezionistici tesi a mitigare gli “eccessi neoliberisti” e l’impatto che essi hanno sui territori locali (Goodman, 2003; Morris e Young, 2000; Murdoch, Marsden e Banks, 2000).
Altrettanto diffusa, è l’idea che le IGP contengano una dimensione politica, economica e culturale (Ganjee, 2012). Quest’ultima costituisce un punto controverso, dato l’intreccio tra cambiamento tecnologico e relazioni di potere a livello locale. Sicché, piuttosto che rappresentare in termini oppositivi la dimensione culturale ed economica, si intende analizzare la loro interazione nel quadro delle indicazioni geografiche tipiche.
Le indicazioni geografiche tipiche o, produzioni certificate, in base alla normativa dell’Unione Europea (Reg. CE 2082/1991 e CE 510/2008)) sono la Denominazione geografica protetta (DOP) e l’indicazione geografica protetta(IGP).
Il caso di alcuni prodotti tipici calabresi risulta utile per rappresentare la dinamica tra patrimonio culturale e le altre dimensioni delle IG. Fino a che punto i prodotti tipici incorporano le tradizioni? Il patrimonio culturale costituisce un elemento favorevole per sostenere le economie locali?
La regolamentazione sulle indicazioni geografiche e, di conseguenza, sulle denominazioni d’origine controllata, dovrebbe contrastare la scomparsa della diversità culturale, tanto da chiederci quale impatto abbiano, in questo caso, le indicazioni geografiche tipiche sulla tradizione manifatturiera locale e, più in generale, sulla cultura. Abbiamo anche cercato di interrogarci sull’impatto che ha la conservazione delle tecniche tradizionali rispetto alla qualità.
La qualità e la cultura come sinonimo delle alternative food network.
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un cambiamento dei sistemi agro-alimentari basato su una serie di processi concatenati fra loro, quali: l’apertura dei mercati, le nuove forme del lavoro, la deregolamentazione della circolazione del capitale e del credito, i nuovi modelli di consumo flessibile e stratificato (Marsden,1992). Parte integrante di tale cambiamento, dunque, è stata la proliferazione e la differenziazione di beni, molti dei quali racchiudono un valore ideologico legato alla qualità. In questo quadro, il modello economico neoclassico della formazione del prezzo ha perso il proprio valore esplicativo soppiantato dalle istituzioni attraverso cui si stabiliscono i requisiti ed il controllo della qualità.
L’attenzione verso la qualità ed il conseguente interesse nei prodotti tipici, perciò, riguarda la sfera del consumo, la sfera della produzione ed una pletora di istituzioni locali e sovranazionali. Temi come la sicurezza alimentare, lo status socio-culturale e la nostalgia per le tradizioni alimentari (Ilbery e Kneafsey, 2000) hanno inciso sulla ricerca, da parte dei consumatori, di cibi la cui origine sia formalmente o informalmente legata alla salubrità, alla tradizione, alla cultura. D’altra parte, nella sfera della produzione, i beni di qualità costituiscono l’occasione per entrare nei mercati di nicchia e lucrare sul loro valore immateriale. Pertanto le aziende agricole ed, in particolare, quelle multinazionali, producendo in modo differenziato e rispondendo ad una domanda segmentata tipica dell’economia post-fordista traggono maggiori profitti (Valceschini e Nicolas,1995). In riferimento alle istituzioni, l’enfasi sullo sviluppo locale, il concetto di multifunzionalità in agricoltura e i problemi di sicurezza alimentare hanno favorito lo sviluppo delle produzioni tipiche e questo, a sua volta, ha reso necessario creare degli organismi che ne controllassero i requisiti.
In sintesi, la focalizzazione sulla qualità e le sue diverse declinazioni nel settore agroalimentare è in parte una risposta, da parte dei produttori, all’evoluzione delle forme di consumo basate sulla sicurezza alimentare, sulla protezione dell’ ambiente e sulla localizzazione (Reynard, 1999b). Allo stesso tempo, è una risposta delle istituzioni pubbliche ai problemi generati dalle crisi e dagli scandali alimentari.
Come è stato diffusamente osservato, il concetto di qualità è ambiguo e varia in relazione ad i soggetti che la definiscono. In quest’ottica l’approccio della quality turn analizza (Goodman, 2003; Morris e Young, 2000; Murdoch, Marsden e Banks, 2000).
Il discorso sulla qualità e sulle pratiche di certificazione delle catene agroalimentari focalizzandosi sull’impatto che hanno gli schemi di certificazione nei processi di inclusione ed esclusione degli attori sociali in agricoltura. E se l’equazione tra prodotto di qualità e lavorazione artigianale, salvaguardia della biodiversità e recupero della fiducia tra consumatori e produttori non è proponibile, anche nel caso dei prodotti tipici certificati, l’utilizzo della tradizione nel processo di trasformazione, l’attenzione all’ambiente, la salubrità vanno appurate di volta in volta.
Nella letteratura scientifica, infatti, le filiere che si avvalgono della certificazione d’origine DOP o IGP, e che pertanto dovrebbero incorporare requisiti di qualità, talvolta sono ritenute reti alternative di produzione e consumo, sottintendendo il rispetto della biodiversità, delle specie animali e della cultura produttiva tradizionale, altre volte sono inquadrate nella logica dell’economia convenzionale. Di seguito cercheremo di esaminare la valenza di una tale distinzione e quanto i prodotti certificati rispecchino la visione alternativa piuttosto che quella convenzionale. Secondo Watts et al. (2007) classificare la produzione alimentare relativa al quality turn tra le alternative all’economia convenzionale non è condivisibile, mentre sarebbe più coerente ritenerla una forma di produzione flessibile post-fordista.
Uno degli obbiettivi di questo lavoro è quello di analizzare il processo di produzione di alcuni prodotti calabresi DOP per capire quanto la qualità da esso definita rispecchi quella di una filiera convenzionale o di una rete alternativa. Un secondo obbiettivo è quello di verificare se le reti, cosiddette alternative, incorporino effettivamente “cultura” attraverso il rispetto dei metodi di produzioni tradizionali. Le reti alternative (Alternative Food Network) sono state, infatti, principalmente associate alla salvaguardia di valori immateriali, quali la conservazione del patrimonio culturale e della tradizione locale, laddove quelle convenzionali sono state rappresentate in riferimento alla logica pura del mercato. Tuttavia i casi esaminati hanno messo in rilievo una serie di elementi lontani dalla retorica della cultura e del rispetto della tradizione locale.
In questo senso diventa per lo meno discutibile che la cultura faccia parte della razionalità del framework istituzionale legale delle IGP tipiche. Secondo Broude (2004), le IGP non funzionano come strumenti legali per prevenire l’impatto del mercato sulla cultura locale, anzi produrrebbero una trasformazione culturale ed una omogeneizzazione internazionale.
La regolamentazione sulle IGP tipiche e, di conseguenza, quella sulla DOP e sulla IGP dovrebbero, infatti, arginare la scomparsa progressiva della diversità culturale, sicchè in questo lavoro ci siamo chiesti quale impatto abbiano le IGP sulla tradizione produttiva locale e, più in generale, sulla cultura.
Ci siamo anche interrogati sul riflesso che la conservazione delle tecniche tradizionali riverbera sulla qualità in questo caso specifico.
Lo studio di caso dei salumi DOP.
La retorica della conservazione del patrimonio culturale e delle tradizioni locali viene in vari ambiti utilizzata come ratio della istituzione delle IGP. L’Unione Europea, in particolare, ha sviluppato e sostenuto che la normativa sulle indicazioni geografiche è tesa alla protezione del patrimonio culturale, dei metodi tradizionali e delle risorse naturali.
Per verificare se il conferimento della DOP abbia un impatto positivo rispetto alla conservazione dei modi produttivi tradizionali è stata fatta una valutazione diacronica tesa a comparare due prodotti simili: uno DOP, ed uno privo di tale riconoscimento attraverso un’osservazione partecipante ed i dati raccolti durante le interviste agli stakeholders.
I soggetti intervistati appartenevano a categorie varie di portatori d’interesse quali: aziende di trasformazione del prodotto DOP, associazioni di produttori, rappresentanti dei consorzi delle DOP, autorità di controllo, membri di amministrazioni locali.
Il settore produttivo è quello delle carni trasformate ed in particolare della produzione di soppressata, salume della tradizione calabrese. I produttori, allevatori e imprese di prodotti DOP interpellate rappresentano circa la metà della popolazione interessata. I produttori di carni trasformate in Calabria sono 23, gli allevamenti 23 e le imprese 17 per un totale di 40 operatori (Istat, 2013).
Soppressata di Calabria DOP |
Produttori 23 |
Allevamenti 23 |
Imprese 17 Totale 40 |
Capocollo di Calabria Dop |
Produttori 23 |
Allevamenti 23 |
Imprese 17 Totale 40 |
Salsiccia di Calabria Dop |
Produttori 23 |
Allevamenti 23 |
Imprese 17 Totale 40 |
Pancetta di Calabria Dop |
Produttori 23 |
Allevamenti 23 |
Imprese 18 Totale 41 |
Disciplinare di produzione e perdita della cultura locale tradizionale.
I salumi sono tra gli alimenti più tipici della tradizione calabrese. In passato costituivano una risorsa fondamentale delle famiglie contadine, infatti, l’allevamento del maiale garantiva loro provviste per tutto l’anno. La macellazione del maiale conteneva anche degli aspetti fortemente simbolici, per cui l’uccisione dell’animale rappresentava una festa in cui si celebrava l’abbondanza. L’arte della macellazione rivestiva grande importanza per la qualità finale di salumi come la soppressata: scegliere le parti più adatte, tagliarle in modo appropriato e combinarle insieme era un compito affidato ai membri più abili della famiglia o a persone esperte che offrivano la loro collaborazione in cambio del banchetto associato al rito della “maialatura”.
I maiali utilizzati in passato erano soprattutto suini neri. Per alimentare gli animali li si portava a pascolare nei castagneti, vi era anche l’uso di raccogliere le castagne da infornare. In tal modo si evitava di farle marcire per utilizzarle più a lungo nell’alimentazione del maiale. Chi aveva il grano preparava dei pastoni a base di granoturco, crusca di frumento e patate. Oppure ancora si andava nelle case a chiedere i resti dei pasti quotidiani da barattare con una parte dei salumi ottenuti.
L’allevamento del maiale, dunque, era legato al suo essere omnivoro e perciò economico nella gestione, ma anche alle risorse naturali della regione, nota per i suoi boschi di querce e castagni che fornivano la base dell’alimentazione di questi animali.
Oggi di allevamenti maiali in Calabria ne sono rimasti pochissimi perché non ci sono più molti castagneti. Le piante di castagno sono intaccate da una malattia del castagno e dunque la maggior parte degli alberi viene venduto alle industrie del legno. Per questa ragione molti maiali vengono importati dalla Spagna, dalla Serbia, dal Montenegro, dall’Olanda, talvolta in quarti, o in pezzi selezionati.
Secondo la ricostruzione dei contadini locali: “… un tempo, i maiali si ammazzavano all’eta’ di diciotto mesi, si tagliava la carne (prosciutto e filetto) con un forchettone ed un coltello, mentre le macchine tritacarne di oggi fanno disperdere gli umori, togliendo molto sapore al salume. La carne era poi riposta nelle mayille, ampi contenitori di legno in cui veniva tagliata a pezzetti con forchettone e coltello. Di quei tempi, quando si affettava la soppressata, era facile notare dei quadratini compatti e, questo, sia per la consistenza della carne..”, derivante, a sua volta, da un maiale sodo, perché cresciuto allo stato semibrado; sia perché l’utilizzo dei coltelli al posto delle macchine tritacarni consentiva di ottenere piccole parti intere,”…Successivamente, si utilizzava un imbuto corto che veniva infilato nell’intestino e tenuto stretto e si premeva dentro una massa formata da carne tagliuzzata con pepe nero e sale..”. Tale massa o pasta era composta da quadretti di carne compatti, non solo per l’utilizzo manuale dei coltelli ma anche per la fibra muscolosa data da animali allevati in libertà.
La stagionatura avveniva in cucina quando ancora non c’erano i fornelli a gas o termosifoni che emanavano vapori ed umidità, ma camini che aumentavano la temperatura per far si che raggiungesse i cinque gradi, circa, necessari ad asciugare il salume.
Il DOP tra tradizione artigiana e produzione industriale.
Nella letteratura scientifica è stato evidenziato come aziende del medesimo settore, aderenti allo stesso consorzio, possano dare luogo a produzioni eterogenee e come ciò si riverberi sulla qualità dei beni ottenuti. Capita, infatti, che alcune di esse, pur fregiandosi del marchio di origine, abbassino i costi di produzione, con ripercussioni sulla qualità dei beni prodotti (Rangnekar, 2004; Cristovao et al.,2003; Belletti e Marescotti, 1998). Ciò avviene soprattutto quando l’area di produzione è particolarmente vasta o quando il disciplinare di produzione è estremamente generico, in quanto ciò consente di introdurre metodi produttivi differenti rispetto a quelli tradizionali, appropriandosi nell’immagine del prodotto (Barjolle, Pause Perret, 2009).
I casi considerati convergono con questa lettura. Ad esempio il quadro delle aziende che producono soppressata calabrese DOP è diversificato. La produzione è interamente meccanizzata e gli sbocchi commerciali utilizzati sono quelli locali, nazionali ed internazionali. Per molte delle aziende calabresi la produzione PDO è solo una piccola parte della loro produzione totale ed è stata introdotta per migliorare l’immagine aziendale ed aumentare i canali distributivi (vendita tradizionale, grande distribuzione organizzata, ristorazione).
La conservazione della tradizione produttiva è ostacolata dalla difficile reperibilità delle materie prime considerato che gli allevatori calabresi non sono in grado di soddisfare la domanda dei trasformatori. Sicchè taluni trasformatori aggirano le procedure di controllo della materia prima ed arrivano ad utilizzare parti di animali allevati all’estero. Tale paradosso si verifica a causa della fallacia del sistema di controllo, interamente volontaristico e della difficoltà di rintracciare la provenienza della carne triturata ed insaccata.
E’ stato anche evidenziato come vi possano essere aziende che utilizzano le antiche tecniche artigianali ed aziende che introducono tecniche industriali o semi-industriali, vista la non congruenza tra remunerazione del prodotto e riproduzione delle risorse specifiche. L’allontanamento sistematico dalle tecniche produttive artigianali da parte di produttori allo scopo di abbassare i costi di produzione può portare allo scolorimento dell’identità specifica ed alla sparizione del prodotto tipico (Arfini, Belletti, Marescotti, 2010).
I casi qui esaminati rafforzano questo argomento, infatti le produzioni di soppressata calabrese DOP si sono livellate su un prodotto industriale e semi-industriale, ma, nonostante la tipologia di prodotto ottenuto sia molto simile, i prezzi sono variabili. Alcune aziende abbassano il prezzo in modo competitivo per ottenere liquidità immediata a danno di altre, che, a parità di qualità, vendono a prezzi più elevati e che, pertanto, lamentano la mancanza di cooperazione tra i soggetti del consorzio. In ogni caso, l’accantonamento delle tradizioni artigiane della lavorazione del maiale e l’appiattimento su un prodotto standardizzato incide fortemente sul gusto e sulla salubrità di questo salume della tradizione calabrese, ormai venduto principalmente attraverso la grande distribuzione.
In questo quadro la stesura del disciplinare di produzione diventa un elemento essenziale nella caratterizzazione effettiva del prodotto tipico. L’istituzionalizzazione di quest’ultimo può cristallizzare una assetto basato su tradizione e cultura, biodiversità e artigianalità, oppure può essere soltanto un espediente per migliorare le performances di mercato ed abbassare la qualità reale. Vi sono, poi, casi in cui sussistono tutti gli elementi insieme. Il disciplinare di produzione della soppressata calabrese non è affatto restrittivo rispetto all’utilizzo delle materie prime e agli ingredienti aggiuntivi. I maiali devono essere allevati in Calabria solo a partire dai tre mesi di vita e non ci sono previsioni specifiche circa la loro alimentazione e il loro pascolo, mentre un tempo i maiali era cresciuti allo stato semibrado con, alimentazione completamente naturale. Attualmente, molti degli allevatori usano un mangime cubettato.
Il disciplinare di produzione infatti permette che l’alimentazione contenga solo il cinquanta per cento di orzo, mais e fave selvatiche, mentre un tempo i maiali venivano allevati interamente con prodotti naturali quali ghiande, castagne, bucce di frutta e occasionalmente misture di grano. E’ addirittura possibile usare conservanti come nitriti, nitrati, potenzialmente dannosi per la salute umana
Inoltre il disciplinare di produzione prevede che l’uccisione del maiale possa avvenire dagli otto mesi di vita e ciò porta ad avere una carne meno nutriente e saporita e più ricca d’acqua. Il taglio della carne è meccanizzato e non passa più per le mani di sapienti norcini, la fase dell’asciugatura e della stagionatura avviene in sale dotate di una tecnologia che consente di regolare umidità e temperatura.
Cercando di dare una valutazione finale dell’impatto del riconoscimento della DOP rispetto alla conservazione della tradizione culturale locale e, più in generale, rispetto all’agricoltura sostenibile condensata nei valori sociali, nella conservazione delle specie locali e nell’attenzione alle questioni ambientali si sarebbe portati ad inquadrare le produzioni DOP nell’ambito delle catene convenzionali.
In particolare la ratio della cultura enfatizzata nei documenti istituzionali e nella letteratura scientifica non appare un valore tutelato dallo strumento delle IGP ed in questo caso dalla Denominazione d’Origine Controllata.
L’argomento della protezione della cultura locale ha a che vedere con le “insidie liberiste” costituite dall’importazione di prodotti, servizi e metodi di produzione nuovi. Tuttavia esso può anche essere un baluardo dietro cui nascondere interessi commerciali protezionistici. In effetti le IGP, di fatto, producono una manipolazione sul mercato e, quando concesse ad un numero limitato di prodotti, aggiungono valore anche laddove la qualità effettiva dei beni sia mediocre.
E’ vero che spesso le IGP sono legate a metodi di produzione anacronistici connessi a loro volta a situazioni sociali e tecnologiche ed a ecosistemi ormai scomparsi. Tuttavia laddove le tradizioni locali lasciano il posto ad una modernizzazione “creativa” o a delle innovazioni di qualità, l’erosione della tradizione non costituisce, a nostro avviso, un elemento negativo, parte di uno sviluppo rurale sostenibile. Diverso è il caso in cui lo “scolorimento della tradizione” va di pari passo con il peggioramento della qualità.
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