Recensioni TEATRO

Eduardo ed i fantasmi di Pirandello e Beckett: appunti per una autobiografia

di Michele Infante

Questi Fantasmi: una storia d’amore e dis-amore.
visto al teatro Bellini, Napoli
compagnia Elledieffe
regia Marco Tullio Giordana
con e Carolina Rosi, Nicola Di Pinto Paola Fulciniti, Giovanni Allocca, Gianni Cannavacciuolo, Viola Forestiero, Federica Altamura ed Andrea Cioffi
scena di Gianni Carluccio ed i costumi di Francesca Livia Sartori

Per una volta mi permetto di sottrarmi alla fiere delle banalità critiche, e come si fa solo con i grandi classici, mi abbandonerò ad un misreading, ad una dis-lettura. Se vi chiederete cosa ha visto il vostro critico al Teatro Bellini, se Questi fantasmi messo in scena da Elledieffe, la Compagnia storica di Luca De Filippo, oggi diretta da Carolina Rosi, o un suo spettacolo della mente, nessun problema. Ognuno di noi a teatro più o meno vede proiettati in scena i propri fantasmi, anche critici. E poi io non ho ambizioni di critico in questa sede, ma di spettatore partecipe. Mi si perdoni quindi qualche affermazione forte, o brutalizzata dal poco spazio a disposizione. Tra l’altro, la messa in scena è ancora più ambigua nella caratterizzazione, nei tagli, nelle luci cinematografiche di regia Marco Tullio Giordana e dalla superba interpretazione silenziosa e risentita della Rosi. Per la cronaca, ed i credits, bisognerà dire che Nicola Di Pinto è il portiere Raffaele, Paola Fulciniti, Giovanni Allocca, Gianni Cannavacciuolo, Viola Forestiero, Federica Altamura ed Andrea Cioffi sono attori di qualità, scena di Gianni Carluccio ed i costumi di Francesca Livia Sartori. Ma detto questo proviamo a ragionare sull’ennesima rilettura di un classico, e dicendo classico dico un testo ed uno spettacolo su cui le generazioni dovranno ancora confrontarsi. Sbaglierò, esagererò, dirò cose soggettive, e … menomale altrimenti perché si rivede un classico? Quindi ora scrivo questo, tra dieci anni avrò cambiato idea. Lascio appunti, come se fosse solo una brutta. Ne’ tanto meno ricopio in bella.
Diciamolo subito, il problema di Eduardo è Napoli, è la commedia buffa, la commedia degli equivoci, lo sciocco, l’amante, la fame, e tutti gli intrecci della commedia popolare, con il suo dialetto e folklore locale. E’ un suo limite: si. Ci spingiamo oltre, forse Eduardo sentiva la tradizione di Scarpetta, dover far ridere. Che condanna deve essere stata. In nessun testo come in Questi fantasmi, si vede un Eduardo che legge Pirandello, per la critica: l’autore serio, il premio Nobel, uno dei geni e dei massimi innovatori del teatro del Novecento. Pirandello ha avuto il coraggio di rompere con la tradizione, con tutto, quanto di siciliano vi è nel Pirandello maturo? Poco o niente. Di Eduardo? Cos’è Eduardo senza la “napoletanità”?
Certo, chi scrive nell’ultimo anno, ha visto i Sei personaggi in cerca d’autore al Mercandante nella messa in scena di Luca de Fusco ad Ottobre 2017, e sempre nel 2017 aveva visto sempre i Sei personaggi nell’allestimento di Ronconi del Teatro Piccolo a Milano, in un allestimento quasi metafisico. Anche per un classico come Pirandello, vale lo stesso discorso, stesso testo, due opere diverse. Ormai sappiamo tutti che i classici sono pre-testi per la compagnia. E la regia di Giordana specialmente nel primo atto dona al testo un ritmo veloce, le luci sono quelle forti del cinema, ombre lunghe, e scorre via piacevole. Niente in comune con la prova autoriale, sempre su Eduardo di Il Natale in casa Cupiello di Antonio Latella, forse uno dei suoi migliori allestimenti, che abbiamo visto al San Ferdinando. Dentro al testo-gabbia di Eduardo, Latella ha esaltato la sua creatività. E’ veramente Eduardo, è veramente Latella. Latella fa una lettura critica in scena di Eduardo De Filippo abilissima, perché amarissima; Giordana si muove invece con grande rispetto invece per il testo e la compagnia per una prova di scena ineccepibile dal punto di vista formale. Quanti sono i Pirandello, quanti sono i De Filippo?
Ma i due grandi sono loro: Pirandello ed Eduardo. Eduardo è più amaro perché non è riuscito ad essere Eduardo. Perché Eduardo sembra a volte non completamente risolto in scena, o sembra essergli mancato il coraggio di spingere la sua ricerca verso una nuova forma coraggiosamente “originale” e non originaria. Perché non ha sperimentato? La sua poetica ed autorialità non riesce a rompere le catene di una forma che gli andava stretta, anche se dava incassi al botteghino. La fame ed il suo contrario. La fame atavica della plebe napoletana e l’ossessione borghese del “vivere bene”, di “fare il signore”, tema eduardiano, scarpettiano, di “toto”, tema infine di Pasquale Lojacono protagonista di Questi Fantasmi. Edoardo forse sapeva come sanno solo i grandi di essere sceso a patti con la sua musa più autentica, perché le invenzioni amare di Questi fantasmi potevano essere l’inizio di una nuova poetica, di qualcosa di completamente diverso, e forse rappresentano l’apice della sua produzione.
Questi fantasmi ha già un titolo quanto mai fuorviante. Dove sono questi fantasmi? In scena? Fuori scena? Nello spettacolo di Giordano visto al Bellini, due figure alla fine del primo atto con in loro lenzuolo bianco in testa classico chiudono i balconi, sono parodia di fantasmi. Poi perché sono bianchi i lenzuoli dei fantasmi? Immaginario di Hollywood e della televisione per bambini, fossero almeno neri come vestiti nel saio da monaco, i fantasmi a Napoli erano i piccoli monaci, i munaciell. Ma i veri fantasmi-demoni della Letteratura sono altri, qua siamo solo nel comico. Pensiamo alla frase citata da altri recensori, ed attribuita ad Eduardo, «i fantasmi sono dentro di noi, nella nostra testa». Non è corretta. Nel testo si dice «Non è vero! I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi» – dice Lojacono. C’è una differenza tra lo sciamanesimo dei fantasmi che sono «dentro di noi», ed invece quelli che «creiamo noi», fino ad arrivare ad un identificazione personaggio-maschera-fantasma, nell’affermazione conclusiva «noi i fantasmi». Se siamo tutti fantasmi, nessuno lo è. Nessun fantasma, infatti, qua c’è solo Lojacono ed il suo amore. Eccolo il suo fantasma. Amore in crisi già prima che si entra in scena. Da un lato, l’aspirante piccolo borghese Lojacono, con la sua aspirazione a “vivere bene”, dall’altro il fantasma di un amore finito. Lojacono insegue il suo posto al sole: molto concreto, gestire una pensione ammobiliata, soldi sicuri: come quelli trovate nelle tasche della giacca di scena (nell’originale la vestaglia perché ricorda la camera da letto, che è la vera camera assente ma centrale della scena), ma insegue anche la possibilità di non perdere la moglie, di recuperare il rapporto di coppia. Infatti, tutto il fuori scena è immaginabile si svolga nella camera da letto dove la moglie incontra l’amante, le altre 16 camere sono insignificanti, ad esclusione dei balconi, ovviamente. Ma se per la moglie le 18 camere come dichiara sono inutili, a Lei bastavano pure le tre di prima, queste nella mente di Lojacono significano una cosa sola: soldi, e senza soldi non c’è amore (celebre la battuta su Romeo e Giulietta al verde). Per Lojacono i soldi ed il vivere bene, l’unica possibilità di vincere il bisogno, perché il bisogno uccide tutto pure l’amore (questo è il Lojacono pensiero). E visto che il bisogno è ambiguo e soggettivo, nessuno può misurare il proprio “reale” bisogno, Lojacono si perde e perde Maria.
Dov’è allora la commedia vera? La commedia vera è l’ennesima variazione originale su di una storia d’amore e dis-amore con problemi economici. Si poteva intitolare anche Pasquale e Maria, perché quella tra Maria e Pasquale Lojacono suo marito, è una vera storia d’amore. O pensate che la storia d’amore vera nonostante il finale sia quella tra il bello e danaroso Alfredo e Maria? Alfredo, è quasi un personaggio ridicolo, insignificante, come il suo amore capriccio ingiustificato e senza senso per Maria. Forse la caratterizzazione migliore dello spettacolo è proprio quella dell’attore Massimo De Matteo che interpreta Alfredo, uno dei migliori in scena, perché interpreta un personaggio serio al limite della farsa.
Alfredo ama Maria? Sfido a cercare nei loro dialoghi qualcosa che ce lo faccia pensare. Alfredo è patetico, innamorato come nelle farse, più di se stesso che di altri. Alfredo non ama più la moglie, ma con questo non certo ama Maria. E Maria lo sa. E se in scena si mette una parte, il personaggio completo è fuori scena, noi capiamo che Maria non si decide a lasciare il marito e seguire Alfredo, perché ama o ora vuole solo bene a Pasquale, o almeno l’ha amato, si certo, l’ha sposato per amore, si guardavano negli occhi ricorda Pasquale, si parlavano con i loro silenzi. Ma poi l’amore è finito, l’amore finisce. Va dato atto che l’interpretazione della Rosi riesce a rendere la complessità del sentimento contrastato di Maria.
Ad ogni modo Pasquale ama la moglie nonostante sappia di esserne tradito? Certo. Alzi la mano chi non ha tradito o non è stato tradito, non cambia la sostanza dell’amore. Per lo più gli esseri umani abitano la stupidità, la routine e le bollette da pagare, e poi c’è l’amore quello si che è il Vero e Grande Fantasma, non amiamo mai un’altra persona, e sempre il fantasma di lei e/o di lui (ma Lacan a parte, siamo dentro la banalità). Credo che posso spingermi oltre, Pasquale Lojacono è l’autore Eduardo De Filippo (molto di più di quanto Gianfelice Imparato che lo interpreta in scena voglia essere l’attore Eduardo); Pasquale Lojacono è la consapevolezza del proprio teatro da parte dell’autore Eduardo De Filippo. Eduardo ormai maturo è consapevole che al suo teatro è mancato sempre qualcosa, ho meglio è sempre stato schiacciato dall’ironia, dal dover far ridere, lui che aveva un’altra vena e natura. Eduardo sa che il dover far ridere per forza quando si vorrebbe fare teatro è una condanna ad una forma, e che questa è sempre una forma di sconfitta, chi racconta barzellette, chi ride di sé (lo fa dire a Pasquale Lojacono). Ecco tutta la commedia riassunta in tre righe. Qui c’è chi scherza ma scherza per non dire una verità che sarebbe amara, amarissima.
“Non ho mai potuto regalare a mia moglie un bracciale, un anello, nemmeno il giorno del sua compleanno. Non sono mai, riuscito a mettere insieme i soldi per portarla al mare. Certe volte le ho dovuto negare un paio di calze di nylon… E se tu sapessi quanto è triste, per un uomo, nascondere la propria umiliazione con una risata, una barzelletta. Il lavoro onesto è doloroso e misero… e non sempre si trova. E allora sento che la perdo, la perdo ogni giorno di più… E io non posso perderla!”
E’ il lamento di Eduardo «tu sapessi quanto è triste per un uomo nascondere la propria umiliazione con» attenzione non solo una risata [cioè avendo autoironia si potrebbe pensare] ma con una barzelletta. Gli esseri umani le barzellette le raccontano agli altri. In pratica, sentirsi umiliati raccontando barzellette e facendo fare la risata. La malinconia di un Totò. La malinconia seria di ogni vero comico. No, non solo. Eduardo aveva un’altissima ambizione autoriale. Ecco il dramma di Eduardo che voleva essere ed era un grande autore tragico, ma scriveva per lo più commedia degli equivoci, opere comiche, o mischiava i registri. Nascere in un epoca in cui non si scrivono più tragedie, è stata dura da sopportare per Eduardo. Sarebbe ridicolo nel Novecento mettere in scena un quattro o cinque morti come alla fine delle tragedie di Shakespeare (specialmente se non sei il sommo Shakespeare). La storia della letteratura è piena di autori che non si sono spinti fino in fondo. La scena della moglie tradita che si presenta a casa dell’amante del marito con i figli dementi trova senso solo come la rancorsa parodia dei Sei personaggi di Pirandello, lui pensa siano morti, quelli sono vivi, siamo ad un livello indegno anche della farsa di Eduardo, i giochi di parola ed i fraintendimenti linguistici, risate facile dello spettatore che sa essere veri quei personaggi. Come la farsa-scusa del portinaio ladro. Siamo dentro la macchietta di Scarpetta, forse Eduardo voleva fare una parodia di un’altra famiglia quella Sei personaggi in cerca d’autore, ma non potendo scrivere cose serie, serissime… non potendo essere Pirandello, ne avendo il coraggio di rompere con le aspettative del suo pubblico (come aveva fatto Pirandello fischiato alla prima romana dello spettacolo, avanguardistico, elitario…) non può che ricorre o rimanere dentro gli schemi del teatro comico tradizionale napoletano. Come direbbe un suo personaggio “tengo famiglia” e la gente viene a teatro per divertirsi, la vita giù è tanto difficile, passare due ore in allegria, ed amenità del genere da intervista ai comici che parlano del loro mestiere difficilissimo per carità, far ridere è difficile, ma una cosa è farlo come Aristofane, un altra sono i comici televisivi da Mai dire goal o di Zeling. Quindi bisogna chiedersi il pubblico aveva condannato Eduardo a far ridere o si era condannato da solo? Chi lo condanna alla zuppa di latte di Natale in casa cupiello?, è come se il comico per lui fosse una condanna e non una scelta?
Di certo sta il fatto che al comico essendo anche direttore di una compagnia con tante bocche da sfamare lo aveva condannato il bisogno (come a Pasquale Lojacono), non mi meraviglierei se alcune scene sono aggiunte appositamente per far lavorare interpreti della propria compagnia; va bene, diciamolo pure la fame, il tema della fame, che non abbandona mai nessuno, i soldi, ossessione ereditaria degli scarpetta, la fame in Miseria e nobiltà, i soldi vera ossessione di Pasquale Lojacono che vuole vivere bene, non vivere, ma vivere bene, mangiare bene, vestire bene… la proto-cultura da centro commerciale ante-littera e master-chef. «Tu sei una donna che vale, devi vivere bene e non ti puoi contentare tanto facilmente» dice letteralmente Pasquale. Ma non è solo questo. Per chi vuole vivere bene, ed ama, anche sua moglie la persona che ama deve vivere bene. E’ la cultura del commercio amoroso. Pasquale Lojacono ama di più la moglie volendola far vivere come una signora, che come una povera e misera casalinga in tre camere. Per Lei vuole il palazzo con 18 camere, per Lei vuole la pensione ammobiliata da gestire, la radio, il telefono, i lussi, gli anelli, per Lei vuole tutto.
Un recensione sincera scriverebbe: in Questi fantasmi, la banalità della commedia degli equivoci compreso il portiere del palazzo e della sorella (la scena della sorella è gratuita e non aggiunge nulla all’economia della commedia) fa ridere e scorre via leggera. Ma vi è un elemento straniante. Meriterebbero un saggio a parte, che ruoterebbe intorno alla domanda, ma il professore Santanna, chi è? Cosa rappresenta? Ecco entra in scena il simbolismo della tradizione modernista. Un personaggio sta per qualcosa o qualcun altro. Chi è? Dio? La coscienza? Un confessionale ante litteram? Di certo questa voce muta sulla scena è un’invenzione straordinaria, originale, forse uno dei vertici dell’invenzione creativa di Eduardo.
Il dialogo muto con un Dio Assente? Eduardo poteva diventare Samuel Beckett, dopo che non era stato Pirandello? Chi è il Professore? La scena famosa del caffè, dietro l’impostazione da pubblicità, nasconde qualcosa di angosciante. Epifanie napoletane? Non solo. Al balcone c’è un tempo di attesa straziante, certo l’Aspettando Godot è più poetico perché vi sono i clown, il comico triste è molto più triste per ossimoro, in Finale di partita c’è stata un esplosione nucleare, ma niente è angosciante come questo dialogo che porta in scena il quotidiano, le miserie umane economiche e sentimentali, ladrocini e triangoli d’amore, inganni e tradimenti, infelicità familiari, meschinità di ogni genere, superstizione e miseria, fino alla sua frantumazione vera e proprio dell’umano agli occhi di un Grande Altro. Così le vicende domestiche, gli affanni, gli amori e i disamori degli umani diventano ridicoli, stupidi ed insignificanti. Un nichilismo amaro cade sulla scena dove nessuno e niente si salva. Non c’è un solo personaggio veramente positivo, nessuno. Tanto che Pasquale Lojacono anche se fosse consapevole da dove vengono i soldi non sarebbe certo peggio degli altri personaggi in scena, vera morale della favola amarissima di Eduardo. Maria: una moglie traditrice e che ha tradito, Alfredo: un’amante che ha la forza del denaro e basta, e che ha fatto un matrimonio d’interesse con una donna insopportabile, Gastone: un cognato falso moralista che cerca di sedurre Maria con una storia falsamente patetica sulla propria moglie, seconda famiglia e coppia infelice, a cui va aggiunta la moglie del portiere Raffaele che piangeva per un niente e lui picchiava, tre matrimoni in scena e tutti infelici. Raffaele poi è un portiere ladro e corrotto dai soldi, non crede a niente e tanto meno ai fantasmi. Non si salva nessuno, tanto che pure i figli di Alfredo sono stupidi e dementi. Cesira: la sorella del portiere, pazza o isterica complice forse del fratello, perfino i due facchini, avidi di soldi e scansafatiche, corrotti da Alfredo per farsi portare di nascosto in casa. Come se il vostro falegname desse la copia della vostra chiave di casa ad uno sconosciuto. Ed il professore è quello che deve spiegare il perché di questo mondo storto e sbagliato ma se ne sta muto, falsamente interrogativo nella coscienza di Pasquale.
Ma torniamo e chiudiamo con la scena del dis-amore e con le parole di Pasquale Lojacono:
«Ti ricordi Maria quando facevamo l’amore? Anche allora non parlavamo per timidezza, ma con gli occhi ci dicevamo tante cosa. E io mi sentivo goffo vicino a te, perché mi sentivo niente in confronto a te ….E quando uno si sente niente, tutto diventa più facile, più piacevole… Per qualunque cosa si trova il rimedio: anche la morte in quei momenti diventa bella! Si scherza, si ride, senza quel preconcetto di superiorità… E invece no, adesso dobbiamo tenere il punto.» (secondo Atto).
Se un marito dice alla moglie «ti ricordi di quando facevamo l’amore», l’amore è bello e finito, e da tempo. Maria non aveva nessun sogno di grandeur, voleva un uomo onesto, si sarebbe accontentata della casetta tre stanze, di una vita modesta ma dignitosa. Non si sono capiti, non si sono intesi. Volevano cose diverse. Non si parlano lamenta Pasquale, non si sono capiti e per cui non riescono a capirsi. Vale per ogni coppia, non sapersi dire tutto. Dice: «E forse, ci portiamo un cuore gonfio di amarezza, di tristezze, di tenerezze, che, se solamente per un attimo, riuscissimo ad aprire l’uno con l’altro… Ma niente… Deve restare chiuso … Poi ad un certo punto si perde anche la chiave e chi la trova più! Noi abbiamo perso la chiave, Maria..». Siamo nel dis-amore e nella dis-comunicazione di coppia come direbbe oggi un terapeuta. L’intermittenza del cuore in salsa napoletana.
Infine, lo spettacolo lascia tutti con il dubbio, con la sospensione del significato. In pratica, molti si chiederanno con il classico ma ci fa, o ci è. Sa del tradimento Pasquale, o crede veramente al fantasma? La risposta è semplice e letterale. Certo la moglie lo tradisce, Pasquale Lojacono lo sa perfettamente. Ma lo tradisce con un fantasma. Alzi la mano chi possa essere geloso di un fantasma. Poi, il sipario cala prima della tragedia. Perché nel Novecento le tragedie non possono essere più messe in scena.

Michele Infante

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