TEMPI MODERNI di Massimo Famularo
TEMPI MODERNI
di Massimo Famularo
Ceno spesso da solo e non di rado mangio roba scaduta. Più che altro capita per distrazione o per indolenza. Torno dal lavoro completamente rincoglionito e non ho nessuna voglia di prepararmi da mangiare. Una scatoletta di tonno, pane, formaggio, salumi affettati, o al massimo un pezzo di pizza. Mangiare fuori può andar bene ogni tanto, ma non sempre. Costerebbe troppo e poi farlo da soli è quasi più squallido che restare a casa. Bella vita no? Il migliore dei casi è quando mi riesce di mettere in forno un surgelato. “La mia ex moglie mi chiamava sushi, che significa pesce freddo”. A volte, mentre mangio, mi sembra che ci starebbe bene una battuta del genere. Ma forse no. Io, poi, neanche ce l’ho una ex moglie.
In compenso ho un lavoro nella new economy, vale a dire che lavoro tutti i giorni fino al completo esaurimento delle mie capacità mentali: in proporzione il mio stipendio è risibile e la maggior parte delle persone che conosco (a dire il vero qualche volta persino io) non riesce a capire esattamente cosa faccio nella vita. Quando fai un lavoro come il mio non esiste una parola in italiano per qualificare esattamente il tuo ruolo, e se ne esistono spesso hanno un significato fuorviante. Per di più se provi a spiegare il contenuto delle tue mansioni ti accorgi che si tratta di una quantità eterogenea di attività difficili da esprimere in modo sintetico. Per concludere, quando provi a descrivere l’attività svolta dalla società per cui lavori, sperando che sia più esaustiva del ruolo indefinibile che ricopri, ti guardano in modo perplesso e finisci per lasciar perdere. La cosa ti procura una inconscia e latente invidia per quelle persone che alla domanda “che lavoro fai ?” possono rispondere con una sola parola come dentista, infermiere o metalmeccanico, o quantomeno con qualcosa di generico ma non equivoco tipo commerciante o imprenditore.
Mi bruciano gli occhi, ho usato il computer per un numero di ore che viola la convenzione generale sui diritti dell’uomo. La schiena mi duole ed ho un leggero mal di testa. Naturalmente non prenderò neanche un ora di permesso per rimettermi in sesto. Il primo comandamento della religione del lavoro moderno recita che chi si ferma rimane indietro, e che chi rimane indietro non raggiungerà più quelli che lo hanno sorpassato. Spero che la birra del discount faccia il suo solito effetto rigenerante reagendo con i tranquillanti e la camomilla alle erbe della mia vecchia mamma. Che alla fine vecchia non è, ma io sono talmente giovane e moderno (postmoderno?) che lei sembra un residuato di un’altra epoca.
Qualche ora di sonno mi rimetterà in grado di produrre anche domani la mia parte…
Guardo il fondo unto della scatoletta di tonno dove rimane qualche briciola di pan carrè e mi domando seriamente se ci sia un posto per me nella raccolta differenziata, magari tra i rifiuti organici. Ma poi, in modo subdolo, affiora il più sadico dei meccanismi che la natura ha messo a punto nei secoli per allungare la nostra permanenza nel dolore: l’istinto di conservazione. Arriva a tradimento, vestendo dolosamente i panni del moderno progressismo e della stolida fiducia nell’evoluzione. Il problema è che perseverando diabolicamente mi abbandono alla criminale pulsione positiva.
Così il palese sfruttamento lavorativo e lo spreco di tempo e di energie che caratterizza la mia vita lavorativa (o la mia vita e basta?) diventa un favoloso “investimento su me stesso”. L’incomunicabilità della mia professione si risolve per approssimazione verso il lavoro tradizionale che meno se ne discosta (così un business consultant diventa un commercialista, un web master un informatico e i financial analist, broker o trader diventano genericamente dei bancari). Mentre il lavoro interminabile e sottopagato diventa l’espressione più tangibile del dinamismo contemporaneo.
Qualche volta riesco anche a impiegare 10 minuti per mangiare, ma in genere non sono così lento. Comunque per oggi è fatta. Posso archiviare anche le elucubrazioni divaganti dell’ora di cena. Niente di nuovo sotto il sole insomma. Come dire? “Non so chi tra il riso e la pietà prevalga”.