DOMENICA DI LUGLIO Domenico Cacopardo
Quel fastidioso vento canale, la brezza di nordest che infilandosi nello Stretto di Messina, tra i monti delle due sponde, acquista virulenza, alza il mare con un’infinita serie di mezze onde, che vengono dette in gergo maretta, lo dissuase dal rimanere sulla spiaggia sin quasi alla partenza e mangiare qualcosa da Nino.
Vincenzo Videnti, prese i giornali, il cellulare, si infilò i calzoncini e risalì in casa. Fece la doccia, si rivestì con l’accappatoio e apparecchiò in terrazza. In cucina c’erano le zucchine in umido e i resti di un pesce spada alla ghiotta. Con un bicchiere di vino bianco di Donnafugata il suo pranzo era fatto. Stava per iniziare, quando arrivò Teresa.
«Nemmeno mi aspettavi», lo accusò, «l’aereo ce l’hai alle sei, sono le dodici e mezzo e già ti siedi a tavola a mangiare. Quando imparerai ad arrivare all’aeroporto al massimo venti minuti prima? Guarda i Coccitti: arrivano all’ultimo e riescono sempre a partire.»
Videnti sorrise, senza rispondere. Ogni partenza lo metteva in ansia e faceva sempre i bagagli un giorno prima. Aspettò Teresa che scaldava a dovere le pietanze e preparava una eoliana, un’insalata di pomodori con origano, olive e capperi, come piaceva a lui. Alle due e mezzo, vestito di tutto punto, scese nel portone, lasciò le due borse che si doveva portare dietro e si diresse all’Eric bar.
Un mare di sfaccendati – bagnanti che interrompevano la giornata al sole per una granita, anziani insonni, due tedesche, la pelle rossa come il peperone, ustionate dai raggi violenti di Sicilia – occupava tutti i tavoli. Quelli fuori e quelli dentro. Vincenzo varcò la soglia del locale, si accostò al bancone e chiese un caffè.
Si avvicinò Enrico, il titolare: «Dove va, oggi, dottore? La vacanza già finita è?»
«Martedì ho udienza» gli rispose, «debbo rivedermi i ricorsi. Ecco perché torno a Roma oggi che è domenica. Ma giovedì sarò di nuovo qui, a bermi il tuo pessimo caffè.»
Enrico sorrise: «Ma sempre qua viene a prenderselo il caffè!»
«Solo per il ricordo di tuo padre», gli replicò ridendo Videnti che aveva in un attimo vuotato la tazzina ed era di nuovo fuori. Traversò la strada: una sorpresa insperata. A quell’ora insolita, il negozio di Pippo era aperto. Entrò a salutare quel suo giovane amico che faceva l’antiquario e il gioielliere. Avrebbe speso un’altra mezz’ora. E il momento della partenza si sarebbe avvicinato, facilmente.
Pippo gli mostrò l’ultimo pezzo che aveva trovato a Montedoro, in provincia di Caltanissetta: una toletta, meglio una pettiniera. Uno di quei mobili da signora che, posti nella camera da letto o nel guardaroba, consentivano alle siciliane di mettersi a posto, incipriarsi, profumarsi e sistemare la capigliatura.
«Ne ho due in casa» commentò Vincenzo, «anzi le avevo. Se le pigliarono le mie figlie. Cose di famiglia, merce rara.»
Venne fuori la politica. Nel municipio era cambiato un’altra volta il sindaco, ma, come sempre, il bello e il cattivo tempo lo faceva Gianni Brontolone. Il consiglio comunale era ormai in scadenza e le elezioni sarebbero state celebrate in autunno. Si prevedeva la discesa in campo del generale, un alto ufficiale ormai in pensione che passava gran parte del suo tempo a Letojanni.
Pippo, però, non ce l’aveva con il comune, ma con il Governo. Tirò fuori l’omicidio di Falcone, della moglie e della scorta: «Niente successe da allora» osservò, «qui fanno un attentato tipo Beirut e nessuno sembra accorgersene. Nessuno trova niente. Hanno ragione i picciotti che a diciott’anni se ne vanno in continente. Hai visto Sciacca: Filippo si laureò e, invece di aiutare il padre nel mobilificio, se ne andò in Lussemburgo.»
«Pippo, pazienza bisogna avere», cercò di rasserenarlo Vincenzo, «le indagini sono lunghe e difficili. Vedrai che i carabinieri e la procura presto annunceranno di avere catturato i colpevoli. Io penso che la mafia sia alle corde. Un gesto come quello di ammazzare Falcone, e in quel modo, lo può fare solo una banda criminale che è alla disperazione. L’ultimo fuoco, come a Berlino nel quarantacinque.»
«Ma quando mai, Enzo» insistette Pippo, «qua la gente se ne frega. Nessuno parla. L’omertà è sempre la stessa: e non capiscono che la situazione ci frega tutti. Io quest’anno vedo più zaurdi del solito, giovinastri dell’interno. Vengono, fanno un bagno a mare, mangiano i panini che si sono fatti preparare a casa, sporcano e se ne vanno senza spendere una lira. Il turismo, quello della gente del Nord con i soldi, quest’anno non l’ho ancora visto. E tu dici che cercheranno, troveranno. Intanto la crisi c’ è qui e ora. E le persone per bene sono fregate. Fregate. Quannu l’omu cc’a liggi cuntrasta, a forza vinci e a raggiuni non basta .»
«Sono d’accordo, Pippo. Lo Stato deve essere forte», concluse Vincenzo. «Il problema è che in Sicilia il senso dello Stato non c’è. Lo Stato non punisce, mentre la mafia lo fa e in modo inesorabile. Ora la situazione è cambiata per merito di alcuni magistrati coraggiosi. Vedrai che migliorerà ancora. Questa non è una battaglia contro una banda criminale. Questa è una guerra contro l’antistato. Ci vuole tempo. E la gente deve scegliere di stare dalla parte della giustizia.»
Si erano fatte le tre e mezzo. Il vento canale alleviava il calore di quel luglio. Videnti salutò e andò a prendere la macchina, che era parcheggiata sulla statale. Fece il giro e raggiunse casa. Caricò i bagagli e partì per Catania. Per strada, nonostante fosse la controra, c’era molto traffico. Ci volle un’ora e un quarto per arrivare all’aeroporto di Fontanarossa. Sistemò la R 5 nel parcheggio incustodito, levò la radio, la infilò nel borsone e si avviò al check-in. Era ancora presto: le quattro e tre quarti. L’aereo per Roma partiva alle sei meno dieci. Si mise in fila, c’era un mare di gente. Al solito. Tutti fumavano, anche sotto i cartelli con il divieto. Pensò: ‘Voglio fotografarli, una volta o l’altra, per mandare la foto a un giornale, questi maleducati, e dimentico sempre la macchinetta.’ Giunse il suo turno, prese la carta d’imbarco, andò al bar su, al piano di sopra. La scala mobile era rotta. Al solito. Ordinò un caffè, il sesto della giornata. Sembrava un alveare, quell’aeroporto, domenica diciannove luglio 1992. Tutti i sedili occupati. Giovani in terra. Montagne di bagagli sui carrelli, fermi in posizioni strategiche, impedivano il transito dei viaggiatori. E nessuno se ne incaricava. La cosa più sorprendente era osservare che, nonostante l’inestricabile confusione, di tanto in tanto qualche aereo atterrasse o decollasse. Un vero e proprio miracolo. Non c’ era un posto dove sedersi a leggere il libro che si era portato dietro, Vineland di Thomas Pynchon. Decise di varcare il controllo di sicurezza per cercare all’interno, nella sala d’imbarco. Finalmente trovò una poltroncina libera tra due signore. Si levò la giacca: si moriva di caldo. L’aria condizionata non funzionava e l’umidità superava l’ottanta per cento. Il vento canale non arrivava a Catania. Gettò un’occhiata alle sue vicine con distratta curiosità. Una era giovane, aveva il pancione e soffriva visibilmente il caldo. Nonostante tutto, manco a dirlo, fumava. L’altra avrà avuto la sua stessa età: cinquantacinque, al massimo cinquantasei. Era elegante e sventolava un ventaglio di carta a fiori, anni trenta: una distinzione.
Videnti aprì il borsone e tirò fuori il suo libro. Prima di cominciare a leggere, faticosamente, in inglese, guardò l’orologio: le cinque e un quarto. Sul display venne annunciato un ritardo di trenta minuti. «Evviva!» borbottò. Erano passati cinque o sei minuti quando suonò il telefonino. ‘Chi rompe, di domenica?’ si chiese prima di rispondere, ‘A quest’ora la gente normale dorme o è a mare’. Era Giuliano, di turno alla Gazzetta di Parma.
«Enzo, l’Ansa dà un altro attentato. A Palermo. Sembra a Borsellino. Solo feriti.»
«Come? Un’altra bomba?» domandò Vincenzo.
«Non so niente. Ti richiamo appena viene qualcosa» promise Giuliano.
‘Che schifo’, pensò, ‘un altro colpo a questo paese di merda.’
Risuonò il cellulare.
Questa volta era Valerio, suo figlio. Anche lui di turno. «Papà, la Reuter ha battuto la notizia di un …»
«A Borsellino», non si levava mai il vizio di interromperlo, «ma hai particolari?»
«No, solo l’annuncio dell’attentato. Dove sei?» riprese Valerio.
«Sono a Catania, in aeroporto. Se trasmettono altre informazioni richiamami», concluse. Non era possibile tornare a Pynchon. Riaprì il borsone e ripose il libro.
Ancora una volta suonò il telefono.
Era Giuliano: «Enzo, hanno ammazzato Borsellino e cinque persone di scorta. Un’autobomba sotto la casa della madre. Una strage.»
«Come, cinque morti?» domandò, gridando.
«Sì, proprio così, una tragedia» confermò l’altro.
«Scusi signore, che successe?», chiese una vicina, la più anziana.
Alcuni curiosi, sentendo la concitata conversazione telefonica e il tono crescente della voce di Videnti, si erano appressati.
«Hanno ammazzato Borsellino e cinque persone della sua scorta. Un’autobomba. Sotto la casa di sua madre» urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
La signora lo osservò, quasi non capisse.
Enzo si guardò intorno. Vide le facce stupite dei presenti, mentre la donna, a voce molto alta, commentava «’ntra iddi si ‘mmazzanu », riscuotendo dai presenti segni di esplicito consenso.
Videnti ebbe un attimo di smarrimento. Gli venne da piangere. Invece, replicò, urlando: «Lei è una merda e da sola rappresenta tutta la merda siciliana, tutta la merda italiana!»
La gente saltò su, imprecando contro quell’uomo maturo, quasi vecchio, così maleducato. Solo un giovanotto, uno piccolino, bruno, dai lineamenti marcati, gli si avvicinò: «Venga con me, dottore, si calmi. Lei ha ragione. Ma certa gente …»