Racconti

55 SECONDI di Luca Masali

È una bella giornata di primavera. Come sempre, del resto. Sono quasi sessant’anni che presto servizio qui. Ventiduemila mattine di primavera. In questi anni, per fortuna non c’è stato molto bisogno di me. Oggi però mi tocca. Non so chi stabilisca chi deve stare dietro il bancone, o come faccia a sapere che c’è bisogno di qualcuno di noi. Ma sono molte le cose che non so.
Cosa sono sessant’anni, in fondo?
Un’occhiata all’orologio mi dice che sono le 16,40. È pomeriggio, quindi. Naturalmente questo non vuol dire nulla per me. Fuori dall’ampia vetrata leggermente fumé, il sole è sempre quello delle undici del mattino, l’aria è sempre fresca e frizzante, con un leggero odore di fiori e di mare. Mi piacerebbe vedere il mare. È la cosa che mi manca di più. Ma devo accontentarmi del leggero aroma di salsedine.
Ogni tanto mi piace sognare ad occhi aperti, prendere una bicicletta e seguire il nastro d’asfalto della pista dell’aeroporto, finché non si perda in una spiaggia di sabbia. Mi piacerebbe togliermi le scarpe, camminare a piedi nudi coi granelli caldi tra le dita dei piedi. La pista è coperta da un leggero strato di rugiada, e si perde all’orizzonte verso est e verso ovest. Nessuno sa quanto sia lunga, naturalmente. Io sono convinto che sia infinita, ma naturalmente è una fantasticheria. Ai bordi della pista, sono allineati aeroplani di tutte le nazioni e di tutte le epoche. Lucidi nei colori allegri delle compagnie di bandiera, o opachi sotto le livree mimetiche delle aviazioni militari. A elica, a reazione, alianti, tutti insieme negli ampi piazzali di parcheggio. Pronti al volo, ma da che sono qui non ho mai visto partire un aeroplano. E neppure atterrare, se è per questo.
Sono le 16,42. I passeggeri sono arrivati: li vedo dalla finestra dietro il bancone, sono un centinaio. Eccitati come chi sta partendo per le vacanze, con i carrelli pieni di valige. Aspettano. È il destino di chi viaggia in aereo, aspettare. Credono di aspettare un decollo, invece aspettano una risposta. Ecco, arrivano le hostess e gli steward. La sala d’aspetto non è vicinissima, ma riconosco i foulard dell’Air France. Una hostess per caso guarda nella mia direzione. È una ragazza giovane, fiera di un incarico prestigioso. I suoi occhi scuri incrociano i miei. Mi chiedo se loro mi possano vedere, come li vedo io. È quasi ora. Sciacquo i bicchieri, voglio che tutto sia perfetto. Fare il barista mi piace. Credo.
Il bar è vuoto, i tavolini sono perfettamente allineati, senza un granello di polvere. Ecco, sono arrivati. Verso due martini, ma i due uomini non sembrano accorgersi di me. Sono piloti dell’Air France. Ecco perché è toccato a me accoglierli. Quello più vicino a me ha ricamato sulla manica i galloni del secondo pilota. È anziano, per non essere ancora comandante. Quasi mi avesse letto nel pensiero, si rivolge al primo pilota che lo accompagna.
– Sai che avrei potuto avere un comando tutto mio da anni?
L’altro sembra triste, non risponde neppure.
– Ma io volevo volare così. Amavo quell’aereo… Puoi capirmi, vero? Non sono come te, sempre al centro dell’attenzione. – Prende una manciata di pistacchi dal piattino, e continua: – Io non sono il tipo da attraversare l’Atlantico in windsurf… ma amavo quell’aereo. Il più bell’uccello del mondo, lo chiamavamo. Ti ricordi?
L’altro mormora qualcosa, a bassa voce. Il secondo mastica un pistacchio, con lo sguardo perso sulla pista infinita.
– Quando qualcuno di noi lasciava la squadra, e prendeva il comando di un aereo normale, gli facevamo una festa di addio. Come uno che va in pensione. Capisci? Loro lasciavano la squadra per fare carriera, in fondo. Per diventare comandanti. Ma per noi era come se la loro storia fosse finita. Non avrebbero più attraversato l’Atlantico viaggiando al doppio della velocità del suono. Non avrebbero mai più visto dal finestrino la curvatura della terra. La curvatura, te la ricordi? Hai mai guardato fuori dal finestrino corazzato? Ti sei mai sentito un po’ astronauta anche tu?
Il comandante sembra accorgersi solo ora del suo collega.
– Saremmo atterrati a pieno carico. Ho dovuto farlo, capisci?
– Tu hai fatto quello che ritenevi giusto.
– Arrivare a New York con centocinque persone, e tutto quel carburante. Tu cosa avresti fatto?
– Non è stato il reverse. Non è stata colpa tua.
– Non volevo partire, lo sai. Lo sai, vero? Cinquantacinque secondi… Mio Dio, cinquantacinque secondi!
– Andava tutto bene, i segnali erano verdi… ricordi? Mentre ti leggevo la check list, tu pensavi al reverse. Me ne sono accorto, sai? Quell’inversore che avevamo fatto montare, prendendolo da un altro Concorde. Ma ho notato che una parte di te prendeva nota di tutto quello che ti dicevo. Ti osservavo, eri preoccupato ma tutto andava bene, i computer dicevano che quel volo si poteva fare. Ricordo di aver anche scherzato, di averti detto che nessun Concorde era mai caduto, e non saremmo stati certo noi i primi.-
– La check list, certo… E la hostess che è venuta a chiederci se volevamo il caffè. Una brunetta carina, non avevo mai volato con lei. Tu l’hai voluto forte, senza zucchero. Come se ti preparassi a un volo lungo, su un Jumbo. E invece non sono stati neanche cinquantacinque secondi.
– Dal secondo uno al secondo dieci la macchina rispondeva come un orologio. Ho appoggiato la mia mano sulla tua, mentre spingevi le manette in avanti. Come vuole il regolamento, certo… Perché tu non ti sbagliassi, perché non mi sbagliassi io. Da manuale. Ma volevo anche dirti non preoccuparti, va tutto bene. Il reverse non ci tradirà, vedrai che quando arriveremo in America freneremo in un fazzoletto. Come sempre.
– Nei primi secondi la pedaliera era molle, il timone non aveva autorità. Eravamo un autobus, sai? Un grosso autobus con le ali.
– Il timone non ha mai autorità, prima del secondo dieci.
– E quando tu hai annunciato ad alta voce la V1, la velocità di non ritorno, eravamo un autobus che corre a trecento all’ora. Troppi per un autobus. È stato allora che la torre ci ha chiamato.
– Li sento ancora nelle cuffie… “Concorde, avete fiamme! Fermatevi!”
– Non potevamo fermarci, lo sai. Tu avevi chiamato la V1, dovevamo staccare. Dal cielo si governa meglio. Finché si è in cielo non può succedere nulla. Tu mi hai gridato “abbiamo un motore in panne!”, ma me n’ero già accorto, sai? La pedaliera non era più molle, l’aereo tirava tutto da una parte. Avevamo spinta asimmetrica, mentre il motore perdeva pezzi e li scagliava da tutte le parti.
– Quando ho chiamato la V2, la velocità di decollo, ho capito che non ce l’avremmo fatta. Mi chiedo dove hai trovato la forza di staccare, di portare in aria un aereo che bruciava come una torcia.
– Allora pensavo ancora di salvarlo, sai? Mi sono detto “facciamo un centoottanta gradi a destra, e atterriamo sulla pista militare”. Con un motore in fiamme potevo riuscire, lo sai? Potevo salvare la macchina.
– Ma non potevi sapere che le palette del compressore si sarebbero piantate come raffiche di mitra anche nel motore vicino. Quando l’ho spento, ho sentito che venivamo giù. Tu hai acceso i postbruciatori degli altri due motori… Me ne sono accorto dal rumore. Postbruciatori progettati per funzionare a duemila chilometri all’ora e ventimila metri di quota. Ma noi eravamo a venti metri da terra, e superavamo di poco i quattrocento chilometri all’ora.
Il comandante si aiuta con le mani, per mostrare l’assetto del Concorde.
– Ti ho gridato: “Dammi ancora sessantacinque chilometri all’ora, per la virata”. Ma non dicevo a te, in realtà. Credo che stavo pregando.
– La virata, già… Avevamo una coda di fiamme lunga duecento metri. Tutto kerosene che bruciava come un rogo, quando abbiamo attraversato l’autostrada. Tu eri pallido, mi hai guardato e hai chiesto “dov’è l’ospedale”? Non lo sapevo, non sapevo nemmeno dove eravamo noi. I passeggeri li hai sentiti?
– Forse. Ho sentito delle grida. Ma lontane. Sapevo che c’era l’ospedale, da qualche parte davanti a noi. E ho lasciato che la macchina si inclinasse un po’ nella direzione dei motori morti. Come insegnano a scuola, quando fai il brevetto sui bimotori a pistoni. Piede morto, motore morto… Dai un po’ di timone dalla parte opposta. E se ti manca solo un motore su quattro, la macchina è salva.
– Ma noi avevamo già perso due motori, al secondo trenta. Si vola ancora, con due motori.
– Stavamo bruciando. Dovevo scendere, trovare la pista militare. Ma dovevo fare quella virata. Ancora sessantacinque chilometri all’ora, solo sessantacinque. Avevamo ancora il carrello fuori, al secondo quaranta.
– Erano esplosi i pneumatici, ricordi? Lo sforzo di contrastare la spinta asimmetrica. O magari l’incendio, chissà. Oppure è stato il carrello che è esploso per primo e ha fracassato il motore.
– Non potevo scaricare il carburante, con quella coda di fiamme. Eravamo pesanti, lenti, senza potenza. Tutto vibrava, e abbiamo avuto il primo stallo, al secondo quarantasei.
– Uno stallo con il Concorde! Nessuno ne aveva mai vissuto uno, prima di noi. L’ala è caduta di colpo, sulla destra. Tu l’hai ripreso, credo.
– Non so. Credo di sì. Dovevo virate! Dovevo, capisci? Davanti c’era la città.
– Non potevi virare, senza stallare l’ala interna. Lo sapevi tu, lo sapevo anch’io. Ma non potevamo nemmeno andare avanti. Ho spinto le manette dei motori supersititi avanti, a fondo corsa. I postbruciatori urlavano, urlavano come uomo torturato.
– Urlavano anche i passeggeri. Ricordi?
– I postbruciatori urlavano così forte che non ho sentito l’avvisatore di stallo, quando tu hai impostato la virata. Mi hai solo detto “reggiti, viro!”
– Ti ho detto che stavo virando? Veramente ti ho detto questo?
– Lo sai anche tu. Avresti potuto dire “tieniti, che precipitiamo”. Non potevi virate, in quelle condizioni. Lo sapevi anche prima che stallasse l’ala interna.
– Il secondo stallo. Ma il primo non ci aveva ucciso, l’avevo ripreso!
– Era uno stallo in volo livellato. Davvero credevi di riuscire a controllare uno stallo in virata, col Concorde che bruciava, a quaranta metri di quota e senza velocità?
– Dovevo virare. C’era la città, davanti. La pista militare…
– Sapevi che non potevi virare. Ma stavamo perdendo quota, c’era l’ospedale davanti. Se non viravi facevi una strage. Se viravi, stallavamo.
– Al secondo quarantotto, l’ala interna è partita in stallo. L’ho sentito di colpo che partiva, è come cadere dagli sci. Un attimo prima sei lì che voli, male ma voli, l’aereo brucia ma voli, i passeggeri urlano ma voli. L’attimo dopo non sei più un Concorde. Sei un autobus scagliato nel cielo a quattrocento all’ora… Quattrocentosessantacinque e viravamo. Ma ne avevamo solo quattrocento.
– Al secondo cinquanta, il naso è schizzato verso il cielo. Come se il Concorde volesse portarci via dalla terra, su, nella troposfera, dove è abituato a volare. Al Concorde non piace volare nell’aria densa, dove ci sono le nubi e la nebbia. Vuole l’aria pulita e rarefatta delle alte quote, per i suoi motori. Al secondo cinquantadue, il naso è tornato verso terra. Tu hai visto l’albergo?
– Io guardavo l’orizzonte artificiale. La pallina è diventata tutta azzurra, poi tutta marrone. Non mi sono stupito, mi sono solo chiesto come dev’essere morire.
– Hai pensato ai passeggeri?
– Ho pensato a mia figlia. Forse. Non so, non ricordo. Ho pensato al reverse guasto, ho pensato che una volta a terra avrei protestato con la compagnia. Non mi va di volare su un Concorde che non è al massimo dell’efficienza. Ho pensato che era ora di andare in vacanza, che avrei portato mia figlia al mare. L’orizzonte artificiale era tutto marrone. Vuol dire che il naso del Concorde puntava dritto a terra. Ho pensato… Beh, ho pensato che era strano.
– Che cosa era strano?
– Non avevo mai notato che l’orizzonte artificiale aveva un graffio sul vetro.
– Io non ho sentito arrivare lo stallo. Sapevo che sarebbe arrivato, lo sapevo da quando avevo capito che avresti virato. Ero così pronto a riceverlo che non me ne sono neanche accorto. L’ho vissuto dieci volte nella mente, e quando è arrivato quello vero non me ne sono accorto. Ho pensato che una volta mi sarebbe piaciuto comandare un Concorde. Ma ero troppo vecchio, bisogna cominciare la carriera prima dei trent’anni per arrivarci, e ne avevo già cinquanta. Non avevo più i riflessi giusti, tanto che non sono nemmeno riuscito a sentire lo stallo. Ma ho visto l’albergo, sai? Ho pensato che non era giusto, con tutto lo spazio proprio lì dovevano costruirlo?
– Cinquantacinque secondi. Il volo più lungo della mia vita.
Il secondo sorseggia il suo martini, e anche il comandante lo imita.
– Cinquantacinque secondi… Potevo riuscirci, sai? Sessantacinque chilometri all’ora in più non sono molti. La pista militare non era lontana, con un motore in fiamme potevo salvare la macchina.
– Due.
– Due cosa?
– Due motori, e un incendio. E un carrello guasto. E un ospedale da evitare, e una città davanti. Non è stata colpa tua.
Tossicchio per attirare l’attenzione dei piloti. Mi guardano come se mi vedessero per la prima volta. Sono pallidi, con l’espressione smarrita che hanno sempre i clienti di questo bar aeroportuale. Il secondo mi fissa incerto.
– Signore, ci conosciamo? – chiede con voce incerta. È ora che io mi presenti.
– Mi chiamo Antoine De Saint-Exupery.
Il comandante si illumina. – Oh. Ho letto Vento, Sabbia e Stelle…-
Il secondo non lo lascia finire. – Il pilota autore del Piccolo Principe! Ma voi non siete morto? – Arrossisce, e abbassa lo sguardo. – Perdonatemi, è una domanda sciocca.
Sorrido, mio malgrado. – Le domande sciocche sono quelle che più difficilmente hanno una risposta. E voi, avete una risposta?
Mi guardano senza capire. Indico loro i passeggeri, gli steward e le hostess che aspettano chiacchierando rilassati nella sala d’aspetto. A loro si sono aggiunte anche altre persone, gente che era in un albergo e si sta chiedendo che cosa ci fa in un aeroporto vuoto.
– Loro aspettano una risposta da voi.
– Da noi? – Chiede il comandante. – Ma noi non sappiamo cosa rispondere.
Verso un altro liquore ai piloti, e dico: – Lo so. Nessuno di noi ha mai una risposta. Ma vi aspettano.
Il comandante vuota d’un sorso il suo Martini, e si avvia verso la sala d’aspetto. Il secondo lo segue senza una parola. Le domande sciocche sono come quelle essenziali. Non hanno mai una risposta, perché bisogna porle a chi sa. Il difficile è sapere chi è.

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