CAPITANI DI LUNGO CORSO di Davide L. Malesi
Non credo di poter fare a meno
dell’incavo latteo dietro il tuo
ginocchio. Non credo di potere.
Fare a meno delle tue mani, io
non intendo. Quello che tocchi
diventa uno di quei giorni di brutto
tempo: in cui barricarsi in un serraglio
di lenzuola
è
l’unica cosa, l’unica,
da fare. Le tue
natiche. Uno scultore – non uno
dei peggiori – smanierebbe
di toccarle, di percorrerne
le geometria con i suoi baci. Sei
aldilà di ogni redenzione. Ti
detesto. Per te si può uccidere. Mi
stupisco di non averlo già fatto.
Ti amo. Di notte, ti scavo in cerca di
tesori,
sordo
alle tue urla.
Anche di giorno
ti scavo, se mi capiti
a tiro. Disgraziata, tu. E io pure. Il mare
che navighiamo, non conosce approdi.
Davanti
ai
miei
occhi,
vorrei che tu fossi sempre nuda. La mattina, appena
sveglia, ancora spettinata e odorosa di sonno, mi dici:
buongiorno.
Detto da te, diventa un fatto
di lussuria. La visione dei tuoi gesti
m’infligge un desiderio tormentoso. Tu:
che ti siedi. Tu:
che leggi. Se leggi
ad alta voce, poi, l’indecisione:
farti tacere chiuderti la bocca infiladoti la lingua tra le labbra
oppure godere dell’ossesso che è la tua voce morbida come –
la carne del tuo seno –
ogni tuo gesto
ogni tuo gesto
è l’invadenza del temporale che percuote le finestre.
Tu, che ti allacci il reggiseno. Visione ingiusta.
I tuoi seni dovrebbero restare
liberi, fuggenti. Dovresti essere sempre
nuda. L’ ho già detto? E che m’importa? Tu non mi dai
retta, continui
a indossare abiti. Un gesto innocuo
come
ad esempio
calzare un paio di sandali, per uscire
di casa: fatto da te, è un invito ad abusare del tuo corpo. Dove
vorresti andare, poi? Vieni qui, piuttosto.
Farai tardi?
Non m’importa. Per il desiderio che ho
di te, è sempre tardi. Anche se
ti ho avuta un momento fa, mi pare un secolo. Sei bella
quando mangi. Devo darti da mangiare io stesso, con la bocca
dovresti prendere il cibo dalle mie mani. E’ ingiusto Dio
che ti ha fatta come sei. Ti amo. Quando sto
dentro
di te, sono vivo.
Fuori, già molto meno.