UOMINI ALLO SPECCHIO. Confessione di Walter Pedullà
È tempo di bilanci, naturalmente consuntivi, non essendo più ammessi alla mai età quelli preventivi. Lungo è il passato, breve il futuro, sia pure ora e qui quello che si adatta al luogo in cui siamo convenuti.
Dalla periferia al centro e da questo a quello. Quasi una storia che si ripete, non dal mio punto di vista personale ma anche da quello culturale: cioè una storia italiana. È lo stesso viaggio che fa sempre la letteratura italiana: dal dialetto alla lingua, dalla marginalità alla centralità, dal locale al nazionale, dal particolare all’essenziale, e così viaggiando da pendolare in una cultura che deve trasgredire se vuole integrare nuove energie per crescere. Naturalmente anche dal Nord al Centro: come dire, non solo il Sud, di Pirandello, Brancati, Vittorini e D’Arrigo ecc., ma anche il Nord di Svevo, Gadda, Fenoglio ecc. Nonché l’Est e l’Ovest, dai italiani di Grecia (Savino) e d’Egitto (Ungaretti, Martinetti), o di Cuba (Calvino). Anzi ogni Est ed Ovest della cultura: Francia e Spagna, Germania ed Inghilterra, Russia e Usa.
Così ha viaggiato la letteratura italiana del Novecento, cercando di tesaurizzare esperienze che non poteva aver fatto per ritardo o letargo. Pensate al ritardo culturale che deve colmare uno che come me viene dalla Calabria degli Anni Trenta.
E tuttavia non conta mai il punto di partenza ma quello di arrivo. Insomma una corsa ad handicap la mia. E non mi lamento. Ad altri è andata peggio.
Ne ho dette e sentite di parole in settant’anni! Una professione orale, ma non sono pochissimi gli scritti. Articoli, saggi, monografie, volumi, prefazioni, introduzioni, relazioni. Diecimila pagine, più o meno. Se fosse ancora da leggere il 10%, più o meno, sarei felice. È troppo, torniamo ai fatti. Faccio ancora troppo, mi dico sempre che dovrei fare di meno e meglio, ma non sono certo se è meglio se faccio di meno. Talvolta mi riesce meglio quello che faccio in fretta. La verità è che sono lentissimo, oppure riscrivo dieci volte la stessa pagina, per accorgermi magari che la migliore stesura era la prima. Scrivo per necessità e mi devo affidare al caso. Sono diventato per caso critico militante: poi è diventato una necessità: lo faccio ormai dal 1959.
Da oltre quarant’anni faccio il pendolare tra Università e giornalismo culturale, tra Università ed editoria, tra Università e Televisione, tra Università e Teatro, tra un istituzione e l’altra, da un istituzione ed i movimenti politici, da un partito, sempre lo stesso, a un sindacato, sempre lo stesso. E sempre nella sinistra, cocciutamente, con al caparbietà attribuita ai calabresi. Tra i quali sono vissuto per oltre venticinque anni della mia vita facendo lezioni private dall’alba alla mezzanotte, io mi riposo cambiando lavoro, ne ho fatto sempre almeno quattro o cinque. Università o Scuola, editoria, giornalismo, TV o teatro, libri e politica. Libri che fanno politica col tema e con il linguaggio. E quanto più è nuovo il linguaggio, tanto più si è attuali in politica. Così è fatta la critica militante che io pratico da oltre quarant’anni: se si sta attenti a come un epoca scrive, si veda quello che pensa di fare. Potessimo fare la metà del massimo di novità che progettiamo. La novità non realistica che va verso la realtà possibile. Fantasia e calcolo, interesse ed erotia, idealismo delle avanguardie surrealiste e non. “Oltre la realtà”, consiglia il mio corregionale Corrado Alvaro, cioè verso un altra realtà.
Due anni dopo l’inizio della mia attività universitaria, arrivarono gli anni Sessanta, decennio di sperimentalismo, boom economico, prove tecniche per governare l’Italia da Sinistra. Io supportai le lezioni di Debenedetti, con esercitazioni e seminari sulla letteratura dell’ultimo secolo, i protagonisti della poesia (Ungaretti più di Montale, Palazzeschi Gozzano non meno di Saba, Govini meno di Campana) ed i linguaggi della narrativa con particolare attenzione alle avanguardie vecchie e nuove (Palazzeschi e Savino in specie modo), ai Vociani, al neoespressionismo, o comunque si voglia chiamare il plurilinguismo (per esempio Gadda, Testori, Pasolini, Fenoglio, D’Arrigo, Mastronardi, Arbasino, ecc.). Dopo i numerosi pendolarismi della mia vita precedente (da Siderno a Locri, da Siderno a Messina, da Lagonegro a Roma, da Roma a Latina), praticavo un “pendolarismo culturale” tra secoli, tra letterature, tra linguaggi, tra temi, tra punti cardinali: con attenzione particolare al Sud, per via della questione meridionale, di cui avevo fatto esperienza sulla mia pelle. Preferivo sempre di più i periferici (Svevo, Pirandello, Gadda, Fenoglio e D’Arrigo) agli scrittori del centro.
Dovunque devono approdare tutti, come si vede da Bontempelli e da Alvaro, da Moravia a Landolfi, da Brancati a Calvino. È ben fecondo il decentramento sintattico, fantastico e strutturale. Ecco: andavo scoprendo un nuovo uso della parola struttura, che da marxista eretico accoppiavo sempre con l’attributo “economica”: cioè la struttura dell’opera letteraria.
Il Maestro era naturalmente Debenedetti, ma imparavo a insegnare modi di interpretare la modernità con la “Nouvelle critique” (a cominciare da Poulet), Sartre, Barthes, Foucault, Deleuze, Lacan, il giovane Lukacs, i formalisti russi, da Sklovskij, a Jakobson, a Bachtin, la Scuola di Francoforte, più Benjamin che non Adorno, Edmund Wilson, Kermode, Frye, Thrilling, Ortega y Gasset, i fenomenologi, i neomarxisti. Gli strutturalisti e poi semiologi. Tutti i metodi ma nessuno da integralista del nuovo (più compagno di strada che non organico al credo arrivato dall’estero). Ogni metodo di indagine che aprisse varchi per leggere il presente e il passato, e tuttavia non solo audaci esperimenti di innovatori: necessarie e urgenti le verifiche puntuali sui testi. Che grande sperimentalismo era la narrativa di D’Arrigo respinto dalle neoavanguardie! Il più efficace approccio alla struttura poteva essere il saggio di Debenedetti, che affondava il sondaggio dove la materia atomica, la psicologia del profondo, le strutture portanti della società sembrano avere lo stesso disegno, quand’anche fosse costretto a conservare un elevato quoziente di informale. Dell’informe si nutre il critico che deve tradurre proprie la X che fa la critica ambigua dell’intero sistema letterario. La critica sia scientifica ma non dimentichi di essere fatta pure di fantasia divinatrice. Dovevo assolutamente procurarmi un gusto con cui farmi piacere le opere che culturalmente condividevo: ho sempre cercato emozioni intellettuali incluse quelle che l’intelletto no sa spiegare.
Inutile dire che naturalmente seguivo quello che di originale e di importato scrivevano i pensatori (Della Volpe o Paci) e i critici non solo di letteratura italiana (Praz, Macchia, Ribellino per esempio). Aspiravo a diventare un critico e uno storico letterario e non ho mai scritto né un verso né un racconto. Come un personaggio di Molière, ridicevo che il critico è pur sempre un prosatore. Fare la critica come si deve in quel preciso momento, ma bisogna scrivere come nessuno ha fatto prima. Potrebbe avermelo detto Giacomo Debenedetti, per il quale uno stile unico vale più delle idee, ancorché originali. Le idee se ne vanno, lo stile resta. Mi piacerebbe che il mio stile si riconoscesse senza tenere conto delle idee, anche se ho provato a pensarne di originali. Viva il moderno che è sempre attuale, dice Pirandello. E viva Pirandello!.
Ho recensito centinaia di volumi di saggistica letteraria, come vedrebbe subito chi consultasse le annate dell’ ”Avanti!” dal settembre 1961 al 1992. Grandi e piccoli, piccoli che sono diventati grandi, e grandi che sono diventati piccoli. Migliaia di recensioni lunghe quanto brevi saggi: non di rado un’intera pagina di giornale-lenzuolo. Che raccolsi in volume, in più volumi, dal ’68 (La letteratura del benessere, il primo libro) al ’93 (Le caramelle di Musil). Oscillava il mio gusto dagli Anni Cinquanta (poteva un meridionale non essere un po’ neorealista quando i fatti sono così drammaticamente eloquenti che pareva fosse di troppo lo stile individuale?) agli Anni Sessanta, decennio in cui Debenedetti teneva le lezioni che avrebbero formato il suo capolavoro e in cui io sperimentavo ogni forma della modernità nata dalla crisi del realismo.
Approderà sempre un giorno la realtà dove ha previsto l’avanguardia? La post-avanguardia è il giorno della raccolta di quanto si è seminato? È il neoclassicismo dell’avanguardia? Sembrano ossimori ma potrebbe non trattarsi solo di figure retoriche. Naturalmente non ho mai creduto al realismo socialista. Ero poco realista come socialista, anzi fui parecchio massimalista. Il riformismo cui sono approdato è la post-avanguardia di chi un giorno ha creduto nella rivoluzione. Debenedetti, che era diventato comunista, era anche meno realista di me, ma entrambi eravamo dei visionari (altro ossimoro frequentato è il realismo visionario). Diciamo realismo magico, anche se io, che molto spesso ho parlato bene agli studenti di Bontempelli, non sempre preferisco le parti lisce del suo stile alla “scrittura con la gobba” – così definita da Moravia – di Gadda. In quanto a Moravia, ho stroncato un solo suo libro: la raccolta di racconti intitolata L’automa, ma ho recensito positivamente almeno cinque sue opere narrative. Si al novelliere, si la prosatore, si al viaggiatore. Invidiavo la sua scarna perspicuità ma mi allenavo per una prosa accesa o squarciata dalle metafore. Parole che suggeriscono verità irraggiungibili per chi si limita a nominarle per ideologia o per partito preso. Ho sempre amato danzare in campi di tensione che danno energia e scosse alcuni minano il terreno, che in apparenza è rassicurante, ed invece è sempre lì lì per esplodere: Svevo, Savinio, Palazzeschi, Zavattini, Landolfi, Bilenchi, D’Arzo, Fenoglio, Calvino, Lampedusa. Al quale mi convertii in tarda età. Meglio tardi che mai. Presto però ebbi chiaro che l’espressività funziona non solo quando è libertà come negli espressionisti o nello schizomorfismo del neoavanguardie ma anche quando è repressa. Ora è giustamente brilla in alto come astro Giorgio Caproni, un poeta che ho frequentato pure per i comuni ideali socialisti, anche se non mi è ami bastata la comune fede socialista per essere indulgente, verso opere che non apprezzavo, quand’anche fossero di Bassani o Cassola.
Ero un informatore librario molto aggiornato, perché come ho detto, contemporaneamente all’insegnamento universitario, a quello in un Istituto Tecnico, facevo il critico militante e il redattore culturale, prima del settimanale “Mondo Nuovo” (1959-61) e poi dell’”Avanti!” (1961-62).
Confesso che talvolta credo al talento naturale, anche se io ho imparato a scrivere con tenacia instancabile, ma a me non viene nulla naturalmente. Naturale io lo divento con accanita ricerca. Cambiando scrittura dall’articolo al saggio, dalla recensione al libro. Il linguaggio! Semmai i linguaggi. A settant’anni non mi piace come scrivevo a trenta, anche se le mie battagliere recensioni degli Anni Sessanta conservano accaniti tifosi. Alla mia età attuale, si tifa per la post-avanguardia? Non è il post-moderno, nostra attuale prigione dorata. E tuttavia ripeto: “Che curioso non mi fai schifo”.
Ovviamente aspetto sempre che arrivi la nuova novella, cioè il linguaggio che ci farà capire che siamo in gabbia e che urge rompere le sbarre. Non ho dubbi: la letteratura non muore mai e forse nemmeno il romanzo. Muore sempre e solo un modo di fare letteratura e di scrivere romanzi. Nessuno riesce a dare risposte alle situazioni come sa fare la narrativa. Altrimenti perché avrei passato la vita a leggere e rileggere romanzi, fino a cariarmi i denti, come dice Walter Benjamin, un critico ed un pensatore che mi ah insegnato a leggere ogni tipo di letteratura.
Ho avuto un allenatore, secondo il quale bisogna saper giocare in più ruoli. Da pioniere che apra la strada a quel popolo che ha scelto il melodramma quando i narratori italiani non erano capaci di scrivere romanzi all’altezza dei russi dei francesi e degli inglesi. Appresi la lezione di non disprezzare in modo preconcetto nessun autore, nessuna poetica, nessun’arte, quand’anche fosse stata la tv. Se ne può fare anche di buona qualità. Come per il cinema. Come per i libri, bisogna giudicare caso per caso. Uno scrittore invece di un altro, meglio talvolta chi si colloca politicamente sul fronte opposto al tuo, un movimento culturale piuttosto che un altro ma privilegiano il risultato artistico (cioè la sua emozionante verità), che non di rado trionfa su una poetica vincente. In certe epoche alcuni linguaggi si fanno affidare la delega storica: illuministi, romantici, veristi, simbolisti, avanguardie, neorealisti.
Con i gruppi numerosi la letteratura è attività anche politica: magari anche capaci di strozzare quella che dicesse cose contrarie a chi crede di cambiare il mondo. Ma attenzione agli isolati.
Chi è interessato all’originalità (tanto per parafrasare il nome di questa rivista) che rende unici gli artisti, deve conoscere tutto il passato se vuole notare, la differenza che fa il reale novità. Non avrei mai compiuto l’errore, come capitava ad altri critici militanti, di parlare di rivelazione a proposito di Carlo Dossi, che si era rivelato almeno tre volte prima che lo riscoprissero gli Anni sessanta del Novecento. Ho quasi da sempre saputo che tecniche come il monologo interiore hanno radici millenarie, che il plurilinguismo è nato prima di Dante, che i dialetti forniscono energie alle lingue collassate. E stavo attento a come e quanto rendeva il loro riciclaggio in epoca moderna. Vedevo la ripetizione e cercavo la differenza. Le svolte radicali piccole (la Scapigliatura, il Gruppo ’63) e grandi (le Avanguardie Futuriste, espressioniste e surrealiste). Piccola senza dubbio quella della neo-avanguardia ma sempre meglio che la paralisi, si allo sperimentalismo forte, ma la grande questione è sempre la stessa: chi scriverà il libro che ci farà intuire chi siamo, dove siamo, e dove stiamo andando?
Per esempio fui compagno di strada in poesia, di Andrea Zanzotto, Elio Pagliarani e di Amelia Rosselli, e, in narrativa, di D’Arrigo, Pizzuto, di Malerba, di Manganelli, di Delfini e Pallazzeschi, che a ottant’anni, era giovane quasi quanto era stato sessant’anni prima e che era molto più giovane di molti narratori e di poeti di avanguardia e non. Era ringiovanito anche Gadda e non mi parve mai invecchiato Savinio. Il giovane Zavattini resta giovane per sempre.
Si discuteva molto, ognuno leggeva i suoi libri e tutti leggevano gli stessi libri, commentavamo le opere per quello che erano artisticamente e per quello che diventavano culturalmente e politicamente. Si può fare in modo che la forma inedita diventi presto significato da usare ai fini di innovazione civile? Pionierismo artistico-avanguardia politica? Si interpretava quotidianamente il mito di Sherazade, colei che doveva inventare ogni notte una storia diversa. Si tirava mattina nella speranza che bisognava essere puntuali quando sarebbe spuntato il nuovo giorno. Ora ne sorrideremmo ma credevamo che la cultura rivoluzionaria avrebbe generato addirittura l’uomo nuovo. Ci sbagliavamo ma abbiamo preparato il terreno a riforme che hanno migliorato la qualità della vita. Nella mia Calabria oggi si guadagna in un giorno quanto cinquant’anni fa si guadagnava in un mese. Prima sette persone in una stanza, ora sette stanze per ogni persona. Mi è difficile non credere al progresso, anche se il bilancio è rosso quando si vedono nella tv a colori i cruenti delitti di mafia.
Anche dalla critica pretendo me lo si racconti bene, con un’attrazione che non mi lasci fino alla fine. E naturalmente amo narrare il prima e il pio di un’opera di cui scrivo. La critica che narra può suggerire qualche cosa che diventa banale a nominarla. Invecchiando inseguo il piacere corporale della lettura come premessa al godimento intellettuale che procura l’aver capito qualcosa che ti riguarda profondamente. Comicità, sperimentalismo, avanguardia, plurilinguismo, periferie linguistiche. Ore di lezioni su una pagina cercando e inseguendo il filo con cui era tessuta la struttura profonda di un’opera e di un autore. Notti intere a perlustrare testi che cedevano qualche segreto all’alba dopo ventiquattro ore di maniacali verifiche. Poi l’illuminazione, o l’abbaglio, che comunque faceva luce nel tuo rapporto col testo. Un quaderno pieno di appunti da cui ricavare un articolo, anzi un’articolessa. Che forse veniva pubblicata solo perché ero nello stesso tempio il responsabile della pagina libri. studiavo i libri appena usciti come l’ultima manifestazione della tradizione letteraria (la storia dei generi, le variazioni su un mito, un tema attraverso i millenni, le innovazioni e i neoclassicismi che eterni ritornano, le eresie, le alchimie, l’arte della combinazione). E allargavo il varco che si era aperto in un tessuto noto per andare a guardare cosa succedeva di là. Lancinante lo squarcio, anzi eri un altro. Riconobbi la strategia conoscitiva a me congeniale in due parole di Gadda: “deformarsi integrativo”. Si cominci con al deformazioni che fa conoscere l’ignoto e si finisce per integrare la trasgressione che rende accettabile un diversa rivelazione di te. Cercavo da solo la struttura capace di contenere il desino di tutti coloro che credevano possibile migliore il mondo in direzione dell’uguaglianza e delle libertà collettive. Ho riconosciuto subito La giornata dello scrutatore.
Se invece guardo di più alle manifestazioni superficiali cioè agli aspetti formali, mi piace aver raccolto nello stesso volume modi diversi di raccontare la critica. Un saggio “canonico” (Svevo); una costellazione di scrittori che al seguito di Pirandello hanno affrontato la modernità; un pastiche critico, un saggio cioè su Campanile alla maniera di Campanile; una storia della comicità come riso e come umorismo, come consolazione o come contestazione; un frullato di titoli per fulminare i connotati essenziali di Savinio, Gadda e Landolfi; storie e forme della letteratura come inconsapevolezza preveggente in Debenedetti; la rivolta espressioniste delle taciturne donne calabresi colte di sorpresa in un fugace gesto e fissate è per sempre da Alvaro; un discorso antifrastico sull’opposizione Lampedusa-D’Arrigo.
Avanza per antifrasi e altri giochi di parole il mio linguaggio che cerca le cose come une vicenda corre verso il destino di un uomo e di un epoca. Lo ho assunta come figura non retorica delle alternative perenni o storiche: tragico e comico, classico e barocco, trasgressione e nuovo ordine, elementare e complesso, particolare ed essenziale, originalità e d’integrazione, linguaggi alti e linguaggi bassi, monolinguismo e plurilinguismo, dialetti e lingua, follai e sapienza, letteratura e metaletteratura, lirica e narrativa, poetica e poesia, avanguardia e tradizione, realismo e antirealismo, forma e informe, gioco ab interiore e gioco ab exteriore, quotidianità e magia, naturalezza ed artificio, rivoluzione e riforma, nonché tutte le altre opposizioni con cui ha fatto molti passi in avanti, e parecchi indietro, il Novecento. La sua letteratura è solo una piccola fetta della letteratura di ogni tempo. A me è parsa saporita e nutriente, E ora mi è dolce stare sul confine che è la crisi ormai permanente e transizione perenne fra persistenze e differenze.
Cerchi profondamente la propria differenza un’epoca e allora si meriterà la persistenza che pare possa durare per l’eternità. Aspirava alla persistenza a furia di differenze deformanti Carlo Emilio Gadda, cioè “il narratore come delinquente”. Delinque anche il critico con il proprio linguaggio e gli verrà presa l’impronta digitale da conservare negli archivi. Purché naturalmente, oltre alla testa, cioè le idee logiche, spontanee e attuali, abbia pure la mano, cioè la scrittura che stila le parole come un pugnale. Mi fermo subito, sto pensando all’epigrafe, e invece per merito di voi lettori, io oggi mi sento molto vivo e persino vitale.