SENTIRE, SCRIVERSI, MUOVERSI. Letteratura di migrazione di Sara Picardo a cura di Seia Montanelli
“Ogni uomo è un mondo, ma lo scrittore, così come lo storico, deve, in più, essere capace di riunire in sé miriadi di mondi possibili, con la sua capacità di descrizione e di rappresentazione della realtà e degli avvenimenti storici, in un unico diario del quale diventi possibile una veloce lettura che possa consentire a tutti di rammentare in ogni istante il proprio passato, di capire i processi storici attraverso i quali si sono formate identità e cultura del loro essere parte dell’umanità, ma soprattutto perché sia messa a disposizione di tutti una chiave di lettura della realtà in cui si trovano a vivere”. [Ali Mumin Ahad]
La letteratura di migrazione è, indiscutibilmente, un elemento nuovo nel panorama letterario degli ultimi vent’anni. Incentrata sull’esperienza di scrittori che vivono in un paese che non è il loro e che hanno scelto di esprimersi nella lingua del paese che li ospita. Tale fenomeno si è espresso, nell’ambito europeo, prima che altrove in Francia, dove – grazie all’influsso della letteratura di migrazione magrebina – tuttora gode di più ampia visibilità rispetto ad altre nazioni del Vecchio Continente.
Nei primi anni della migrazione dal Magreb, la cosiddetta letteratura magrebina di espressione francese è frutto soprattutto della diaspora di intellettuali dai Paesi dell’Africa occidentale, ma a partire dagli anni Ottanta le cose cambiano. Dall’esperienza della jeunes issus de l’immigration – la seconda generazione di immigrati – nasce una letteratura fatta da giovani che hanno imparato a leggere e scrivere in Francia e che, dunque, producono testi che sono autentica espressione di una comunità africana trapiantata in Europa. Questi autori di “seconda generazione” sono figli di lavoratori immigrati, che vivono in condizioni economiche difficili, in quartieri-ghetto: logico che ad ispirare le loro produzioni letterarie sia la vita in Francia, piuttosto che un’Africa che conoscono per sentito dire. Essi vengono definiti Beurs: neologismo ideato da loro stessi, che significa Arabe in verlan (parlare all’inverso) e si estende poi, gradualmente, a indicare non solo gli scrittori ma, integralmente, anche le nuove generazioni di immigrati magrebini.
I Beurs
Il tratto caratterizzante di uno scrittore Beur è, in primo luogo, avere genitori mussulmani di origine magrebina immigrati in Francia: e, in seconda battuta, di avere acquisito un attento senso critico rispetto alla propria situazione di deracinés (ghettizzati). Questi giovani sono cresciuti per lo più in bidonvilles, città “di passaggio”, e hanno conosciuto problemi di integrazione ed esclusione, di razzismo e violenza, di miseria e alienazione. La letteratura diventa così per alcuni di essi, testimonianza e documento perché offre la possibilità di raccontare le storie e i drammi di una generazione di giovani divisi tra due culture, in una terra di nessuno dove anche l’identità è messa costantemente in discussione (non sono arabi, perché venuti via molto giovani dal Magreb o perché nati in Francia, ma non sono nemmeno francesi, perché figli di immigrati e per lo più poveri e senza alcuna istruzione).
Così punto focale di questa nuova generazione di scrittori diventa la ricerca dell’identità che li spinge a raccontare, e talora a gridare, il loro sdegno nei confronti della propria condizione, materiale ed esistenziale.
Le opere
Le opere dei Beurs si contrappongono a quelle di scrittori della generazione precedente (come Boudjedra, Ben Jelloun e Chraïbi), soprattutto nei temi affrontati e nel tipo di scrittura adottato, più vicino al linguaggio della strada. Ma non bisogna pensare a una rottura vera e propria rispetto con la tradizione: semmai a un confronto dialettico che consente di parlare di continuità nella divergenza
Il primo esempio di letteratura della migrazione di seconda generazione è stato L’amour quand même di Hocine Touabti, del 1981: un romanzo che narra la storia di un giovane algerino e della sua caotica esistenza, che tuttavia ha avuto scarso successo in Francia. Solo nel 1983 con il romanzo di Mehdi Charef dallo strano titolo Le Thé au harem d’Archi Ahmed, questa generazioni di esclusi fa sentire per la prima volta in maniera forte la sua voce. Le Thé au harem d’Archi Ahmed è stato pubblicato nello stesso anno della Marcia pacifista dei Beurs, e ha avuto subito un’attenzione particolare da parte della stampa. In esso è narrata l’intensa vicenda di Madjid, giovane di origine algerina, che abita la banlieue parigina con la sua famiglia, il quale descrive (in prima persona) le sue peregrinazioni insieme all’amico Pat in un mondo fatto di cemento, violenza e amarezza. Nel romanzo, la storia di Madjid s’intreccia con quelle di altri giovani (figli d’immigrati, come lui), con i suoi stessi problemi d’integrazione.
Il successo di questo romanzo, da cui è stato tratto anche un film, è stato importante nel portare alla luce l’opera di altri giovani autori di origine magrebina. Ne ricordiamo, tra tutti, alcuni di quelli che ci sembrano più interessanti.
Gli autori
Azouz Begag
Nato a Lione il 5 febbraio del 1957, cresce in una casa disastrata al centro di un terreno che diventerà il fulcro di una bidonville chiamata La Chaâba, ampiamente descritta nel suo libro autobiografico, Le Gone du Chaâba del 1986. La sua scrittura, malgrado tenda a una semplicità a volte eccessiva, cela passaggi di grande intelligenza e mostra una notevole capacità di osservazione.
Farida Belghoul
Nasce a Parigi nel 1958, da genitori algerini, ferventi musulmani, che vogliono imporre alla figlia i loro valori tradizionali, suscitando in lei accese reazioni. Ne sarà influenzato il suo primo romanzo, Georgette! del 1986, storia di una bambina di origini magrebine divisa tra il rispetto e il grande affetto che nutre verso il padre, legato ai valori tradizionali della civiltà algerina, e un amore-odio ossessivo verso la sua maestra (col conseguente desiderio d’integrarsi nella società francese che essa rappresenta). La Belghoul, pur coetanea degli scrittori Beur, si pone in contrapposizione ad essi: dirà – in un’intervista rilasciata a Actualité de l’Emigration – che “la letteratura Beur è del tutto inutile”.
Nina Bouraoui
Nina Bouraoui è nata nel 1967 a Rennes, in Francia. Da bambina si trasferisce con il padre, alto responsabile della Banca d’Algeria, e la madre, d’origine francese, ad Algeri, dove rimerrà fino all’età di 13 anni. Ritorna in seguito a Parigi, trasferendosi poi a Zurigo e Abu Dhabi. Studia Giurisprudenza e Filosofia e – con il suo primo romanzo La voyeuse interdite, pubblicato all’età di 23 anni – vince nel 1991 il premio Livre Inter.
La sua è prima di tutto una scrittura ‘femminile’, che si interessa dei problemi della donna in un contesto islamico e di migrazione, con un’attenzione particolare alla psicologia e alla sessualità delle protagoniste. Per i temi trattati dalle sue narrazioni (integrazione femminile, sessualità in un contesto islamico, relazioni tra persone di religioni diverse), ci sembra un’autrice Beur a pieno titolo: anche se alcuni critici non la considerano tale, poiché cresciuta fino all’età di tredici anni in Algeria.
Ahmed Kalouaz
Ahmed nasce ad Arzew, vicino ad Orano, il 12 gennaio 1952.
Pochi mesi dopo la sua nascita, il padre, che già lavorava come minatore vicino a Grenoble, a La Mure, chiama la sua famiglia a vivere in Francia. Si distingue dagli altri scrittori beur in quanto poeta, anziché narratore; e anche per via della quasi assenza del dato autobiografico nei suoi versi. Ha pubblicato tre libri: Je vois ce train qui dure, Cette cité coincée e A mes oiseaux piaillant debout….
Per Kalouaz, la poesia è anzitutto denuncia delle sopraffazioni del potere, dei suoi abusi e delle ineguaglianze socioeconomiche. La migrazione, evocata in tutta la sua miseria attraverso storie di emarginazione della comunità immigrata magrebina, assume però qui un carattere più universale.
Kalouaz ha scritto anche numerose pièces teatrali.
Nacer Kettane
Nasce il primo luglio del 1953 a Kebouche e nel 1958 raggiunge con il resto della famiglia, suo padre che, dopo essere stato chiamato alle armi durante la Seconda Guerra mondiale, era rimasto a lavorare a Parigi.
Kettane gioca un ruolo di primo piano all’interno della cultura beur. Collabora al giornale Sans Frontière, che è il giornale ufficiale della Marcia del 1983. Nel 1981 è tra i fondatori di Radio-Beur, e nel 1983 ne diviene presidente.
Il suo unico romanzo si intitola Le Scurire de Brahim e dalle sue pagine si percepisce la volontà dell’autore di staccarsi dal discorso miserabilistico sull’immigrazione, per iniziare piuttosto un discorso di speranze e progetti possibili. In pieno accordo con la tendenza Beur, il libro di Kettane ha molto dell’autobiografia e vela appena la storia personale dell’autore dietro la finzione romanzesca.
Mehdi Lallaoui
Nasce, quinto di undici figli, ad Argenteuil il 15 ottobre del 1957.
Sarà espulso dal liceo tecnico di Argenteuil a causa del suo impegno politico precoce all’età di 16 anni. Aveva organizzato, infatti, uno sciopero di protesta, all’interno della scuola, contro le circolari Marcellin-Fontanet che facilitavano l’espulsione dei lavoratori immigrati.
Nel 1979 parte per Algeri ma, anche per lui, il ritorno alle origini si trasforma in sconfitta; tornato in Francia, comincia a scrivere il suo primo romanzo: Les Beurs de Seine, la cui struttura elaborata gli conferisce un posto a parte all’interno degli scrittori beur.
In questo libro, infatti, Mehdi ripercorre le lotte sindacali che ha vissuto realmente nella banlieue parigina alla fine degli anni Settanta.
Mustapha Raïth
Nasce il 28 agosto 1960 a Hautmont da un padre originario d’Aïn Bassem, nel confine meridionale della Cabila. Il genitore partirà per l’Est della Francia nel 1954 e farà arrivare sua moglie, da cui avrà tredici figli (di cui Mustapha è il sesto).
La sua adolescenza è segnata, oltre che dalle aspre liti con il padre, da una serie di insuccessi scolastici. Nel 1981 viene arrestato e condannato a dodici anni di prigione per violenza carnale e attentati al pudore. In carcere comincia a scrivere il suo romanzo Palpitations intra-muros, in cui traccia l’itinerario del suo alter-ego Mouss, caduto nella delinquenza dopo aver subito la tirannia e il rifiuto del padre, e condannato alla prigione.
Akli Tadjer
Nasce a Parigi l’ 11 agosto del 1954, quarto di sette figli. Non termina il liceo e segue una formazione da giornalista che lo porta a lavorare per diversi giornali, tra cui Sans Frontière. Nel 1983 torna per cinque mesi in Algeria e nei primi mesi del 1984, stimolato dal viaggio a bordo della nave su cui torna in Francia, scrive il suo primo romanzo, Les ANI du “Tassili”, tenero ed sarcastico al contempo. Nelle pagine di Les ANI du “Tassili”, Tadjer affronta il tema del ritorno al paese delle origini, in quello che l’autore chiama uno ‘stage d’adaptation volontaire’, per poi descrivere la perdita d’identità in terra d’esilio e la sconfitta del ritorno, sempre con spiccata vena autoironica.
L’acronimo utilizzato da Tadjer nel titolo ci lascia intendere il tono del romanzo: ANI significa Arabe Non Identifié ed è un adattamento di OVNI, Object Volant Non Identifié.
Tahar Ben Jelloun dirà di questo romanzo d’invidiare ad Akli Tadjer il fatto “di avere saputo raccontare una storia pesante con la verve dell’humour e della derisione”.
Leïla Houari
Nasce a Casablanca il 17 gennaio del 1958 e nel 1965 si trasferisce a Bruxelles con la sua famiglia per decisione del padre, che lavorava come documentarista.
Arrivata in Belgio la famiglia Houari vive nella precarietà e il padre di Leila cambierà diversi lavori prima di trovare impiego come camionista. Proprio come la protagonista del suo libro Zeida de nulle part, Leila, vivendo il disagio dello sradicamento dalle sue radici proverà a integrarsi in Marocco e all’età di diciannove anni parte per Casablanca, fallendo nel tentativo di integrarsi perché non riesce abituarsi ai cambiamenti avvenuti nel paese da quando è partita e perché non si sente più parte di quella terra. Così Leila torna a Bruxelles dove si dedica a varie attività culturali, tra cui il teatro. Il suo primo romanzo, Zeida de nulle part, può essere considerato il più rappresentativo della letteratura beur, per il chiaro riferimento al problema delle origini e ai disagi del sentirsi stranieri ovunque. Con uno stile particolare in cui la realtà dei fatti si confonde con il sogno, l’autrice rende perfettamente lo sdoppiamento della protagonista divisa tra la nostalgia per il Marocco e il vivere quotidiano a Bruxelles.
Interviste
IL SOGNO DI ZEIDA: INTERVISTA CON LEILA HOUARI
Molti scrittori e figli d’immigrati magrebini non amano essere chiamati ‘Beur’. Lei cosa pensa a riguardo?
Io sono cresciuta in Belgio e lì non c’era un vero e proprio movimento ‘beur’, come in Francia. Ero, a conoscenza del movimento francese dei beurs perché il mio libro è stato pubblicato in quel periodo, dopo la marcia dei beurs. Comunque credo che il motivo per cui molti autori non amino questa definizione derivi dal non voler essere etichettati: è sempre difficile uscire da una gabbia in cui gli altri ti costringono. Sono passate tre generazioni e i giovani non sono ancora considerati francesi, né come belgi: sono ancora immigrati. Ma non si può andare contro la propria storia. Io sono nata in Marocco, i miei genitori sono emigrati verso il Belgio e io sentivo di vivere una lacerazione interna. Non avevo voglia di venire in Belgio, ma non avevo scelta, i miei genitori avevano deciso.
C’era certo una differenza tra la cultura dei vostri genitori, in casa e quello che c’era fuori…
Sì. Certo. Io sono cresciuta a Fès e arrivare in Belgio, d’inverno, con la neve alla stazione, rappresentò già uno shock. Io ho vissuta male il distacco, perché stavo bene in Marocco e non è affatto semplice, quando si è nati in un paese, dove si hanno tutti i proprio ricordi, andare a vivere in un altro, così diverso. Mio padre ci teneva che studiassimo, bisognava studiare, andare a scuola; lui ci è stato vicino, ci spiegava molte cose, ci parlava delle nostre origini, ma voleva che ci integrassimo e che studiassimo. Per molti anni, comunque non ho accettato il fatto di essere in Belgio: ero sempre in Marocco col pensiero. Quando ho scritto Zeida ero incinta e mi facevo molte domande e credo che scrivere sia stata un po’ una maniera di rispondere agli interrogativi che mi tormentavano, soprattutto sul posto in cui era meglio vivere, qui o laggiù a casa, e a tutte le domande sulla propria identità che ci si pone da giovani. Quando ci si sente marocchini e si cresce in Belgio, cos’altro si può fare, attraverso il teatro o la scrittura, se non porsi continuamente delle domande. E in Zeida la conclusione cui sono arrivata è che la risposta è dentro di noi perché il nostro esilio è all’interno ed lì che bisogna cercare.
La letteratura beurs è soprattutto una letteratura di testimonianza e di ricerca di un’identità: molti personaggi partono per tornare nel paese dei loro genitori e ritornano sconfitti, perché non hanno trovato in quel luogo ciò che cercavano.
No, infatti. Il personaggio di Zeida per esempio sogna molto, ha idealizzato il suo paese d’origine e quando ci ritorna deve scontrarsi con la realtà e con la storia del Marocco che si è evoluto senza di lei, è cambiato. Non trova più il suo posto.
Un altro elemento interessante è il bilinguismo? Zeida, per esempio, parla anche in arabo, questo non contribuisce alla divisione?
Sì, perché è l’indice del dissidio che la divora: lei cerca di essere sé stessa, e quindi unica, ma in lei ci sono molte Zeida: la bambina che è nata in Marocco, quella che è cresciuta in Belgio e la giovane donna che cerca di capire e trovare il proprio posto. E il francese e l’arabo corrispondono alle diverse Zeida.
Si parla sempre d’esilio anche se non si è personalmente degli esiliati. Ma l’esilio fa comunque parte della storia personale di alcuni giovani.
Ho parlato d’esilio più che d’immigrazione, in Zeida. Pensavo fosse più giusto parlare d’esilio perché lei non ha avuto scelta e dunque vive lo sradicamento dal suo paese come un esilio, che poi diventa anche interiore.
Scrivere l’ ha aiutata personalmente a vivere tra le sue due culture
Credo che scrivere mi dia tanto. Scrivo sempre, perché ci sono ancora punti interrogativi da sciogliere. Anche se fossi rimasta in Marocco avrei comunque operata nell’ambito della creazione letteraria, perché da sempre mi sono occupata di teatro e poesia. Scrivere è un mezzo che ti consente di aprirti e di comprendere. Mi ha aiutato molto la scrittura e la amo molto.
1 Nella primavera dell’83 si verifica una lunga serie di episodi di violenza e di aggressioni a ragazzi d’origine magrebina in Francia, da parte di razzisti e forze. In questo clima di tensione e violenza viene organizzata la prima Marcia non violenta dei Beurs in tutta la Francia, per fermare l’ondata di razzismo degenerata in una vera e propria caccia all’immigrato.