IL FIELE IBLEO di Gesualdo Bufalino
Come cambia da un anno all’altro la nostra calligrafia. Non c’è crisi dell’esistenza, non c’è riga della carne e del cuore che il sismografo dei suoi scarabocchi non registri con fedeltà. Lì per lì non ci badiamo o fingiamo di non badarci: troppo occupati a correre la nostra corsa; troppo timorosi di dover leggere nel progressivo turbarsi dei segni un micidiale responso. Finché un mattino, frugando tra il ciarpame d’una soffitta, ripeschiamo uno scartafaccio di scuola che nei caratteri acerbi, malamente decifrabili sotto l’inchiostro sbiadito, risuscita luci, accenti e colori, insomma l’invidiato fantasma di una stagione che fu.
È un quaderno di traduzioni, dalla copertina littoria, irta di baionette. Aperto a caso, ripete sillabe miti: «O fortunato vecchio… qui dal vicino confine la siepe di sempre, donde le api iblee succhiano il fiore dei salici, con lieve lieve sussurro t’invoglierà le palpebre al sonno…»
È Virgilio, naturalmente, il pio, liceale Virgilio. Ma quella pagina c’inorgoglì, sedicenni, quando scoprimmo che i monti Iblei dell’antica Bucolica erano gli stessi, copiosi d’ombre e di nidi, familiari alle nostre gite; e che l’ape, entrata or ora dalla finestra, è ardita di pungere fra mille strilli il collo della molto bruna Evelina, era sorella, dopo duemil’anni, di quell’altra, ronzante di dattili, sulle labbra di Melibeo…
Bene, e con ciò? Virgilio non era mai sceso quaggiù, a osservare da presso le api iblee, né l’epiteto possedeva gran peso: iblee le api, pario il marmo, ircana la tigre… Sennonché, a sedici anni, si fa presto a darsi merito di qualunque gloriuzza municipale… e d’altro canto, la musica di quei versi, pasciuta e dolce, s’accordava a tal punto con la musica del sangue dentro di noi, con flutto di succhi umidi e caldi che ci cresceva nell’inguine, col miele di gioventù che ci saziava la bocca…
Fortunate senex… Ho tirato giù da un palchetto il testo latino son tornato a scandirlo secondo il mio gusto nativo per le nobili prosodie. Oh, tranquillante cantilena, melliflua tisana, da sorbirne cucchiaiate prima d’addormentarsi! Serenol, Ansiolin non saprebbero lasciarmi meglio le logore corde dei nervi. Mi verrebbe voglia, uno di questi giorni, di salire lassù sui monti, a cercarvi anch’io un’ombra di siepe, un capezzale di foglie, un murmure d’api, sperandole pacifiche come al tempo delle Sicelidi Muse. Verrebbe voglia, sì, a patto che fra Avola e Monterosso, fra Palazzolo e Sortino ci fossero i folti boschi di allora, ci fossero arnie in legno di ferula e patriarchi mielari dalle mani di mago; a patto che si potesse, come da ragazzi, arrampicarsi per un viottolo erto, fra muraglioni di sasso, così rigidi da escludere qualunque vista tranne la vista del cielo… S’andava in silenzio, vedendosi sul capo incombere il volume d’una nuvola, una lattea polpa d’aria, turgida, quasi tangibile, solo a salire l’uno sulle spalle dell’altro… S’udivano invisibili ruote stridere per la scarpata, un blues di carrettieri immalinconire il passo dei muli e perdersi in lontananza… Nella pace di dopo la scena pareva disporsi a un rito radioso, l’avvampo del sole sciogliersi dalle fibre della terra e comunicarsi alle nostre. Taluno, in un eccesso d’ebbrezza, si morsicò la mano fino a farla sanguinare.
Non mi rassegno. Alla mia personale decadenza e fine m’abituo senza fatica, la giudico pertinente, perfino benefica: la necessaria foce d’un fiume stanco. Ma al tradimento delle cose non mi rassegno. Vederle deperire e sparire, ingoiate da una fauce impaziente, ad una velocità quale mai s’ è vista nella storia di tutte le storie… Assistere a scempi che in una notte dissolvono in cenere il peculio di un’eredità millenaria… Ciò denunzia un’ingiustizia e un’infamia che subirei tuttavia a capo chino, se le sapessi inscritte nella sorte dell’uomo e non, invece, opera capricciosa delle sue mani, figlie occhiute della sua cecità e cupidigia, del suo disprezzo per ogni più inerme sembianza della natura: un’erba, una fonte, una pianta…
Domenica sera. Passa sotto i miei balconi una turba d’ottusi. Dietro di loro paletti divelti, graffiti sconci, aiuole uccise… Festeggiano il Milan e prosit: uno scudetto val bene una messa; magari del diavolo, in omaggio al nomignolo della squadra… Ma gli altri? Quelli che vanno di notte, armati di benzina e fiammiferi, su per le balze del Cozzo d’Apollo, e appiccano il fuoco alle radici superstiti, cosa li spinge? Il calcolo – mi sussurrano – di convertire un carrubeto infruttifero in un seminato venale; oppure di disboscare al solo scopo di estorcere alla Regione danari per rimboschire. Sarà, non c’è ragione di dubitarne. Così come è dubitabile che il miele nei barattoli dei supermercati si offra ai nostri carrelli più comodo dell’altro, di rustica fattura raccolto nelle giare dei mielari. Ma ne sopravvive qualcuno, dalle parti di Pantalica, erede del vegliardo Blandano? E sui bastioni ormai brulli dei monti, il timo e la zagara distillano ancora nel grembo l’impareggiabile nettare? Sciami si vedono sempre più raramente volteggiare sui prati alla cerca… e quand’anche, basta a metterle in fuga dai tornanti vicini la mal’aria d’un tubo di scappamento…
Mi torna in mente un proverbio d’infanzia, della gente di qui: Cu agghiutti feli nun sputa meli. Cioè: “Chi inghiotte fiele, non sputa miele…” e vorrà dire, volgendolo al morale, che non si deve pretendere gentilezza da chi ha masticato amaro tutta la vita. Epperò anche il significato letterale funziona: non poter più resistere officine del miele, là dove il cielo è di fumo, e chiazze di calce e gesso insozzano il verde, e il sentimento comune dall’alba al tramonto è la collera. Non più luogo di miele, gl’Iblei, ma luogo di fiele. Gl’Iblei come la Sicilia; la Sicilia come l’Italia; L’Italia come la terra… [•]
***
IL CARTELLONE TERZO
Come Guerrino si prese per scudiero un uomo di molte favelle e gli pose nome Babele.
Veloci nuvole correvano in cielo, portandosi l’ultima luce. Guerrino smontò di cavallo, si spogliò l’armi ed entrò nell’acqua a bagnarsi. Ne emerse livido per la freddura, senza forza né altro desiderio che di dormire. Allora si volse intorno, se mai trovasse un rifugio. Un colore di viola uguagliava tutte le viste: sabbia, cielo, mare, canne presso la foce… Ma non tanto che non si scoprisse in secco sulla riva, un barcone capovolto e, poco più in là, contesta di poche, povere assi, una capannuccia di pescatore. Vi corre Guerrino, per il segno di fumo che se ne leva e vi bussa tre volte con il pomo della spada. Alla terza una mischia di suoni astrusi in questo modo lo assale: «Quien est ka ianua tappulia? Quien erkett na mu ghiurefsi afitia?».
S’era aperto l’uscio, frattanto e sulla soglia un uomo era apparso, abbastanza carico d’anni, pallido di squallore e d’inedia. Al quale il Meschino:
«Che enigmi sono questi? Fatti capire, ti prego».
Ma l’altro:
«Isela ma e ssodzo. E mira nu ena na psero oles e glosse, sed nadie me entiende. Per qu’ieu fauc iustat los motz e los languatges».
Stupefatto dal nuovo parlare non meno arcano del primo, Guerrino considerava le sembianze macilente dell’uomo e non ardiva altre domande, bensì dimostrava con gli atti bisogno di cibo, di caldo, di letto. Quegli non fu tardo ad accorgersi e se lo trasse dentro, al chiuso, lo spinse a sedere vicino al fuoco, spartì con lui una magra cena di ulive. Poi alla curiosità e meraviglia che leggeva negli occhi del commensale, per cenni, da mutolo a sordo, rispose. Allargò con le mani il mucchio di cenere che aveva davanti e, come su una lavagna, con una punta di stecco prese a delinearvi, scena per scena, una storia o leggenda o passione che tutto faceva credere fosse la sua.
Finse all’inizio una torre, alta tanto che la cima pareva perdersene fra le stelle; e figurò gli operai al lavoro con badili, cazzuole, ponteggi; e descrisse zuffe fra loro all’improvviso, con bocche inutilmente aperte, occhi stravolti dal furore di non capirsi, di non capire. Infine scelse fra tante l’immagine d’un bambino che in un canto pareva turarsi le orecchie per non intendere; murarsi gli occhi per non vedere…
L’uomo si batté sul petto e, indicando ai piedi del folle edifizio: «Sono io» pareva volesse dire, aggiungendo al gesto poche sillabe strane, che potevano essere, forse erano, un nome: ziqqurat…
Mai Guerrino aveva provato tanto sconcerto. Portava gli occhi a vicenda ora sul bambino del disegno ora sul vecchio pescatore, né si convinceva che fossero la medesima persona, tanto diluvio di secoli era trascorso dall’antico scandalo delle lingue. “Un discendente di quelli dubitava”. O non piuttosto un frenetico di nuova specie?”. In questo secondo supposto s’acquietò, con pazienza aspettando che l’uomo discendesse dai motti oscuri di prima verso il segno del comune intelletto. Quando ciò avvenne: «Fac me salvum, tolle me tecum» furono le agevoli proposizioni che finalmente udì uscire a colui dalle labbra. Una preghiera che risolse immantinente di accogliere, talché volle l’uomo per scudiero e lo battezzò Babele….
Ciò che al Meschino dissero gli alberi del sole.
… Il secondo giorno trovarono una pianura con tre mura di monti attorno e tre porte, l’una verso levante, l’altra verso ponente e l’ultima verso australe. Da queste altrettanti venti entravano che percotevano insieme un sol punto, mescendosi in modo che ne nascesse una bufera in forma di tromba marina. Dentro la quale, guardando fisso, poteva da taluno ammirarsi un viso d’uomo che piange.
“Un diavolo” pensò Guerrino e si segnò, ma l’immagine non disparve, bensì s’attorceva e scompigliava nell’aria… Non altrimenti nei nostri sogni un sembiante informe talvolta s’accampa, che ha il colore del vuoto e ondeggia pigramente in quel vuoto.
Guerrino trasse la spada e camminò verso il turbine, mentre Babele restava indietro a coprirgli le spalle. Solo che ad ogni passo del paladino la colonna d’aria pareva sottrarsi e sfuggirgli, finché non cadde del tutto, lasciando al suo posto apparire un tempio di puro adamante, lungo trenta braccia, alto venti e tutt’intorno ad esso un bosco d’alberi grandi, ciascuno dei quali nei rami contorti e nel tronco ripeteva le braccia e la smorfia della stessa persona piangente. Ad essi Guerrino s’inginocchiò, deposta a terra la spada e giunte in atto di preghiera le mani. Disse allora una voce, che non dagli alberi proveniva, bensì da un punto invisibile e alto:
«Dimmi come tu hai nome».
«Meschino» rispose il Meschino.
La voce disse: «Non è nome vero. Il tuo nome vero è Guerrino. E sei stato battezzato due volte. Tuo padre è un barone cristiano, tu sei di schiatta reale».
Quindi non disse più e Guerrino non chiese più.
Come Guerrino entrò in un’antica città.
«Tusca cataloppa muriza sulicò sulicò!» esclamò incomprensibilmente Babele, tornando al suo vizio antico e indicava frattanto all’orizzonte un ingombro di pietre che non pareva, ma era, chi aguzzasse le ciglia, una città.
«Sarà come dici tu» consentì Guerrino e, dopo aver pensato un istante: «In questo mi piaci, scudiero», riprese; «che, non essendomi dato di contraddirti, nulla potrà mai turbare il nostro pacifico sodalizio!».
Nel dire ciò stranamente rideva. Ed era la prima volta da quando nella culla aveva riso, nascendo, alla madre Fenisia e al genitore Milone…
Procedeva, frattanto, e ad ogni passo la città gli si svelava di più: deserta nella sua vastità e sommersa per metà dalla sabbia, così che solo ne emergessero le moschee e i palazzi più alti. Sabbia gravava a mucchi sui tetti, sabbia colmava cisterne, davanzali e logge; né si vedevano di sorta, ma solo se ne indovinava la traccia, fra le schiere opposite degli edifizi. Che silenzio, poi; che inerzia di tutto! Sebbene fasci di sterpi e malerbe, presi in un giro di vento talvolta turbinassero in aria senza rumore, tornando quindi dopo un poco a posarsi.
Macchiabruna, sotto la duplice soma di Guerrino e di Babele, gli venne la schiuma alla bocca. Tanto che i due risolsero d’andare a piedi. Sempre più affondando, non meno loro due che il quadrupede, nella mobile polta ch’era il lastrico della città.
Pervenne infine, il barone, al monumento che per fastigio e fregi pareva imporsi sugli altri: non altrimenti che fra le sparse vertebre d’un Minotauro un bucranio roso dal tempo… Qui, sul frontone, sculture erano ancora visibili, e scritture di gloria, quali gli antichi scalpellavano, mescolando sul sasso borie di vincitori e smorfie di schiavi, a memoria perenne d’un re.
«Così anche di noi, delle nostre grandezze» mormorò Guerrino, sbriciolando con un dito una scaglia d’arenaria, ma al suo fianco Babele:
«Liskan zurecca croìza» mormorò segnandosi. Quindi a voce più bassa: «Panta nifta skotinì».
Fiero duello con Artillaro.
Quando Guerrino udì la sfida di Artillaro armato, scese dal cavallo e genuflesso pregò Dio che l’aiutasse da un così fiero nemico. Poi arditamente gli corse incontro.
«Dio ti salvi» gli disse, «secondo la tua fede ».
Ma Artillaro: «Io non ti voglio salvo né in questa né in altra vita, ma morto e mangiato dai cani. Atteso che tu sei l’assassino di mio fratello».
«Non assassino», ribatté Guerrino, «ma combattendo corpo a corpo io uccisi Almonida, come ho speranza di fare di te».
Così presero campo e si percossero le aste. Si piegò l’alfana di Artillaro e lo sparse a terra altrettanto avvenne di Macchiabruna, per essersi infranti i pettorali e le cinghie. Sorti i due cavalieri da terra senza vantaggio d’alcuno, Artillaro brandì una mazza di ferro e corse contro la spada avversaria. Vano gli uscì il primo colpo, per una destrezza dell’altro, ma col secondo gli ruppe l’elmo e gli ebbe sbalordita la mente. Un ululo di dolore s’udì nel campo cristiano. Artillaro pose il piede sul petto del Meschino abbattuto e levava al cielo occhi furiosi e felici. Peperò, essendogli venuta meno nello scontro la mazza, tornò all’arcione dell’alfana onde cavarne la spada e così scannare il nemico.
Guerrino era rinvenuto, frattanto, e si vedeva perduto: senza schermo del capo, senz’arme nel pugno… Sennonché ricorse al fianco dove aveva un coltello e in un lampo lo nascose nel pugno. Quindi, al voltarsi d’Artillaro e al suo chinarsi, colse il tempo a risorgere con un balzo e a ficcargli in gola la punta del ferro. Così Artillaro miseramente perì.
Come Antinisca amò Guerrino e Guerrino Antinisca.
L’uccisione d’Artillaro fu cagione che tornassero libere le terre di re Finissauro e s’aprisse la rocca dov’era rimasto a lungo serrato con la sua figliola Antinisca, riducendosi a nutrirsi di formicole, quando non d’uno o altro allocco che per avventura nidificasse lassù. Fu spettacolo grande aprirsi la porta del mastio, con stridore di gangheri, e il vecchio sovrano mostrarsi al popolo in festa, tremulo e smunto, incolto di barba e lacrimoso dopo i mesi dell’amaro assedio… Ma la figliuola, sia che il padre le avesse procacciato il cibo in qualche occulta maniera, sia per la propria invulnerabile gioventù, non apparve sulla soglia meno florida e vaga che se sortisse da un lavacro nuziale…
Biancorosea, dagli occhi grandi e lontani di labbra liete, cinto il capo d’un cappello di rose rosse…
«Oh veramente» sussurrava la folla, «è degna costei, superba e bella com’è, che si muoia d’amore per lei. Come dicono di languore e di van’amore sia morto nel suo letto il Signore delle Isole Lontane; e di ferro, poc’anzi, Artillaro…».
In verità Antinisca era bella. Non, però, altrettanto superba, se fu vista correre verso Guerrino a ringraziarlo della salvezza; e con tanto slancio che di capo la corona di fiori le cadde e il nodo delle chiome le si disciolse sugli omeri, aggiungendo all’abbaglio del mezzogiorno un lume d’oro improvviso.
Giunta a un passo dal cavaliere la donzella s’arrestò. Sorpresa da tanto diluvio, puerilmente cercava con le braccia di trattenerlo ma non sapeva… Finché, rossa rossa, non si risolse, per nascondere il turbamento del viso, di inginocchiarsi al guerriero e di baciargli la destra, cruenta ancora dai colpi dati e subiti. Piacque alla folla il gesto e ne nacque un applauso, ma lei ebbe appena anzi gli occhi cerulei agli occhi bruni del cavaliere, che un tremito grande la colse e una folgore la colpì sotto la tenue mammella: quasi un succo di maga le avesse invaso le vene.
Una certezza all’istante la soggiogò: che mai sarebbe stata d’alcuno che non fosse quel barone. Né volle donnescamente serbare quel segreto dietro le labbra ma all’oste schierata e al popolo e alla corte tutta, e al padre suo stesso: «Ho trovato» gridò, «il mio uomo, signore e Dio. Di costui sarò sposa o morrò!».
Mai Guerrino era stato tanto commosso, mai s’erano in lui scontrate a quel modo tante contrarie bufere: vergogna, pietà, imperioso proposito di condurre al fine la cerca del padre… ma anche vanagloria di essere amato e bramosia carnale, e abbandono languido della mente e dei sensi…
Meno male che Babele s’intromise a quel punto fra lui e la donna con una cantafera delle sue:
«Cuzco scergun tazuruska zimmaren!…» esclamò, facendo risuonare i sonagli della giubba, e da sé coronandosi giullare della futura regina.
Ciò bastò con lo stupore e le risa che ne seguirono, perché il Meschino potesse sottrarsi senza dare risposta e raggiungere la sua tenda.