GALATEI E MASCHERE di Alberto Abruzzese
Non solo Ruskin ma molti hanno parlato del libro come un amico per sottolineare che in lui troviamo qualcosa di diverso da un semplice “servo muto”. Il libro come natura animata – libro magico – ha lontanissime radici: sacerdote, maestro, servo, guida, consigliere amoroso, assistente benevolo o ingannatore e perverso. E tuttavia il libro è come un legno scolpito: l’autore vi ha realizzato le trame di un disegno, le figure di un racconto, le strutture di una teoria, pre-vedendo il lettore. Ma una volta compiuta l’opera, il testo sarà immodificabile. E’ consegnato all’altro. Il libro è un attrezzo, un artificio del corpo, una protesi in cui si depositano memorie, leggi, messaggi, saperi, immagini, concetti, passioni. Dicesi anche, appunto, “bagaglio culturale”. Adagiando il proprio sguardo sulle pagine scritte, la lettura ridà vita a quel corpo inerte, lo ascolta, lo traduce alla propria misura, lo risveglia. Il lettore se ne serve per apprendere, annettere memorie, agire e immaginare, oziare e dimenticare. Per lavoro e per piacere. Per uccidere, punire o guarire. Per semplicemente sentire, sentirsi, far sentire. Leggendo, l’utente si fa luogo e viaggiatore di quanto lo scrittore ha ideato, raccolto e modificato nel creare le trame del testo.
Il lettore contratta il significato con la pagina, la fa sua. La penetra e ne è penetrato. Risponde al dono della scrittura con il dono dell’interpretazione. Vede e non vede. Accoglie e rimuove. Intesse e disfa. Apre e chiude. Allerta i sensi. Il libro è infatti un oggetto multiplo, carico di senso in tutte le parti che lo compongono. Ma, per quanto la carta, le spaziature, la confezione, i caratteri, il frontespizio, persino le tonalità dei colori, gli odori e la consistenza tattile delle superfici costituiscano informazioni essenziali, la scrittura accentra in se stessa la gamma maggiore di significanti. Il lettore – a seconda della sua personalità, della sua tempra, del momento, del suo scopo – la domina o ne È dominato.
Ma per quanto si emancipi dalla scrittura, la dimentichi in se stesso, assorbendo il libro come la polpa di un succoso frutto, o buttandolo via come un’attesa tradita, il tempo del lettore si infrange sulla spaziatura di un tanto solido prodotto, sui percorsi di un così determinato destino. La cornice in cui agisce l’intrattenimento testuale segna le regole di una stazione emittente forte e di una positura ricevente debole. Il lettore può contrattare i significati ma non può mettere mano ai significanti. Risponde ad un autore assente. Nel misurare la sua distanza o vicinanza si sente pubblico piuttosto che persona.
Iniziare la lettura significa entrare in uno spazio predeterminato, accedere in stanze già predisposte, stare al gioco dell’ospite. L’arte dei frontespizi – quando il libro celebrava i suoi fulgori e dunque dal Rinascimento all’Ottocento – era appunto dedicata a rappresentare graficamente questo “ingresso”: ornamenti, figure, oggetti circondavano i portali d’accesso alla lettura. La scrittura annunciava così la sua capacità di sostituire l’emozione dei luoghi dal vivo con la ricchezza di un sipario che si leva sulla scena, con il clamore dei trionfi alle porte delle mura di cinta della città, con le luci che dalla piazza guidano alle feste del Palazzo.
Il frontespizio – nella ripetitività e variazione delle sue forme introduttive, seduttive, anticipatorie – metteva in evidenza gli armamentari di cui soglie e vestiboli si popolano in quanto spazi liminari, di scambio tra un ordine simbolico e l’altro. Mascheramenti transitivi da un regime all’altro del senso. Sipari e maschere per luoghi e volti dell’identità. Ma artifici che, predisponendo il lettore alla scrittura, celebrano tuttavia ciò che della vita induce al divertimento testuale e non il contrario. L’immaginario dei frontespizi annunciava la dis-continuità tra i luoghi del mondo e i luoghi del testo, tra la città (le sue forme, le sue passioni, le sue immagini, i suoi protagonisti) e la parola scritta.
La scrittura – così emblematicamente monumentalizzata dai frontespizi – si poneva allora come collante, svolgimento, narrazione ed esposizione del mondo umano nel quotidiano, realtà assimilata al mondo visibile. Il frontespizio funzionava da passaggio tra l’universo non alfabetizzato e quello alfabetizzato. Dalle lande del caos all’ordine costituito. La dedica dell’autore riportava al cerimoniale del dono, alla radice di un contatto diretto, faccia a faccia per quanto socialmente strutturato, tra l’autore e il suo lettore. Ed anzi quest’ultimo – principe o altro che fosse – dava lustro alla lettura pi— che alla scrittura, potendosi permettere per ceto di subordinarla alle proprie necessità, di farla essere servizio di corte, strumento di governo, forma di potere. Il dedicatario inaugurava dunque il processo estensivo della lettura, dando lustro a s‚ medesimo e alla scrittura come sua stessa emanazione.
Questi meccanismi si sono trasferiti – seguendo il processo di desacralizzazione e mondanizzazione dei dispositivi aristocratici – dal Principe al Pubblico, al Lettore, alla sua potenza in quanto garante collettivo della vita della scrittura come mercato, e allo Scrittore come erede dell’autorità del Principe, dispensatore di leggi e beni per il suo popolo.
Successivamente, le retoriche del libro – mano a mano che il testo stampato, come universo comunicativo, andava sprofondando rispetto alla potenza dei media e alla loro più immediata emotività e dunque commercializzazione – hanno perso di lucentezza e seduzione. Il libro non si riusciva a dare più come oggetto di ricchezza, accesso ad un luogo di meraviglie, stanza della memoria, teatro, parco dei divertimenti, festa o museo, enciclopedia, biblioteca.
Perdendo l’aura della sua funzione demiurgica, doveva quindi predisporsi ad una sottovalutazione delle maschere di cui la nobiltà… dei frontespizi si era fregiata e ad una più specifica valorizzazione di ciò che in esse si celava. Del proprio volto piuttosto che il volto del lettore, non più principe ma uomo comune. O meglio di un volto che fosse la duplice faccia dello scrittore/lettore, essendo la scrittura sempre più scesa a livello della lettura.
Ecco allora che le retoriche sul libro – le loro strategie di promozione – hanno preso a contrapporre la scrittura al mondo e ad ogni suo altro linguaggio in nome della verità…. Il libro come altro dalla vita. Come superamento della sua miseria. Come disvelamento delle sue menzogne. Quanto più l’esperienza comunicativa si mostrava un insieme complesso di forme ingannevoli per quanto regolate da strutture semantiche, tanto più le istituzioni del libro hanno preteso che esso fosse privo di falsificazioni, trasparente, autentico.
Il libro come conoscenza in quanto tale si è fatto metafora di una verità di primo grado rispetto alle manipolazioni degli altri linguaggi espressivi o al bisogno che essi comunque hanno di essere interpretati dalla scrittura per potere dotarsi di un loro pieno significato. Tutte le teorie sulla specificità dei mezzi di comunicazione (teatro, musica, pittura, fotografia, cinema, televisione) si sono dovute fondare sul sapere scritto. Il libro si è imposto allora come rivelazione della natura – della sua incomunicabilità – sia sul versante delle scienze esatte sia su quello delle scienze umane. E’ documento, mappa, programma. Indice. Testo sacro al di là delle sacralità che si sono dissolte. Anche le sue invenzioni, i suoi fantasmi, trovano nella qualità demiurgica della scrittura un grado di rappresentatività superiore agli altri linguaggi della rappresentazione. Persino la grande produzione letteraria novecentesca – quella che non a caso vede cadere il confine tra la narrativa e la saggistica che la accredita (tra tutti si pensi a Musil) – può essere interpretata come scrittura che comprende filosoficamente ogni tipo di scrittura settoriale, ivi compresa l’invenzione letteraria, essa stessa reperto da sottoporre alla verità.
Questo statuto del libro come essenza autentica della vita ha creato gli stili comunicativi delle comunità alfabetizzate. L’autorità di chi scrive e la partecipazione di chi legge sono alla radice di uno stesso comportamento. Chi ha il suo centro nella produzione e nel consumo del libro si sente accolto nel bello e nel vero. Mascheramenti intransitivi si danno come realtà, prima ancora insondabili, poi sempre più rivelate, assertive, compiaciute di sé. E la pubblicistica di questi ultimi decenni ha portato a termine questo processo, raggiungendo un grado molto elevato di scambi programmatici tra libro e valori generali come giustizia, sincerità, bontà, altruismo.
Il piccolo mercato della scrittura si riscatta nel grande mercato dei beni universali. Tutto ciò che di maledetto, sporco, irriducibilmente negativo appartiene ad alcuni libri novecenteschi o al loro uso È stato assorbito in questa dimensione sino a farsi melassa dei buoni sentimenti. Così la violenza e la devianza sono a loro volta sempre più motivate sull’assenza di buone letture, sull’analfabetismo di ritorno, sul rifiuto o l’impossibilità di accedere alla civiltà per mezzo dei libri.
Si può controbattere che meccanismi di questo genere sono già alla radice e non solo al punto di caduta del libro (basti pensare alla diffusione occidentale della bibbia di Gutenberg). Ma il processo che qui si va descrivendo si fonda sull’intensità tardomoderna delle forme di volgarizzazione della scrittura e dei suoi poteri. E da questo punto di vista mi pare che le retoriche tradizionali del libro siano state scavalcate in modo evidente dalle retoriche di massa a cui ho accennato, retoriche coniate per coprire lo smarrimento della scrittura e non per confermare la sua originaria, effettiva autorità.
I cultori del libro si autodefiniscono nella lotta al cattivo gusto e ai pericoli morali dei linguaggi triviali, del cinema di consumo e della televisione spazzatura, della pornografia, dei lussi smodati, dei deliri della droga. Un vasto movimento iconoclasta difende la scrittura come unico antidoto al male, alla menzogna, all’inganno. Alla corruzione. Il libro è dato come cultura, mentre al contrario tutto il resto appare sempre slittare verso il mercato, il potere, la corruzione del corpo e dell’anima.
Secondo questa distinzione, il libro è mercato, non è un libro, tradisce se stesso, sarebbe cioè schiavo di ciò che nega per sua natura. Secondo questo schema interpretativo, il libro non dispiega il gioco tra verità e menzogne, tra maschere e volti, tra potere e sapere. Non incarna i galatei sociali. Non nasconde – come ogni altro linguaggio – i segreti, ma al contrario avrebbe di per se stesso la vocazione di rivelarli. Di esserne il tribunale d’accusa. Sarebbe anzi scritto per giudicare. Non sarebbe mai tempo sprecato, ma sempre tempo socialmente utile. Farebbero appunto eccezione – ma solo in parte, perché comunque la scrittura li riscatta – i libri che si abbandonano al consumo di massa e si ammantano delle sue mitologie, sfuggendo così alle regole catartiche della qualità artistica o del rigore scientifico.
Solo una aggiuntiva scrittura critica ha potuto salvare la trivialità del fumetto o dei romanzi popolari. Una sorta di cooptazione dall’alto verso il basso ha contraddistinto l’ingresso delle scritture triviali – di consumo evasivo, ludico – nella sfera della cultura scritta, nell’aura del libro come valore e conoscenza. Le strategie dei generi – come il poliziesco, il fantastico, la fantascienza – sono state accolte nella comunità degli scrittori per amore degli alfabetizzati, proprio per riconoscervi miti e sostanze di una cultura superiore che in tale letteratura si fa delitto, maschera, avventura. Dietro all'”uomo mascherato”, il lettore vede se stesso ma il critico vede un dispositivo narrativo e legittima il lettore di massa a patto di costringerlo a purificarsi nella critica e a passare attraverso la cruna dell’ago dell’interpretazione.
Scarso interesse viene invece rivolto al fatto che nello scarto tra analisi narratologica e consumo testuale dei media di massa si nasconde molto più il mondo di appartenenza del lettore che quello dello scrittore; che la scrittura È già quasi interamente lettura, lettura che scrive, consumatori che producono; che dietro alle divulgazioni collettive operate dai generi di fruizione popolare si cela la matrice del prossimo abbandono delle strutture semantiche della narrazione scritta, della formazione libresca.
Del resto la cultura del libro in quanto strumento della scrittura è data come alternativa alle figure e agli oggetti che nella letteratura di appendice vengono invece messi al centro dell’attenzione. La pagina della scrittura seriale di consumo si popola di dispositivi che non appartengono alle regole della comunicazione alfabetica, ma a quelle del corpo, del look, della chiacchiera, del tempo libero, del desiderio incontrollato di vita vissuta: sesso, delitto, travestimenti, maschere, morte. Tutti linguaggi fortemente sensoriali, che la grande narrativa restituisce attraverso l’ordito di una complessa macchina letteraria destinata ai letterati, mentre la scrittura popolare mette rozzamente in scena e consegna ad una lettura istintiva, letterariamente infantile ma socialmente ipertrofica.
Le figure e le architetture dei frontespizi, le illustrazioni del racconto, il tumulto dei contesti di fruizione del testo sono entrati nella pagina, l’hanno affollata, saturata di elementi sempre più lontani dalla scrittura letteraria e sempre più vicini alla letterarietà diffusa del consumatore. E hanno iniziato a cancellare i caratteri a stampa, dando sempre più spazio a segnaletiche di richiamo e a virtuali pagine bianche in cui proiettare ciò che tali segnaletiche vanno evocando. Si affidano dunque sempre più alla regia del lettore, al suo mettersi in scena, alle sue performance, ai suoi mascheramenti
La storia delle maschere propriamente dette marcia su piani sfasati rispetto alla storia della scrittura. Eppure vi si inscrive ad ogni suo passaggio da un regime all’altro della società civile. Proviamo a ripensare le regole mondane dei carnevali veneziani, intervalli orari e stagionali del tempo urbano in cui i galatei settecenteschi delle maschere si spingevano a coprire solo il volto lasciando visibili le vesti e gli ornamenti di ceto, le mode ed i loro luoghi. L’abito perde la testa: le maschere parlano di maschere per mezzo di maschere. Tutto è lasciato ai tradimenti della voce, alla fugace apparizione dei volti, al senso riposto nell’intreccio dei luoghi e delle occasioni, alle attese e ai desideri. Agli incontri furtivi. La conversazione vi si tradisce. Un biglietto scritto è prova di inganni. La scena in maschera è un testo forte che imbriglia i sentimenti, i commerci, le azioni.
La scena urbana è a sua volta invasa dalle maschere dei salotti. E quella del teatro al contrario comincia ad essere invasa dai volti e dai personaggi, dalla psicologia e dal libero intreccio della persona a viso scoperto. Il passaggio dalla commedia dell’arte al teatro è il passaggio dall’uso performativo delle maschere popolari al governo intellettuale della scrittura. Il libro prende così possesso della scena, inizia a controllarne il movimento, a prestabilire il rapporto tra testo e pubblico. E’ da quel momento che sapere il volto di Pulcinella diventa necessario, perché da maschera si è fatto attore, da simulacro si è fatto uomo. Da elementi fissi della messa in scena simbolica, rituale, le maschere si fanno citazione, evocazione, presenza inquieta del mondo prosaico. Tornano come maschere il cui analfabetismo non è più il segno di un cerimoniale antico e segreto ma l’esibizione di uno scarto comico rispetto al pubblico degli alfabetizzati.
Entrando di poi nell’esperienza moderna metropolitana, sono il travestimento puro e semplice, lo scambio di valori sociali, il trucco teatrale del volto a bastare allo scopo di una identità che si sottrae alle regole della trasparenza per potere ferire o guarire l’altro, la comunità, il sistema. Truccatura facciale dell’espressione, manipolazione della voce, scambio d’abiti sono anche le tecniche dell’assassino e del detective. E’ l’attore a fare di s‚ una maschera, duttile ectoplasma con cui sceglie gli stereotipi necessari a farsi protagonista. Con cui pesca tra le recite dell’intrattenimento sociale, tra le tecniche conversative usate ai bordi e nelle pieghe del comportamento di massa.
La maschera si è smaterializzata in regole comunicative. Persino la sostanza evanescente dei fantasmi assume nel racconto ottocentesco il valore di travestimento che opera alla luce del giorno. Si tratta di figure liminari tra delitto e ammonizione: il nero mantello, che nell’immaginario neogotico copriva la persona innominata, è ora il lenzuolo bianco che simula l’assenza di corpo. Si tratta di maschere che enunciano provvisorie vacanze tra opposti regimi. Il morto che agisce da vivo. Il vivo che simula la morte. Il malvagio che si traveste da benefattore. Il salvatore che si veste da assassino. Primi eroi letterari della complessità moderna. Nell’atto del loro travestimento, sono non-persone in cui visibilità e azione si scambiano di ruolo. Chi si nasconde in questo scambio simbolico usa l’altro per rafforzare se stesso e controllare il nemico. Il Povero si maschera da Principe e il Principe da Povero. La scrittura incorpora questo scambio, che è anche scambio tra poteri della scrittura e poteri della lettura.
Infine, con il culmine quantitativo dell’industria culturale di massa, le maschere si moltiplicano in variazioni infinite, proiettandosi nel passato e nel futuro. L'”uomo mascherato” diviene lo sdoppiamento dell’uomo collettivo, del lettore di massa. La maschera che s’era fatta attore a viso scoperto, ora, resa narratologicamente e iconologicamente esperta nel tempo dei consumi metropolitani, si fa uomo ed entra nell’area della cittadinanza come tale, considerando il proprio travestimento non più come gesto provvisorio, espediente, rito occasionale ma come vita quotidiana. Dall'”uomo che ride” di Victor Hugo al Joker delle gesta di Batman. Dalla scrittura dei libri a quella dei fumetti, si tratta di destini che scendono in terra. Il meccanismo dilaga per mezzo di se stesso, della sua riuscita comunicativa. Queste figure entrano in scena come ballerini per cui, invece del primo piano dei volti, contano le movenze dell’intera persona, la loro danza tra le cose del mondo, la loro capacità mimetica. Trovano negli archetipi dell’immaginario gli abiti necessari al loro operare simbolico nella scena della vita. La tendenza che prende corpo dagli anni Trenta sino ai nostri giorni è quella infatti di mascherare per disvelare e truccare non più soltanto il volto, ma il corpo intero, trasformarne radicalmente l’immagine in identità sensibile. Immediatamente riconoscibile nelle sue funzioni demiurgiche. Letture che si sono fatte corpo. Maschere ed anche armature e divise. Esattamente come era accaduto nella ricreazione della commedia dell’arte, la maschera si ricrea nella società civile e vi si mostra in tutto diversa rispetto al “borghese” e alle sue istituzioni, al sapere delle leggi e dei vincoli sociali.
Mondo delle maschere, quindi, come commedia della metropoli, maschere per canovacci metropolitani. E poi sempre più maschere di maschere. Dove è più l’uomo che vi si era celato per eccesso di sé‚ o gesto estremo? Figure come non-luoghi. La figura conta sulla sua stessa alta definizione simbolica per muoversi nel mondo e agire nelle sue abissali inadempienze. Soggetti che si donano all’altro anche nel senso di privarsi della propria immagine originaria, della propria appartenenza, non solo apparendo in altro da se stessi ma trasmigrandovi in una trance definitiva, ormai incontrollata. Forme sciamaniche oppure forme di un precoce nomadismo postmoderno tra le tante persone che compongono l’identità. Figure magnetiche: non solo per lo sguardo ipnotizzato che tradisce l’altra identità che si annida dietro la maschera, la persona che vive dietro il “segno”, ma anche per l’attrazione ipnotica che esercitano su ogni altra figurazione del tempo e dello spazio. Maschere che fungono da vortici sensoriali e da collettori narrativi. Ogni oggetto, consumo, desiderio, conflitto cerca e trova nella maschera di turno, nella figura che di volta in volta domina l’immaginario collettivo, il testimonial a cui affidarsi, il messaggero da attendere o inseguire. Le maschere divengono raffigurazioni interiori – ma percepibili – del mercato. Frontespizi dell’uomo.
Il Novecento recupera dunque la tradizione delle maschere aristocratiche e triviali, mitiche e carnevalesche, colte e popolari, producendo nuove maschere di un immaginario sempre più ingordo e di una sensibilità individuale sempre più instabile e mutante. Dietro la maschera può nascondersi il semplice come il complesso, il giusto come il perverso, il terrestre come l’alieno, il forte come il debole. E’ la maschera a dettare legge, produrre eventi, risolvere storie. Il corpo che la anima vive la sofferenza di un’altra vicenda, di uno sdoppiamento che non trova pace né‚ al di qua… né‚ al di là. L’artificio del mascheramento raddoppia il mistero tra vedere ed essere visti, sentire ed essere sentito, soggetto e cosa. Emergenze, queste, che a volte strabordano ed altre volte restano senza senso, ma lasciando felicemente, affermativamente agire soltanto le nuvole o galassie di testi che nelle maschere si aggregano per i lunghi flussi interpretativi che vi si sono andati a depositare grazie al lavoro del consumo.
Maschere che lottano continuamente con la desacralizzazione di se stesse e con la necessità di trovare nuovi confini iniziatici, nuovi territori in cui esprimersi. Nuovi misteri. Maschere al tempo stesso radicate e vagabonde, ascetiche e dissipate, parvenze di corpi che anticipano le regole del gioco negli intrattenimenti ipertestuali, nei non-luoghi della virtualità cibernetica. Parvenze che recitano la vita per mezzo dei corpi che vi si incastrano come macchine, motori, molle, ingranaggi meccanici. L’inautenticità della maschera – del falso – sostituisce l’autenticità dell’originale, costretto e relegato al lavoro di retroscena, di peso, di residuo. Il fumetto ed il cinema di serie B sono stati il loro spazio ideale. Gli sceneggiatori che scrivono le loro “storie da vedere” funzionano come raccoglitori di modalità percettive ed emotive, come nomadi dell’immaginazione. Sentono alle loro spalle la forza di un immaginario letterario che ha prodotto i magazzini a cui attingono, ma lo spazio mentale in cui creano i loro “uomini mascherati” è costituito dalle rivalse espressive del non-lettore, dagli esiliati della scrittura, dalle esperienze di analfabetizzazione.
“Posso dirvi soltanto una cosa: trovandomi davanti allo specchio, d’un tratto non l’ho più visto; l’ho cercato dietro, ma non c’erano più né lo specchio, né il camerino. Ero in un oscuro corridoio… ebbi paura e gridai!”. Così racconta Christine nella celebre invenzione letteraria di Gaston Leroux. Siamo nel 1911, quando ormai già da tempo si era andata sviluppando, prima del cinema, una vasta narrativa fantastica dedicata alle illusioni fantasmatiche degli “strumenti ottici”. A forme di una visibilità senza analogie con il mondo delle cose visibili. Forme per altra via sperimentate dalle avanguardie storiche, dalla lente anamorfica dei consumi.
Ma questa citazione – frammento in cui emergono le chiavi di volta dell’intera struttura del racconto di Leroux – merita di essere letta al di là della civiltà dell’immagine in cui ci ostiniamo a leggere anche i fenomeni espressivi del presente. Del romanzo di Leroux l’immaginario cinematografico si è nutrito splendidamente e abbondantemente da allora ad oggi. Eppure le sue pagine contengono qualcosa che affonda le proprie radici ben prima della fotografia e ben dopo la civiltà della riproducibilità tecnica e delle culture dello schermo audiovisivo. Un romanzo popolare, dunque: scrittura triviale che ha assolto una straordinaria funzione nell’attrarre verso le meraviglie del libro nuovi pubblici della lettura, ma testualità che affonda il suo immaginario in una percezione sensoria del mondo priva delle certezze del linguaggio scritto e tesa ad attingere alle origini stesse dell’espressione. Un racconto che vale come un saggio sulla multimedialità dell’esperienza umana.
L’invenzione di Leroux non spiega la forza dell’immagine quanto piuttosto la sua provvisoria emergenza di massa rispetto alla estrema complessità che governa i nostri modi di comunicare: il ricorso alla maschera è in questo caso un indicatore sofisticato sul carattere sinestesico, corporale ma estensivo della comunicazione interpersonale e sociale. Il testo di Leroux si presta dunque ad essere rimesso in gioco nell’epoca dei computer, quando, come Christine, varchiamo la soglia dello schermo, abbandoniamo lo spazio seduttivo delle sue immagini “specchiate” e ci avventuriamo nei percorsi delle reti, nelle costruzioni virtuali di un mondo che si fa sempre più voce, alito, emanazione corporale. E’ la paura del buio che ci guida ed è ancora una volta la Voce che ci ha spinto oltre, il suo sempre vivo richiamo, il desiderio che trasmette. E noi l’abbiamo evocata. Le promesse tecnologiche hanno risposto al nostro richiamo; il piacere panico che ci vendono/donano corrisponde alla paura che proviamo nel varcare la soglia ed entrare nel buio che pure ci sospinge.
Il Fantasma dell’Opera ha tematizzato – prima nella letteratura d’appendice e poi nel cinema spettacolare – un incrocio di sensi particolarmente ingannevoli: l’udito e la vista. Ingannevoli rispetto alla durezza fisica dei corpi, alla veridicità del tatto e del gusto. Sensi immateriali. Sensi fantasmatici. I sensi delle lanterne magiche, delle fantasmagorie e dei panorami, del teatro delle illusioni, del telefono e del cinema muto: sensi della distanza. O meglio gli unici sensi che possono colmare le distanze che abitiamo, mettere in comune ciò che è separato, produrre realtà temporali da discontinuità spaziali.
Ma mentre l’udito congiunge il Fantasma e Christine; la vista li divide. La Voce vive in Christine e questa vive nella Voce. Su questo piano invisibile eppure straordinariamente forte, tra i due esiste una comunità dei sensi, un legame senza barriere. Nella Voce vive il corpo dell’una e dell’altro. Per riuscire al suo scopo, tuttavia, la Voce non può avere corpo, non può consegnarsi alla vista, non può lasciarsi vedere. Deve restare nel dominio dell’oralità, non può farsi scrittura. E’ una Voce che rimanda solo al proprio corpo, alla sua cassa armonica, non ad un’altra sua mediazione visibile. E’ in s‚ tanto perfetta da non potere tollerare la prosaica forma umana del faccia a faccia. Alla massima resa formale della Voce manca la possibilità di incarnarsi nella materia. Alla realtà del volto che si cela dietro alla maschera del Fantasma dell’Opera non È dato dunque di mostrarsi se non nella natura sublime della Voce. Essa abita architetture meravigliose, misteriose, labirintiche; abita uno spazio che condensa in se stesso tutto l’abitare, sino a spingersi oltre i corpi, ad essere teatro dell’anima, interiorità pura.
Il racconto sceneggia la drammatica separazione tra l’estrema musicalità dell’immateriale e l’inevitabile mostruosità della forma apparente, il carattere inaudito del visibile. Il ragionamento filosofico sulla natura assoluta dell’evento estetico e sul magma di un reale inattingibile, alieno, dunque mostruoso, trova qui la sua metafora. A monte c’é la riflessione romantica sulla musica, che tenta di sollevarsi dal mondo, di raggiungere il cielo, di vincere le stesse resistenze espressive della scrittura, e l’idea iper-romantica sull’immagine che si vuole emancipare dal visibile, trasfigurare le cose. Dimensioni del sogno. Il suono che si libera delle leggi a cui sottostanno i materiali naturali e lo sguardo che sublima la prosaicità della materia, l’ordine degli oggetti. Sensi volatili: la vista e l’udito sembrano non avere corpo e tuttavia si danno come sforzo estremo del soggetto per prendere corpo al di là della realtà: per avvenire. Per udire e dire al di là dell’immagine. La fascinazione che suono e sguardo producono prende vita nel desiderio di identificazione. E nel luogo del desiderio – nella qualità di una attesa che si apre come assenza, vuoto, sottrazione dell’altro – l’identità del soggetto prende corpo davvero, percepisce la propria presenza, si muove. La voce attrae verso ciò che l’immagine data, non trasfigurata, respinge.
Alla contrapposizione tra udito e vista corrisponde una coppia apparentemente asimmetrica: lo specchio e la maschera. L’uno e l’altra, infatti, sembrano avere a che vedere solo con la vista. Lo specchio: immagine che rovescia l’identità in altro da sé‚ ma con questo suo dispositivo virtuale non distrugge anzi produce il senso di appartenenza, l’esserci nel mondo. La maschera: dispositivo che copre se stessi o l’altro, impedendo che ci si possa specchiare nel volto, renderlo familiare, riconoscerlo ad immagine e somiglianza di se stessi. Lo specchio come surrogato del desiderio dell’altro e la maschera come sospensione del desiderio nel suo punto culminante, come attesa vuota di ogni altro contenuto se non la sua potenza creatrice.
Christine – avvinta ai miti (Amore e Psiche) – non resisterà alla tentazione di togliere la maschera alla Voce, di ridurre l’incanto a immagine, a traccia, a segno. Vuole leggere nel volto che sino ad allora – sino a prima – ha solo ascoltato. Desidera vedere inscritto nel volto ciò che sino ad allora ha amato ascoltare. Vuole vedere incarnarsi materialmente la magia in cui ha felicemente dialogato, perché‚ crede di essere come l’altro da sé‚, crede nella virtualità dello specchio in cui trova l’origine della propria voce.
Il materiale semantico che ha prodotto il racconto letterario e poi cinematografico aggrega esperienza mitica, vita metropolitana e macchineria teatrale. Il sipario È la maschera che divide la scena umana da quella artificiale dello spettacolo, ma anche lo spettacolo dal suo contenuto segreto. Il gioco di intrattenimento al di qua e al di là del sipario celebra la ripetizione di un rito: l’iniziazione tra il dentro e il fuori. Quando il sipario si leva sulla scena teatrale, lo spettatore varca la soglia tra se stesso e l’altro. L’uso delle maschere È stato da sempre un comportamento rituale teso a sottolineare il fatto che ogni soglia si apre su una gamma infinita di altre soglie e che la soglia estrema, fondante, È quella costituita dall’impossibile volto dell’altro. Il sipario annuncia una scena simulata, le maschere una vita di simulazioni. Dietro la serie dei testi – dei testi come maschere – si nasconde il nulla, la morte.
La maschera enuncia la consistenza enigmatica e pericolosa di un volto che si rifiuta di dialogare con il tuo sguardo, di un soggetto che si annida troppo al di là di te stesso, troppo vicino per la diversità che incarna, troppo distante per la somiglianza che lascia intravedere. Desiderio e repulsione si esaltano nel loro contrario. La maschera copre una presenza altrimenti intollerabile. Mi impedisce di somigliarle e al tempo stesso mi getta nella paura di perdere la mia faccia, di rendermi invisibile a me stesso. La maschera cancella l’inafferrabile sentimento del discorso “faccia a faccia”, il suo disagio, oltrepassa le libere spaziature dell’oralità per farsi corpo ingannevole di una corporeità altrimenti irrappresentabile: manichino, mummia, statua. A differenza delle voci, le maschere possono essere strappate, ma o se ne trova un’altra – un altro testo – che finga la precedente o lo sguardo si smarrisce nella paura del senso, nelle tenebre del senso.
La maschera è qualcosa e non più qualcuno; una sostanza inorganica che è al di là di me stesso o del me stesso che – se privato di maschera – posso simulare attraverso l’altro, specchiandomi in lui (come Christine/Voce si vede nel suo specchio e poi si sente nel nulla e poi si consegna alla maschera che nasconde il fantasma del nulla – dell’Opera). La maschera/testo priva la mia voce del medium necessario per comunicare con un’altra voce. L'”uomo mascherato” irrompe a passo di danza in questo vuoto e se ne impossessa: È un Terzo – oppure un Neutro – che incombe tra l’io e il tu. E’ il “lupus in fabula”, il “terzo incomodo”. E’ l’egli della narrazione impersonale. Il narratore divino che sa tutto e trascina al di là dello specchio gli amanti.
Ma Leroux non È più tra noi. Il Teatro dell’Opera si è dissolto nell’industria culturale dei media. Le forme ancestrali della scena carnevalesca si sono tradotte nelle forme triviali della scena popolare di massa. Romanzi di serie, cinema e fumetto sono popolati di maschere pre-moderne ma abitano la tarda modernità, l’estrema trivializzazione dei miti. In un modo tutto particolare, proprio attraverso i processi di socializzazione dei mass media, queste maschere si sono andate a loro volta mondanizzando, desacralizzando, in una direzione opposta alla cultura delle maschere espressa dai linguaggi colti ottonovecenteschi e dalla loro divulgazione. Il pubblico dei lettori ha imparato a giocare con le maschere sino in fondo. Ne ha consumato il rito. Il Fantasma dell’Opera non ha più paura di farsi vedere, si esibisce ovunque. Ovunque si fa invitare a cena. La Voce – che lo faceva vivere oltre l’immagine, il segno, la scrittura – lo favorisce nei giochi di società. Egli danza ora la sua musica rock e il corpo si lascia andare nella trance dei ritmi postmetropolitani.
Nel passaggio ottocentesco dell’invenzione di Leroux aveva assunto un forte significato il confluire della riflessione romantica sul teatro delle marionette nel progetto di messa in scena espresso nei primi del novecento da Gordon Craig, in cui la regia si pone all’altezza della scrittura, seppure di una scrittura per immagini. I romantici come Kleist avevano desiderato un corpo maschera, un corpo perfettamente corrispondente alla scrittura teatrale, un attore “musicato” così come lo strumento lo è dalle note dello spartito. L’attore teatrale fatto di carne ed ossa costituiva un ostacolo proprio perché pretendeva di dialogare tra il testo e il pubblico. E la musica romantica era a sua volta il tentativo di dissolvere il soggetto in una forma estetica assolutamente libera da ogni peso terreno, da ogni sua misura, e in uno spazio svincolato dalle leggi del tempo sociale, dalla fisicità del territorio. Craig riprende questa tradizione e concepisce una supermarionetta che appaia in scena non per simulare il dialogo tra l’io e l’altro, ma per riuscire a fare nuovamente apparire l’Egli. Il Re. Il Dio che nomina. Estremo tentativo di restituire al testo espressivo – seppure quello mentale della regia – la sua massima potenza. “Dio non ha più qualche filo di riserva…neppure per un’altra sola figura?”.
Il ricorso alla marionetta nella scena teatrale è tuttavia un’idea e una pratica densa di rimandi alla forza della scrittura ma anche alla sua debolezza di artefatto, al suo dolore, al suo lavoro doloroso. La marionetta costituisce una teorizzazione estetica della protesi come attore, che ha il suo riscontro sociale nella vita quotidiana, nella sofferenza che spinge il corpo ad usare arti meccanici e a sentirli come naturali, a percepire in questi prodotti la stessa mancanza di un arto in carne ed ossa ma al tempo stesso la medesima affettività e l’uguale comunione che proviamo per il nostro corpo vivo. Come ci avverte Elaine Scarry, parlando delle tecnoculture del presente, dalle splendide pagine di Dickens sulla “gamba di legno” di Silas Wegg (personaggio del racconto Il nostro comune amico) e di Rilke nelle sue Riflessioni sulle bambole sino alle protesi bio-virtuali di oggi e di domani: “Continuamente incorporiamo, poi ripudiamo, e poi ancora reincorporiamo l’artefatto”.
E’ questa una traccia illuminante anche sui mali socialmente in vista nella civiltà postmoderna che si avvia alla nutrizione del cyborg così da potere davvero ospitare l’uomo: l’anoressia e la bulimia. Due forme opposte ed equivalenti di estrema artificializzazione del corpo attraverso il suo totale svuotamento oppure il suo massimo accrescimento, nel rifiuto rispettivo dell’esterno o dell’interno della nostra pelle (Margaret Morse). Non a caso “L’etimologia della parola inglese per arto, ‘limb’ deriva dal latino ‘limbus’ che significa confine o margine.” (Scarry)
Torniamo a Leroux. La Voce e lo Specchio rimandano alla telefonia e allo schermo. Rimandano al conflitto e poi alla sintesi tra radio e cinema muto, dunque alla TV. La maschera del Fantasma dell’Opera rimanda al complesso processo con cui l’industria culturale ha metabolizzato simbolicamente l’esilio umano dalla condizione dell’oralità. Proprio in questo spazio letterario primonovecentesco – che narra il conflitto di potere (espressivo) tra teatro e cinema, scena dal vivo e schermo – hanno radice le maschere postmoderne dei nostri giorni. Supereroi che affondano le loro radici negli spazi olimpici dell’Antico e tuttavia si consumano nella disperazione visiva della quotidianità, nella trivialità del presente. Queste maschere divine – proliferate dalla rivalsa tardomoderna della Festa del Vitello d’Oro sulle Leggi Scritte del monoteismo – sono i padri e le madri dei cibernauti quando si divertono a giocare con il computer, devastando le scritture.
Il cyberspazio È luogo di continui mascheramenti cui non è dato essere strappati poiché trascorrono come la voce: ogni manipolazione dell’identità vi può essere praticata. La tecnologia – lo strumento – si vende come macchina virtuale, veicolo immediato del desiderio. L’intrattenimento cibernetico corrisponde in tutto alla multisensorialità e multivalorialità dei consumi, asseconda tutti gli scambi, realizza il Mercato Globale in ogni dove. Questo processo di smaterializzazione si riversa sull’esperienza ottocentesca interiorizzata nel lettore e trasmessa dalla lettura. Il gioco di simulazioni pulite e indolori dei cibernauti spiega i miti industriali e preindustriali dell'”uomo mascherato”. Di contro all’uso disinibito delle maschere informatiche, alla loro musica, si erge la figura del serial killer: figure che si confondono nell’anonimato dell’uomo qualunque e invece di disegnare travestimenti incidono e trasfigurano corpi. Segnano la carne.
Rileggiamo ancora una volta il testo di Leroux, le parole di Christine: “trovandomi davanti allo specchio, d’un tratto non l’ho più visto; ho cercato dietro…ma non c’erano più né lo specchio né il camerino…Ero in un oscuro corridoio. Ebbi paura e gridai!”. Perduto l’investimento narcisistico sulla propria immagine schermica, perduto il luogo – il camerino teatrale – dei propri travestimenti, il corpo si smarrisce nel buio ed urla di paura. E’ qui descritta in modo essenziale la tragicità… dionisiaca di ogni transito da un regime comunicativo ad un altro. La voce perde la sua forma estetica ed esplode in una parola disarticolata, senza altro significato che il terrore di non ritrovare luoghi e immagini di identificazione. In quel momento di transito è il caos ad attraversare il corpo, a farlo suo.
L’urlo accade nell’infrangersi del rapporto interiore tra emozione e linguaggio, del suo equilibrio formale. L’urlo unifica dolore e coito. E’ esperienza del limite. Prossimità alla morte. E da sempre le estetiche dell’urlo hanno segnato l’estremo tentativo di comprendere l’umano spingendosi ai bordi dell’inumano. Così accade ora nelle culture cyberpunk.
Alle bifide incertezze delle maschere digitali – un sesso dietro l’altro, un’età dietro l’altra, un’appartenenza dietro l’altra, sino a disgregare tutto nello spazio misterioso e irrisolvibile del neutro – corrisponde un violento desiderio di verifica chirurgica sul corpo vivente. Questa pulsione – carica di memorie metropolitane – muove versus la cosa che, pur non facendo più da matrice del mondo, fa tuttavia ancora da polpa all’estensione mentale delle reti, ai simulacri digitali in cui ci È dato tradurci.
Si dispiega qui l’eccesso di un sentimento iconoclasta che muove da dentro e dentro vuole tornare. L’esercizio di una prossimità che non tollera altro che non sia immediata tattilità tra i corpi, nei corpi: una “allegra” tortura della carne nel vivo delle viscere, delle vene e degli arti; una dionisiaca ri-lettura delle interiora umane. Insorge la vorace nostalgia della corteccia fisica che un tempo sembrava bastare a contenere l’anima o delegarla alle cose dello spirito. Una corteccia da aprire per verificarne il contenuto.
Ma questo massacro rimanda pur sempre all’operare della scrittura. Alla ferita tra voce e segni, tra corpo e testo. E’ la rivelazione della verità ultima che si nasconde nella scrittura e che gli scrittori mascherano. Il serial killer è a buon diritto la forma esemplare dello scrittore estremo, di un autore che dilania il corpo a proprio piacimento, spingendosi sino ad ucciderlo, sezionarlo, divorarlo. Un gesto creativo. Il gesto creativo per eccellenza. Un io che decide di farsi lupo, di crearsi la favola necessaria al rito, e infine succhiare l’altro in se stesso. Il serial killer come analfabeta che de-scrive il corpo, lo ri-struttura. Ed il lettore risulta sotto questo aspetto una sorta di parassita, di iena che si nutre dei cadaveri abbandonati dal suo eroe sul luogo del delitto. Che sente nella propria follia il sopraggiungere di Dracula.
Questo slittamento tra pratiche immateriali e massacri del corpo, della viva carne che vi resta ancora aggrumata intorno, fa da scenario al transito dalla scrittura all’ipertestualità, alla virtualità e interattività dei linguaggi cibernetici. Lo spettatore cinetelevisivo e il lettore di romanzi e fumetti splatter gode di autentico piacere – soddisfazione del suo desiderio di desiderio – nel vedere a lavoro il serial killler. Si illumina delle sue atrocità. Celebra, sui corpi dilaniati e istoriati delle vittime, la consapevolezza dello strappo finale tra la propria appartenenza ad un mondo di lettori e di scrittori e la sua transumanza in un mondo di nativi della voce, di comunicatori iperfacciali, di corpi ad oltranza. Le mediazioni culturali prodotte dalla storia sprofondano e le costruzioni sociali dell’altro da sé si rivelano intollerabili.
La violenza riflessa – e come riflesso consumata – che si produce in questa ultima consapevolezza raggiunge apici raccapriccianti. Eppure sublimi. Come nel mito di Amore e Psiche: Psiche, curva a guardare Amore che dorme, consapevole del tabù che infrange nell’illuminare il corpo che ama, tiene con una mano la lampada di cera che la tradirà e dall’altro il coltello con cui difendersi dal mostro che teme vedere apparire. Amore, invece, in quell’attimo fotografico che precede la tragedia, si mostra in tutta la sua bellezza. E sarà Psiche a precipitare nell’inumano.
Distruzione di maschere, i rituali del serial killer sembrano esiliati da ogni poesia. Agli occhi pavidi della contemporaneità sembrano rimandare, senza più alcuna mediazione simbolica, ad una violenza senza limiti; una violenza che sfugge ai parametri dell’anomia sociale. Il grande circo dei media ne è affascinato. Tutto ciò rende spiegabile, per quanto culturalmente sorprendente, il ricorso sempre più netto, da parte di molti politici e intellettuali-comunicatori, a mosse e stili di comportamento diametralmente opposti, ad esplicite censure dell’immaginario e a norme di controllo sull’immaginazione. Essi lavorano su obiettivi buonisti, fattisi tanto più acuti quanto più l’impatto schermico – collettivamente visibile – tra vecchi e nuovi media gronda sangue e morte. Giocano d’astuzia con il mercato, lo sfruttano e insieme ne esorcizzano la vocazione a generare mostri. In ambito internazionale essi hanno da sempre il loro riferimento nel sorriso americano del buon cittadino/soldato o anche nell’educata burocrazia del funzionario di stato. In Italia prevalgono tre modelli: sono quello di Walter Veltroni, quello di Paolo Mieli e quello della più parte dei letterati. L’uno pensa troppo all’immagine del bene, ad esempio al calcio come genere rosa invece che guerra di tribù, lotta tra bande, recita cruenta; l’altro pensa troppo alla storia, e intanto svuota la cultura affidandola alla mediazione scritta di conflitti ormai soltanto scenografici; gli ultimi pensano troppo a se stessi, e si servono della letteratura come di un messale religioso, un manuale di educazione civica, un codice giuridico. Ed una patente di buona condotta.