Critica letteraria

SU ALCUNE FUNZIONI DELLA LETTERATURA di Umberto Eco

Racconta la leggenda, e se non è vera è ben trovata, che una volta Stalin abbia domandato quante divisioni aveva il papa. Quello che è successo nei decenni successivi ci ha dimostrato che le divisioni sono certo importanti in date circostanze, ma non sono tutto. Ci sono dei poteri immateriali, non valutabili a peso, che in qualche modo pesano.
Siamo circondati di poteri immateriali, che non si limitano a quelli che chiamiamo valori spirituali, come una dottrina religiosa. È un potere immateriale anche quello delle radici quadrate, la cui legge severa sopravvive ai secoli e ai decreti non solo di Stalin, ma persino del papa. E tra questi poteri annovererei anche quello della tradizione letteraria, vale a dire del complesso di testi che l’umanità ha prodotto e produce non per fini pratici (come tenere registri, annotare leggi e formule scientifiche, verbalizzare sedute o provvedere orari ferroviari) ma piuttosto gratia sui, per amore di se stessi – e che si leggono per diletto, elevazione spirituale, allargamento delle conoscenze, magari per puro passatempo, senza che nessuno ci obblighi a farlo (se si prescinde dagli obblighi scolastici).
È vero che gli oggetti letterari sono immateriali solo a metà, perché si incarnano in veicoli che di solito sono cartacei. Ma un tempo si incarnavano nella voce di chi ricordava una tradizione orale, oppure su pietra, e oggi discutiamo sul futuro degli e-books, che dovrebbero permetterci di leggere sia una raccolta di barzellette che la Divina Commedia su uno schermo a cristalli liquidi. Avvertirò subito che non intendo intrattenermi qui sulla vexata quaestio del libro elettronico. Io appartengo naturalmente a coloro che un romanzo o un poema preferiscono leggerselo su un volume cartaceo, di cui mi ricorderò persino le orecchie e la stazzonatura, ma mi dicono che esiste una generazione digitale di hackers che, non avendo mai letto un libro in vita propria, ora con l’e-book hanno avvicinato e gustato per la prima volta il Don Chisciotte. Tanto di guadagnato per la loro mente e tanto di perduto per la loro vista. Se le generazioni future arriveranno ad avere un buon rapporto (psicologico e fisico) con l’e-book, il potere del Don Chisciotte non cambierà.
A che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura? Basterebbe rispondere, come ho già fatto, che è un bene che si consuma gratia sui, e dunque non deve servire a nulla. Ma una visione così disincarnata del piacere letterario rischia di ridurre la letteratura allo jogging o alla pratica delle parole crociate – i quali oltretutto servono entrambi a qualcosa, vuoi alla salute del corpo, vuoi all’educazione lessicale. Quello di cui intendo parlare è quindi una serie di funzioni che la letteratura riveste per la nostra vita individuale e la vita sociale.
La letteratura tiene in esercizio la lingua
Tiene anzitutto in esercizio la lingua come patrimonio collettivo. La lingua, per definizione, va dove essa vuole, nessun decreto dall’alto, né da parte della politica, né da parte dell’accademia, può fermare il suo cammino e farla deviare verso situazioni che si pretendano ottimali. Il fascismo si è sforzato di farci dire mescita invece di bar, coda di gallo invece di cocktail, rete invece di goal, auto pubblica invece di taxi, e la lingua non gli ha dato retta. Poi ha suggerito una mostruosità lessicale, un arcaismo inaccettabile come autista in luogo di chauffeur, e la lingua lo ha accettato. Forse perché evitava un suono che l’italiano non conosce. Ha mantenuto taxi, ma gradatamente, almeno nel parlato, lo ha fatto diventare tassì.
La lingua va dove vuole ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura. Senza Dante non ci sarebbe stato un italiano unificato. Dante nel De vulgari eloquentia analizza e condanna i vari dialetti italiani, si propone di foggiare un nuovo volgare illustre, nessuno avrebbe scommesso su un tale atto di superbia, eppure con la Commedia vince la sua partita. È vero che per diventare lingua parlata da tutti, il volgare dantesco ha impiegato alcuni secoli, ma se ce l’ha fatta è perché la comunità di coloro che credevano alla letteratura ha continuato a ispirarsi a quel modello. E se non ci fosse stato quel modello non si sarebbe forse neppure fatta strada l’idea di una unità politica. Forse è per questo che Bossi non parla un volgare illustre.
Venti anni di colli fatali, destini immarcescibili, eventi imprescindibili e aratri che tracciano il solco non hanno alfine lasciato alcuna traccia nell’italiano corrente, e ve ne hanno lasciato molta di più certi ardimenti, all’epoca inaccettabili, della prosa futurista. E se qualcuno oggi lamenta il trionfo di un italiano medio diffusosi attraverso la televisione, non dimentichiamo che l’appello a un italiano medio, nella sua forma più nobile, è passato attraverso la prosa piana e accettabile di Manzoni e poi di Svevo o di Moravia.
La letteratura, contribuendo a formare la lingua, crea identità e comunità. Ho parlato prima di Dante, ma pensiamo a cosa sarebbe stata la civiltà greca senza Omero, l’identità tedesca senza la traduzione della Bibbia fatta da Lutero, la lingua russa senza Puskin, la civiltà indiana senza i suoi poemi di fondazione.
Ma la pratica letteraria tiene in esercizio anche la nostra lingua individuale. Oggi molti piangono la nascita di un linguaggio neo-telegrafico che si sta imponendo attraverso la posta elettronica e i messaggini dei cellulari, dove si dice ti amo anche con una sigla; ma non dimentichiamo che gli stessi giovani che inviano messaggi in questa nuova stenografia sono, almeno in parte, gli stessi che affollano quelle nuove cattedrali del libro che sono le grandi librerie multipiano, e che, anche solo sfogliando senza comperare, vengono a contatto con stili letterari colti ed elaborati, a cui i loro genitori, e certamente i loro nonni, non erano stati esposti.
Possiamo certo dire che, maggioranza rispetto ai lettori delle generazioni precedenti, questi giovani sono minoranza rispetto ai sei miliardi di abitanti del pianeta; né sono così idealista da pensare che a immense folle che mancano di pane e medicinali potrà portare sollievo la letteratura. Ma una osservazione vorrei fare: che gli sciagurati che, riunendosi in bande senza scopo, uccidono lanciando pietre dal cavalcavia o danno fuoco a una bambina, chiunque poi essi siano, non diventano tali perché sono stati corrotti dal Newspeak del computer (nemmeno al computer hanno accesso) ma perché restano esclusi dall’universo del libro e da quei luoghi dove, attraverso l’educazione e la discussione, arriverebbero a loro riverberi di un mondo di valori che arriva da e rinvia a libri.
La lettura delle opere letterarie ci obbliga a un esercizio della fedeltà e del rispetto nella libertà dell’interpretazione
C’è una pericolosa eresia critica, tipica dei nostri giorni, per cui di un’opera letteraria si può fare quello che si vuole, leggendovi quanto i nostri più incontrollabili impulsi ci suggeriscono. Non è vero. Le opere letterarie ci invitano alla libertà dell’interpretazione, perché ci propongono un discorso dai molti piani di lettura e ci pongono di fronte alle ambiguità e del linguaggio e della vita. Ma per poter procedere in questo gioco, per cui ogni generazione legge le opere letterarie in modo diverso, occorre essere mossi da un profondo rispetto verso quella che io ho altrove chiamato l’intenzione del testo.
Da un lato ci pare che il mondo sia un libro «chiuso» che consente una sola lettura, perché se c’è una legge che governa la gravitazione planetaria, o è quella giusta o è quella sbagliata; rispetto a esso l’universo di un libro ci appare come un mondo aperto. Ma cerchiamo di avvicinarci con buon senso a un’opera narrativa e confrontiamo le proposizioni che possiamo enunciare intorno a essa con quelle che pronunciamo intorno al mondo. Del mondo, noi diciamo che le leggi della gravitazione universale sono quelle enunciate da Newton, o che è vero che Napoleone è morto a Sant’Elena il 5 maggio 1821. E tuttavia, se abbiamo una mente aperta, saremo sempre disposti a rivedere le nostre convinzioni, il giorno che la scienza enuncerà una diversa formulazione delle grandi leggi cosmiche, o uno storico troverà documenti inediti che provino che Napoleone era morto su di una nave bonapartista mentre tentava la fuga. Invece, rispetto al mondo dei libri, proposizioni come Sherlock Holmes era scapolo, Cappuccetto Rosso viene divorata dal lupo ma poi è liberata dal cacciatore, Anna Karenina si uccide, rimarranno vere in eterno e non potranno mai essere confutate da nessuno. Ci sono persone che negano che Gesù fosse figlio di Dio, altre che ne mettono addirittura in forse l’esistenza storica, altri che sostengono che è la Via, la Verità e la Vita, altri ancora che ritengono che il Messia sia ancora da venire e noi, comunque la pensiamo, trattiamo con rispetto queste opinioni. Ma nessuno tratterà con rispetto chi affermi che Amleto ha sposato Ofelia o che Superman non è Clark Kent.
I testi letterari non solo ci dicono esplicitamente quello che non potremo mai più revocare in dubbio ma, a differenza del mondo, ci segnalano con sovrana autorità ciò che in essi va assunto come rilevante e ciò che non possiamo prendere come spunto per libere interpretazioni.
Alla fine del capitolo 35 de Il rosso e il nero è detto che Julien Sorel si reca alla chiesa e spara su Madame de Rênal. Dopo aver osservato che il suo braccio tremava, Stendhal ci dice che Julien tira un primo colpo e manca la sua vittima, poi ne tira un secondo e la signora cade. Ora immaginiamo di sostenere che il braccio che tremava, e il fatto che il primo colpo sia andato a vuoto, mostrano che Julien non si fosse recato alla chiesa con un fermo proposito omicida, bensì trascinato da un disordinato impulso passionale. A questa interpretazione se ne può opporre un’altra, che Julien avesse sin dall’inizio il proposito di uccidere, ma fosse un codardo. La partitura autorizza entrambe le interpretazioni.
Si dà il caso che qualcuno si sia chiesto dove fosse finita la prima palla. Interessante quesito per i devoti stendhaliani. Così come i devoti joyciani vanno a Dublino a ricercare la farmacia dove Bloom avrebbe comperato una saponetta in forma di limone (e per accontentare questi pellegrini quella farmacia, che tra l’altro esiste davvero, si è messa a produrre di nuovo quel tipo di saponette), si può immaginare dei devoti stendhaliani che cercano di individuare in questo mondo e Verrières e la chiesa, esplorandone poi ogni colonna per trovarvi il buco prodotto dalla palla. Si tratterebbe di un episodio di fanship, abbastanza divertente. Ma supponiamo ora che un critico voglia basare tutta la sua interpretazione del romanzo sulla sorte di quella palla perduta. Coi tempi che corrono non è inverosimile, anche perché c’è stato chi ha basato tutta la lettura della Lettera rubata di Poe sulla posizione della lettera rispetto al caminetto. Ma se Poe rende esplicitamente pertinente la posizione della lettera, Stendhal ci dice che di quella prima palla non si sa più nulla e quindi la esclude persino dal novero delle entità fittizie. Se si rimane fedeli al testo stendhaliano quella palla è definitivamente perduta, e dove sia finita è narrativamente irrilevante. Invece il non-detto di Armance circa la possibile impotenza del protagonista spinge il lettore a frenetiche ipotesi per completare quello che il racconto non dice, e ne I promessi sposi una frase come «la sventurata rispose» non dice sino a qual punto Gertrude si sia poi spinta nel suo peccato con Egidio, ma l’alone fosco delle ipotesi indotte nel lettore fa parte del fascino di questa pagina così pudicamente ellittica.
All’inizio dei Tre moschettieri si dice che d’Artagnan arriva a Meung su un ronzino di quattordici anni il primo lunedì di aprile del 1625. Se si ha un buon programma sul proprio computer si può immediatamente stabilire che quel lunedì era il 7 aprile. Una squisitezza per trivia games tra devoti dumasiani. Si può impostare su questo dato una sovra-interpretazione del romanzo? Direi di no, perché la partitura non rende rilevante quel dato. Il corso del romanzo non rende neppure rilevante che l’arrivo di d’Artagnan avvenisse di lunedì – mentre rende rilevante che fosse di aprile (si ricordi che, per celare il fatto che la sua splendida tracolla era ricamata solo sul davanti, Porthos indossava un lungo mantello di velluto cremisi che la stagione non giustificava – a tal punto che il moschettiere doveva fingere di essere raffreddato).
Queste potranno sembrare a molti delle ovvietà, ma queste ovvietà (spesso dimenticate) ci dicono che il mondo della letteratura è tale da ispirarci la fiducia che ci sono alcune proposizioni che non possono essere revocate in dubbio, e ci offre quindi un modello, immaginario sin che volete, di verità. Questa verità letterale si riverbera su quelle che chiameremo verità ermeneutiche: perché a chi ci dicesse che d’Artagnan era trascinato da una passione omosessuale nei confronti di Porthos, che l’Innominato è stato indotto al male da un irrefrenabile complesso d’Edipo, che la Monaca di Monza, come certi politici d’oggi potrebbero suggerire, era stata corrotta dal comunismo, o che Panurge fa quello che fa in odio al nascente capitalismo, potremo sempre rispondere che nei testi a cui ci si riferisce non è possibile trovare alcuna affermazione, alcun suggerimento, alcuna insinuazione che ci permetta di abbandonarci a queste derive interpretative. Il mondo della letteratura è un universo nel quale è possibile fare dei test per stabilire se un lettore ha il senso della realtà o è preda delle sue allucinazioni.
I personaggi migrano
Possiamo fare affermazioni vere sui personaggi letterari perché ciò che loro accade è registrato in un testo, e un testo è come una partitura musicale. È vero che Anna Karenina muore suicida così come è vero che la Quinta di Beethoven è in do minore (e non in fa maggiore come la Sesta) e inizia con «sol, sol, sol, mi bemolle». Ma a certi personaggi letterari – non a tutti – accade che escano dal testo in cui sono nati per migrare in una zona dell’universo che ci riesce molto difficile delimitare. I personaggi narrativi migrano, quando hanno fortuna, da testo a testo, e quelli che non migrano non lo fanno non perché siano ontologicamente diversi dai loro fratelli più fortunati, ma semplicemente perché non hanno avuto fortuna e non ci siamo più occupati di loro.
Hanno migrato da testo a testo (e attraverso adattamenti in sostanze diverse, da libro a film o a balletto, o dalla tradizione orale al libro) sia i personaggi del mito che quelli della narrativa «laica», Ulisse, Giasone, Artù o Parsifal, Alice, Pinocchio, d’Artagnan. Ora, quando parliamo di personaggi del genere, ci riferiamo a una partitura precisa? Prendiamo il caso di Cappuccetto Rosso. Le due partiture più celebri, quella di Perrault e quella dei Grimm, differiscono profondamente. Nella prima la bambina viene divorata dal lupo e la storia finisce lì, ispirando dunque severe riflessioni moralistiche sui rischi dell’imprudenza. Nella seconda arriva il cacciatore, che uccide il lupo, e riporta alla vita la fanciulla e la nonna. Lieto fine.
Ora immaginiamo una mamma che racconti la fiaba ai suoi bambini e si fermi quando il lupo divora Cappuccetto. I bambini protesterebbero e vorrebbero la «vera» storia, in cui Cappuccetto risuscita, e poco varrebbe se la mamma si dichiarasse filologa di stretta osservanza. I bambini conoscono una «vera» storia in cui veramente Cappuccetto risuscita e questa storia è più affine alla versione Grimm che a quella Perrault. Tuttavia non coincide con la partitura dei Grimm, perché lascia cadere una serie di fatti minori – su cui tra l’altro Perrault e i Grimm divergono, come ad esempio che tipo di doni Cappuccetto reca alla nonna, e su cui i bambini sono ampiamente disposti a transigere, perché si appellano a un individuo ben più schematico, fluttuante nella tradizione, instanziato in molteplici partiture, molte delle quali orali.
Così Cappuccetto Rosso, d’Artagnan, Ulisse o Madame Bovary diventano individui che vivono al di fuori delle partiture originali, e su di essi possono pretendere di fare affermazioni vere anche persone che non hanno mai letto la partitura archetipa. Ancora prima di leggere l’Edipo Re io avevo appreso che Edipo sposa Giocasta. Per quanto siano fluttuanti, queste partiture non sono inverificabili: chiunque dicesse che Madame Bovary si riconcilia con Charles e vive con lui felice e contenta incontrerebbe la disapprovazione delle persone di sano buon senso, come se esse si fossero collettivamente accordate sul personaggio di Emma.
Dove stanno questi individui fluttuanti? Dipende dal formato della nostra ontologia, se essa ospiti anche le radici quadrate, la lingua etrusca e due idee della Santissima Trinità, quella romana per cui (almeno sino all’altro ieri) lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (ex patre Filioque procedit), e quella bizantina, per cui lo Spirito procede solo dal Padre. Ma questa regione ha statuto molto impreciso ed ospita entità di diverso spessore, perché anche il Patriarca di Costantinopoli (disposto ad azzuffarsi col papa sul filioque) sarebbe d’accordo col papa (almeno spero) nel dire che è vero che Sherlock Holmes abitava in Baker Street, e che Clark Kent è la stessa persona di Superman.
Tuttavia è stato scritto in infiniti romanzi o poemi che – invento degli esempi a caso – Asdrubale uccide Corinna o Teofrasto ama follemente Teodolinda, eppure nessuno pensa che si possano fare affermazioni vere al riguardo, perché si tratta di personaggi sfortunati o nati male, i quali non hanno migrato né sono entrati a far parte della memoria collettiva. Perché è più vero, in questo mondo, che Amleto non sposa Ofelia che non il fatto che Teofrasto abbia sposato Teodolinda? Qual è la porzione di questo mondo in cui abitano Amleto e Ofelia e non lo sfortunato Teofrasto?
Questi personaggi sono diventati in qualche modo collettivamente veri perché la comunità ha fatto su di essi, nel corso dei secoli o degli anni, degli investimenti passionali. Noi facciamo investimenti passionali individuali su tante fantasie che possiamo elaborare a occhi aperti o nel dormiveglia. Noi possiamo realmente commuoverci pensando alla morte di una persona che amiamo, o risentire reazioni fisiche immaginandoci mentre abbiamo con essa un rapporto erotico, e parimenti, per processi di identificazione o di proiezione, possiamo commuoverci sulla sorte di Emma Bovary o, come è avvenuto ad alcune generazioni, essere trascinati al suicidio dalle sventure di Werther o di Jacopo Ortis. Ma, quando qualcuno ci chiedesse se veramente la persona, di cui abbiamo immaginato la morte, è morta, risponderemmo di no, che si è trattato di una nostra privatissima fantasia. Invece quando ci si chiede se veramente Werther si è ucciso rispondiamo di sì, e la fantasia di cui parliamo non è più privata, è una realtà culturale su cui l’intera comunità dei lettori conviene. Tanto che giudicheremmo folle chi si uccidesse solo perché ha immaginato (ben sapendo che si trattava di un parto della sua immaginazione) che la sua amata è morta, mentre cerchiamo di giustificare in qualche modo chi si sia ucciso per il suicidio di Werther, pur sapendo che si trattava di personaggio fittizio.
Dovremo ben trovare uno spazio dell’universo dove questi personaggi vivono e determinano i nostri comportamenti, così che li eleggiamo a modello di vita, nostra altrui, e ci comprendiamo benissimo quando diciamo che qualcuno ha il complesso di Edipo, un appetito gargantuesco, un comportamento donchisciottesco, ha la gelosia di un otello, un dubbio amletico, è un dongiovanni inguaribile, una perpetua. E questo, in letteratura, non accade solo coi personaggi, ma anche con le situazioni, e gli oggetti. Perché le donne che vanno e vengono per la stanza parlando di Michelangelo, i cocci aguzzi di bottiglia infissi nella muraglia, nel sole che abbaglia, le buone cose di pessimo gusto, la paura che ci viene mostrata in un pugno di polvere, la siepe, le chiare, fresche e dolci acque, il fiero pasto, diventano metafore ossessive, pronte a ripeterci a ogni istante chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo, oppure ciò che non siamo e ciò che non vogliamo?
Queste entità della letteratura sono tra noi. Non erano lì dall’eternità come (forse) le radici quadrate e il teorema di Pitagora, ma ormai, dopo che sono state create dalla letteratura e nutrite dai nostri investimenti passionali, esse ci sono e con esse dobbiamo fare i conti. Diciamo pure, per evitare discussioni ontologiche e metafisiche, che esse esistono come abiti culturali, disposizioni sociali. Ma anche il tabù universale dell’incesto è un abito culturale, una idea, una disposizione, eppure ha avuto la forza di muovere i destini delle società umane.
Ipertesti aperti e storie finite
Ma, qualcuno oggi ci dice, anche i personaggi letterari rischiano di diventare evanescenti, mobili, incostanti, e di perdere quella loro fissità che ci imponeva di non negarne i destini. Siamo entrati nell’era dell’ipertesto, e l’ipertesto elettronico non solo ci permette di viaggiare attraverso un gomitolo testuale (sia esso un’intera enciclopedia o l’opera omnia di Shakespeare) senza necessariamente «sfilare» tutta l’informazione che contiene, penetrandolo come un ferro da maglia in un gomitolo di lana. Grazie all’ipertesto è nata anche la pratica di una scrittura inventiva libera. Su Internet trovate programmi con cui potete scrivere collettivamente delle storie, partecipando a narrazioni di cui è possibile modificare l’andamento, all’infinito. E se potete fare questo con un testo che, insieme a un gruppo di amici virtuali, state inventando, perché non farlo anche per i testi letterari esistenti, acquistando programmi grazie ai quali potrete cambiare le grandi storie che ci stanno ossessionando magari da millenni?
Pensate, voi leggevate con passione Guerra e Pace, chiedendovi se Natascia avrebbe finalmente ceduto alle lusinghe di Anatolio, se quel meraviglioso principe Andrea sarebbe davvero morto, se Pierre avrebbe avuto il coraggio di sparare su Napoleone, ed ora finalmente potrete rifare il vostro Tolstoj, conferendo ad Andrea una lunga vita felice, facendo di Pierre il liberatore dell’Europa, e non solo, riconciliando Emma Bovary col suo povero Charles, madre felice e pacificata; e potrete decidere che Cappuccetto Rosso entra nel bosco e v’incontra Pinocchio, oppure viene rapita dalla matrigna e messa a lavorare col nome di Cenerentola al servizio di Scarlett O’Hara, o che essa incontra nel bosco un donatore magico che si chiama Vladimir Ja. Propp, il quale le regala un anello incantato, grazie al quale essa scoprirà, alle radici del baniano sacro dei Tughs, l’Aleph, quel punto da cui si vede tutto l’universo, Anna Karenina che non muore sotto il treno, perché le ferrovie russe a scartamento ridotto, sotto il governo di Putin, funzionano peggio dei sommergibili, e, lontano lontano, al di là dello specchio di Alice, Jorge Luis Borges che ricorda a Funes el memorioso di non scordarsi di restituire Guerra e pace alla biblioteca di Babele….
Sarebbe male? No, perché anche questo la letteratura ha già fatto, e prima degli ipertesti, con il progetto di Le Livre di Mallarmé, i cadaveri squisiti dei surrealisti, i miliardi di poemi di Queneau, i libri mobili della seconda avanguardia. Ed è questo che ha fatto la jam session jazz. Ma il fatto che esista la pratica della jam session, che muta ogni sera il destino di un tema, non ci esenta, né ci scoraggia, dall’andare nelle sale di concerto dove la Sonata in Si bemolle minore opera trentacinque finirà ogni sera sempre nello stesso modo.
Qualcuno ha detto che a giocare con meccanismi ipertestuali si sfugge a due forme di repressione, l’obbedienza a vicende decise da un altro e la condanna alla divisione sociale tra coloro che scrivono e coloro che leggono. Questo mi pare una sciocchezza, ma certamente giocare creativamente con gli ipertesti, modificando le storie e contribuendo a crearne delle nuove, può essere un’attività appassionante, un bell’esercizio da praticare a scuola, una nuova forma di scrittura molto affine alla jam session. Credo che potrà essere bello, e anche educativo, provare a modificare le storie che esistono già, così come sarebbe interessante trascrivere Chopin per mandolino: servirebbe ad aguzzare l’ingegno musicale, e a capire perché il timbro del pianoforte era così consustanziale alla sonata in si bemolle minore. Può educare al gusto visivo e all’esplorazione delle forme tentare dei collages componendo insieme lacerti del Matrimonio della Vergine, delle Demoiselles d’Avignon e dell’ultima storia dei Pokemon. In fondo molti grandi artisti lo hanno fatto.
Ma questi giochi non sostituiscono la vera funzione educativa della letteratura, funzione educativa che non si riduce alla trasmissione di idee morali, buone o cattive che siano, o alla formazione del senso del bello.
Jurij Lotman, ne La cultura e l’esplosione riprende la famosa raccomandazione di Cechov, per cui se in un racconto o in un dramma viene mostrato all’inizio un fucile appeso alla parete, prima della fine quel fucile dovrà sparare. Lotman ci lascia capire che il vero problema non è se poi il fucile sparerà davvero. Proprio il non sapere se sparerà o no, conferisce significatività all’intreccio. Leggere un racconto vuole anche dire essere presi da una tensione, da uno spasimo. Scoprire alla fine che il fucile ha sparato, o meno, non assume il semplice valore di una notizia. È la scoperta che le cose sono andate, e per sempre, in un certo modo, al di là dei desideri del lettore. Il lettore deve accettare questa frustrazione, e attraverso di essa provare il brivido del Destino. Se si potesse decidere del destino dei personaggi, sarebbe come andare al banco di una agenzia di viaggi: «Allora dove vuole trovare la Balena, alle Samoa o alle Aleutine? E quando? E vuole ucciderla lei, o lascia fare a Quiqueg?» La vera lezione di Moby Dick è che la Balena va dove vuole.
Pensate alla descrizione che Hugo fa della battaglia di Waterloo ne I miserabili. A differenza di Stendhal, che descrive la battaglia con gli occhi di Fabrizio, che ci sta dentro e non capisce che cosa stia avvenendo, Hugo la descrive con gli occhi di Dio, la vede dall’alto: sa che se Napoleone avesse saputo che oltre la cresta dell’altopiano di Mont-Saint-Jean c’era un dirupo (ma la sua guida non glielo aveva detto), i corazzieri di Milhaud non sarebbero rovinati ai piedi dell’esercito inglese; che se il pastorello che faceva da guida a Bülow avesse suggerito un percorso diverso, l’armata prussiana non sarebbe giunta in tempo a decidere le sorti della battaglia.
Con una struttura ipertestuale potremmo riscrivere la battaglia di Waterloo facendo sì che arrivino i francesi di Grouchy invece che i tedeschi di Blücher, e ci sono dei war games che permettono di farlo, e con gran divertimento. Ma la tragica grandezza di quelle pagine di Hugo sta nel fatto che (al di là dei nostri desideri) le cose vanno invece come vanno. La bellezza di Guerra e pace è che l’agonia del principe Andrea si conclude con la morte, per quanto ci dispiaccia. La dolorosa meraviglia che ci procura ogni rilettura dei grandi tragici è che i loro eroi, che avrebbero potuto sfuggire a un fato atroce, per debolezza o cecità non capiscono a cosa vanno incontro, e precipitano nell’abisso che si sono scavati con le proprie mani. D’altra parte Hugo lo dice, dopo averci mostrato quali altre opportunità Napoleone a Waterloo avrebbe potuto cogliere: «Era possibile che Napoleone vincesse quella battaglia? Rispondiamo di no. Perché? A causa di Wellington? a causa di Blücher? No. A causa di Dio.»
Questo ci dicono tutte le grandi storie, caso mai sostituendo, a Dio, il fato, o le leggi inesorabili della vita. La funzione dei racconti «immodificabili» è proprio questa: contro ogni nostro desiderio di cambiare il destino, ci fanno toccar con mano l’impossibilità di cambiarlo. E così facendo, qualsiasi vicenda raccontino, raccontano anche la nostra, e per questo li leggiamo e li amiamo. Della loro severa lezione «repressiva» abbiamo bisogno. La narrativa ipertestuale ci può educare alla libertà e alla creatività. È bene, ma non è tutto. I racconti «già fatti» ci insegnano anche a morire.
Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente.

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Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE