BASTA CON LA LETTERATURA! di Filippo La Porta
Leggendo queste righe qualcuno potrebbe pensare che io sono un incoerente e un ingrato, che sputo sul piatto in cui mangio, etc. In fondo campo anch’io di festival e di salotti letterari, di premi e di presentazioni di libri. E allora perché lanciarsi in questa furente invettiva? Eppure, vorrei rispondere, la letteratura che ho amato e che continuo ad amare non ha niente in comune con i 30.000 eventi culturali che ogni anno si consumano nel nostro paese, con la cosiddetta “semicultura” e con il “sottopensiero” oggi diffusi (e di cui altri hanno parlato con estrema precisione), con le opere che nelle nostre case formano la biblioteca di “Repubblica” e che simboleggiano status e privilegi, con la spettacolarizzazione forzata dei romanzi, con l’attuale addomesticamento di tutto ciò che risulti appena sgradevole o spaesante. Ma cominciamo dall’inizio. ..
Sul “Corriere della sera” avevo letto che al Festival di Mantova gli scrittori presenti vengono continuamente e febbrilmente scambiati con altri scrittori. Sembra che un autore inglese – da noi sconosciuto – sia stato scambiato per MacEwan e inseguito da un gruppo aggressivo di fans fin dentro un portone. Poi, scoperta la sua vera identità, quel gruppo non ha rinunciato all’autografo (non si sa mai…). Ho pensato subito ad una leggenda metropolitana, ma poi è capitato anche a me, dopo soltanto un’ora che ero arrivato al festival.
Come se fosse la desolante prefigurazione di un mondo ormai “postculturale”, dove persone e libri sono diventati merci fungibili, dove la letteratura stessa è continuamente scambiata con qualcos’altro…
Nuovo Rinascimento low budget
Se un giorno d’estate un viaggiatore straniero in Italia avesse voglia di qualcosa di “culturale” verrebbe sopraffatto dall’offerta esorbitante. Scorrendo le pagine di Internet l’elenco degli eventi in programma appare fittissimo: festival letterari, giardini letterari, parchi letterari, maratone letterarie, e poi cene filosofiche, colazioni con l’autore, recital di poesia (in un caso perfino letture pubbliche di reportage narrativi)… A quel viaggiatore, lievemente frastornato, sembrerà di essere capitato nel paese dorato dove fioriscono i Limoni e lo Spirito, nel cuore stesso di un nuovo Rinascimento, e per giunta di un Rinascimento democratico e low budget. Il paese dove si legge meno in Europa diventa all’improvviso una meravigliosa Repubblica delle Lettere…
Quanti sono i festival letterari nel nostro paese? Difficile quantificarlo. Vengono subito in mente i più noti: Mantova, Potenza, Roma, Cuneo, Crema… Si è anche creato recentemente un network di festival letterari a livello di Comunità Europea, allo scopo di far emergere – così viene annunciato – i “nuovi scrittori”, almeno due per paese ogni anno (e se non ci fossero? Se non si raggiungesse il numero legale? Non è che la qualità letteraria sia un diritto garantito…). Hans Magnus Enzensberger notava come gli eventi culturali che avvengono ogni anno in Germania sono circa 30.000, un pullulare di rassegne, convegni, dibattiti, talk-show, seminari, tavole rotonde, iniziative varie promosse da accademie, assessorati, gallerie, centri giovanili, fondazioni, fiere, etc. Tanto da indurlo a cominciare un suo saggio con la frase lapidaria”La nostra cultura è davvero insopportabile” (“Eventi e turpitudini”, in Zig-zag, Saggi sul tempo, il potere, lo stile Einaudi 1999). E in Italia? Limitandoci alla letteratura, secondo i dati in possesso del sito “Alice” (uno dei più completi e documentati del settore) i premi letterari sono 366 (e si tratta pur sempre di una selezione!), mentre gli eventi (presentazioni e convegni della durata massima di un giorno) dal novembre 2001 a tutto l’agosto 2002 assommano a 6537; però l’elenco non comprende le miriadi di iniziative di piccole librerie e biblioteche locali, né quelle che hanno a che fare con la letteratura e il libro indirettamente (ovvero cinematografiche, teatrali, etc.). Insomma, se dovessimo stilare un elenco ragionevolmente completo potremmo azzardare una vittoria sulla Germania con un secco 4 a 3!
Midcult padano …
Quando negli anni ’50 Dwight Macdonald elaborò il suo tagliente concetto di midcult, versione appena aggiornata del più antiquato Kitsch (ovvero: alta cultura ma liofilizzata e depotenziata, ridotta a spettacolo e consumo) non poteva immaginare che quel concetto avrebbe trovato la sua incarnazione istituzionale in Val Padana, mezzo secolo dopo. E’ a Mantova infatti che può capitare di essere presi per mano da Pietro Citati (impegnato a ri-raccontare, con parole sue, i grandi romanzi dell’800, in una confezione “rilegata”)o da Baricco (che ci promette di rileggere per intero Cuore di tenebra di Conrad, ma aggiungendovi le sue tipiche pause, e così trasformandolo come durata in Guerra e pace…), mentre al mattino possiamo provare il brivido promesso della “colazione con l’autore”. Ogni caffé della città ha il suo autore, come da programma e all’interno di una mappa inesorabile e un po’ burocratica. Certo, si tratta di incontri pianificati meticolosamente e gli scrittori si vedono obbligati a fare la colazione proprio in quel bar lì, quasi a timbrare il cartellino. Una specie di parco tematico, di Paese dei balocchi gastronomico-letterario. Per loro è un lavoro. Ma non importa, se sono veri professionisti sapranno fingere spontaneità e cordialità, e così potrete rivolgere la parola al vostro scrittore preferito, chiedendogli tutto quello che avreste voluto chiedergli. Se per Andy Warhol l’epoca della tv commerciale offriva a chiunque un quarto d’ora di celebrità, questa iniziativa mantovana permetteva ad ogni lettore di conversare per un quarto d’ora con il suo mito letterario, di entrare per un momento nel suo radioso cono di luce. Una letteratura dal volto molto umano e friendly, anzi “domestico”. Non intendo certo negare i molti meriti – e l’utilità – del Festival di Mantova, il più importante in Italia: di divulgazione e pedagogia culturale (la qualità degli incontri è sempre alta), di promozione della lettura, etc. Ma se si decidesse di non andare nella città padana, di rinunciare a correre affannosamente da una tavola rotonda dall’altra, e invece di leggere in tutta solitudine un bel libro a casa nostra… sarebbe davvero una grave perdita dal punto di vista culturale? Bisognerebbe domandarsi onestamente se la proliferazione di festival letterari rappresenti un sintomo di emancipazione culturale e testimoni di un crescente amore per la letteratura e per i libri. La mia sensazione è invece che si tratti di fenomeno che va analizzato a sé, così come i raduni di massa per il papa non hanno nulla a che vedere con la religiosità. Oltre al fatto che questi festival si fondano sul pregiudizio – palesemente infondato e quasi mistico – che la persona fisica del lettore sia più importante di tutto quello che ha scritto…
Il lettore disperso…
La questione appare assai delicata e basta poco a passare per nostalgici dei bei tempi, ad apocalittici snob animati da umori saturnini degni di un Ceronetti o del compianto Zolla. Un giustificato scetticismo su queste manifestazioni non è originato da spirito elitario. Si ispira invece – idealmente – al lettore disperso, privo di rappresentanza, poco amante di quiz culturali radiofonici, scarso frequentatore di inserti-libri dei quotidiani, che sa a malapena dei festival letterari, ma che legge un discreto numero di romanzi e di saggi, e qualche volta se ne fa modificare l’esistenza. Forse questo lettore è solo un mito, una generosa utopia sognata oggi da qualche critico isolato, come ad esempio Susan Sontag (che tempo fa parlava della lettura come espressione di “emozioni ardite e contrarie”), eppure io ne conosco personalmente qualcuno. E certo si colloca esattamente sul versante opposto rispetto a quella élite culturale di massa che trasforma tutto ciò che tocca in status symbol, come nello spot pubblicitario in cui le copertine Adelphi occhieggiano dallo scaffale. Lo storico delle idee Peter Gay sottolineava come “l’aspirazione alla cultura è forse la più tipica delle abitudini sociali borghesi”, e così i borghesi dell’epoca vittoriana “accumulavano i segni distintivi della cultura non per lusingare l’occhio, deliziare l’orecchio o commuovere l’animo, ma per sfoggiare, con autentico spirito da parvenu, una ricchezza e uno status sociale di recente acquisizione” (vedi L’educazione dei sensi, Feltrinelli 1986, pp. 29-30). Bisogna riconoscere che le classi medie ottocentesche mescolavano ambiguamente un filisteismo difensivo (per proteggersi“contro le stringenti domande che l’alta cultura seria avrebbe presto formulato”) e un genuino amore per le arti. Mentre nel secolo successivo prevarrà sempre più lo “spirito da parvenu”.
Hooligan alfabetizzati
Enzensberger sottolinea inoltre la indomabile vitalità della speciale industria degli “eventi” poiché, al contrario della cultura, quelli hanno la caratteristica di essere molto appariscenti e sempre torneranno utili al politico e al funzionario pubblico di turno, assai meno interessato ad ampliare una biblioteca o a costruire una infrastruttura. Nel ricercare poi le ragioni di un fenomeno del genere ne individua i 3 principali soggetti trainanti: organizzatori, autori stessi (nella veste di retori erranti) e ovviamente il pubblico, che sembra riscoprire, attraverso il contatto fisico con gli autori, un “residuo di socialità” e di autenticità nel mondo anonimo dei media. Condividendo la sua ispirazione di fondo credo però che, al di là del narcisismo degli assessori e della serializzazione degli autori, la causa principale del fenomeno vada ricercata quasi unicamente in questo terzo soggetto: il pubblico, la sua attuale composizione sociale, i suoi consumi, le sue caratteristiche (e tralasciando qui il ruolo degli editori, comunque interessati ad una promozione dei libri, e quindi le prevedibili lamentele dei piccoli editori per esclusioni e penalizzazioni varie a favore dei grandi gruppi editoriali). Un pubblico di massa ma ossessionato dalla smania di distinguersi e di sentirsi “superiore”, un pubblico variamente alfabetizzato (magari in fretta e “blobbianamente”) e che in quelle occasioni si sente finalmente protagonista. Di cosa? Di un evento unico, irripetibile, esclusivo. Sente infatti di abitare nel cuore stesso della cultura, partecipe dei suoi tesori più nascosti, e senza dover faticare ; perfino esentato dal noioso obbligo di leggere gli autori, dato che li ha visti e toccati con mano. Insomma il vero protagonista di questi eventi è il pubblico, quel pubblico che fa la fila per acquistare il biglietto o che rincorre gli scrittori per un autografo. In un certo senso i fruitori di queste manifestazioni sono come i nuovi hooligan studiati dai sociologi, e come loro definibili attraverso un felice neologismo: “spettatori”, spettatori cioè che vogliono a tutti i costi partecipare allo spettacolo.
Capitalismo culturale
Facciamo un passo indietro. Le ambigue fortune della letteratura vanno inserite in un contesto di culturalizzazione della società e della vita quotidiana che appare tutt’altro che emancipativo. Oggi, indubitabilmente, la cultura “tira” molto. Nei week-end i genitori accompagnano i figli nei musei (o gli regalano il cd rom del Louvre), gli abbonamenti ai teatri si moltiplicano, la gente fa la fila per vedere una mostra d’arte contemporanea, registi cinematografici una volta considerati di nicchia dispongono di un pubblico da multisale, le citazioni colte imperversano nei salotti, nei talk show, nelle trasmissioni sul calcio, nelle riunioni politiche al vertice, nelle riviste di gastronomia. Insomma, siamo in presenza di una pervasiva culturalizzazione della vita quotidiana, e anzi di una sua estetizzazione: anche il più modesto scovolino per w.c. assomiglia ormai ad un raffinato oggetto Bauhaus! E i nuovi pub e caffé alla moda sembrano delle gallerie d’arte! Non sarà che questa culturalizzazione sia l’ennesima versione dell’attacco all'”individuo”, alla sua autonomia critica, alla sua capacità di formarsi da sé i propri giudizi, sferrato con più o meno consapevolezza dal Grande Animale, ovvero dal sistema sociale? Il futurologo Alvin Toffler osservava che il capitalismo del futuro sarà “culturale”, dato che le multinazionali hanno scoperto proprio la cultura (non solo l’informazione) come business illimitato e capace di generare alti profitti. Ma quale cultura? Nell’ultimo romanzo di Michael Crichton – Timeline, ai confini del tempo -, certamente non il suo migliore, lo scrittore americano si rivela al solito straordinario sociologo, con una visione al tempo stesso disincantata e moralistica. Qui il “cattivo” Robert Doniger, scienziato quarantenne e proprietario di aziende miliardarie, dichiara ad un certo punto: “Il problema è riportare in vita il passato, renderlo vero”, dal momento che “l’artificiosità del divertimento porterà la gente a cercare ciò che è autentico”. E cosa c’è di più autentico del passato stesso? Proprio per questo la sua gigantesca corporation, che già finanzia scavi di archeologia medievale in Francia, si appresta a puntare addirittura sui viaggi nel tempo, partendo dalla convinzione che “il segmento di mercato in più rapida espansione è quello del turismo culturale”. E infatti i suoi progetti di sviluppo del turismo culturale in vari siti archeologici sparsi per il mondo prevede la costruzione, tutt’intorno, di alberghi, ristoranti , negozi e poi lo sviluppo del cosiddetto indotto, cioè libri, guide, costumi, etc.
Cultura come parco tematico?
Ora, se il futuro è “nelle mani di chi controllerà il passato” allora l’intero passato storico deve diventare una immensa Disneyland, un consumo di massa scintillante (ricordate i fuochi d’artificio per le classi medie di cui parlava negli anni ’20 Sigfried Kracauer?), un parco tematico avvincente e insieme molto istruttivo, non importa quanto simulato o quanto reale, ma che sia soprattutto plasmabile da noi. Ora, la culturalizzazione è un processo in parte ambivalente, intrecciato con l’economia ma anche con l’ampliamento della democrazia, e in qualche caso può acquistare una valenza positiva: si pensi all’uso della cultura per riqualificare il territorio urbano degradato Credo però che, anche sulla scia del moralismo di Crichton, dovremmo nutrire in proposito qualche diffidenza almeno per due ragioni. Innanzitutto questa culturalizzazione alimenta l’illusione di una specie di elevamento spirituale di massa, e dunque, facendoci sentire tutti più sensibili, ci rende autoappagati e un po’ indifferenti alla barbarie vera. E poi perché trasmettendo non tanto la cultura, che è sempre anche trasformazione di sé, fatica, interrogazione (le “domande stringenti” cui prima si accennava) quanto un suo surrogato indolore, già bell’e pronto (il parco tematico: Cultureland…), ci mette a disposizione una quantità sterminata di “idee ricevute”.
Semicultura e sottopensiero
Adorno nella sua Teoria della semicultura (in Scritti sociologici, Einaudi 1976) non intende affatto difendere la sussiegosa cultura d’élite ma ci ricorda come le idee contenute nei libri attualmente “non attraggono più gli uomini come conoscenze (…) né si impongono loro come norme di comportamento”: appunto sono diventate ornamento e museo. Nell’esempio che fa Adorno, di una cultura fine a se stessa e resa gradevole al gusto della borghesia – un passo di William Dilthey su Holderlin – (“Dove si può trovare la vita di un altro poeta intessuta di una stoffa più delicata, come di raggi lunari!”) l’’incantamento impalpabile della semicultura assomiglia davvero agli slogan della pubblicità. Una semicultura che evoca da vicino quel “sottopensiero” puntualmente descritto dal linguista Raffele Simone nel suo dialoghetto filosofico La mente al punto (Laterza 2002): “Si ottiene combinando cose altrui, cose che ci sono arrivate per sentito dire: mezze idee, frasi fatte, formule risapute…”. Ovviamente il pensiero quotidiano di ciascuno di noi è fatto anche di una buona porzione di sottopensiero, ma non si riduce interamente ad esso. E poi Simone ci invita a considerare la differenza decisiva tra “pensare ad una cosa” – attitudine oggi diffusissima e legata alla culturalizzazione – e “pensare una cosa” (solo nel secondo caso si rende quella cosa parte di sé, la si scioglie nella propria mente).
Una prima sintesi
Vorrei ora riassumere schematicamente alcuni elementi del ragionamento che ho fin qui tentato di fare.
1) La cultura autentica, e vieppiù la letteratura, non ama esibirsi, non sbandiera rumorosamente se stessa, non si mette al centro della scena, non è in sé spettacolare (può esserlo, accidentalmente, se si traduce in altro, se diventa un film di successo, se il titolo di un romanzo viene usato in uno slogan pubblicitario). Non appare totalmente a suo agio con maxischermi, amplificazioni da discoteca. Chiede anzi di sparire, di annullarsi e trasformarsi in altro – comportamento, gesti, sensibilità, esistenza.
2) Nel momento in cui la cultura (e in particolare la letteratura) diventa un consumo ambito e uno status symbol richiesto, allora vuol dire che il mondo non ha più veramente bisogno della cultura, avendola ridotta a mero ornamento. Singolare destino poi quello della letteratura nell’epoca digitale: al tempo stesso emarginata, considerata “postuma”, e ipocritamente venerata, circondata di aura, ridotta a luccicante paillette e dunque, secondo la lucida diagnosi adorniana, separata dalle cose umane e vicina alla barbarie. Ad esempio la nostra classe politica – evento credo unico in Occidente – gioca continuamente con la letteratura e da essa ama estrarre le sue lucenti metafore: un premier che pure ama ostentare un certo spirito spavaldamente naif non rinuncia a scrivere l’introduzione ad Erasmo da Rotterdam, un combattivo leader sindacale ci tiene a firmare le raffinate introduzioni ad un autore apocalittico come Philip K. Dick…
3) Di solito a questo tipo di obiezioni si replica: “Sì, va bene, ma meglio i festival e le maratone letterarie che il nulla!”. Ne siamo sicuri? Lo scrittore James G. Ballard nota come proprio Hitler rappresenti “uno degli eredi legittimi del XX secolo: l’epitome dell’uomo mezzo colto” in lotta con “il torrente di informazioni che minacciava di travolgerlo”, e “con la testa piena di velleità artistiche e di sproloqui tratti da riviste popolari” (Fine millennio: istruzioni per l’uso, Baldini & Castoldi 1999). Non intendo dimostrare che i festival letterari coltivano il neonazismo, ma certo la “mezza cultura” diffusa risulta pericolosissima poiché alimenta l’idea che la creatività sia un diritto e, come abbiamo detto, dà l’illusione di sentirsi problematici, informati, consapevoli di sé, senza peraltro esserlo affatto.
I rimedi
Qual è l’alternativa? Il ritorno alla cultura d’élite No, la contrapposizione non è tra élite e massa, ma semplicemente tra individuo e uomo-massa. E soltanto l’individuo può davvero “fare cultura”, ricreando un itinerario conoscitivo personale e trasformando incessantemente la propria esperienza in qualcosa di significativo e di comunicabile agli altri, tutto ciò in modo lento, accidentato, non garantito. Lo snobismo è invece di chi ha il terrore di essere “up to date” e non si perde un evento, una presentazione di libro, una mostra alla moda o un paginone di “Repubblica” , di chi tutto riduce a consumo chic e a citazione multiuso. Non propongo dunque l’appello demagogico agli analfabeti di tutto il mondo per unirsi contro una figura di intellettuale-mandarino ormai anacronistica (vedi Abruzzese). Si potrebbe invece dire: il dandy “comune” (anonimo, un po’ appartato e sparso nella folla), con la sua cultura divenuta interamente esperienza di vita (e dunque invisibile), contro l’uomo-massa ripieno di idee di avanguardia, tronfiamente mezzo colto e incline a esibire la sua mezza cultura…
Letteratura e jet-lag
Vorrei estrarre una metafora a partire da un bel libretto di antropologia di Franco La Cecla, Jet-lag (Bollati Boringhieri 2002). Nelle sue pagine apprendiamo che chi “viaggia” davvero si sente spesso male, prova nausea, disturbi da jet-lag, proprio come Bruce Chatwin (dal momento che si fa contagiare dai luoghi, ne avverte la irriducibile alterità, riconosce onestamente l’incompatibilità dei mondi). Credo che anche la letteratura autentica debba avere a che fare con qualche “disturbo”. L’ideale è un jet-lag da letteratura! I romanzi più belli sono quelli che danno contemporaneamente incanto e turbamento, felicità e disagio.
Correggerei allora il titolo di questo scritto. Non tanto “Basta con la letteratura!”, quanto “Basta con quella letteratura, confortevole e spettacolare, che riempie i programmi dei festival e attira schi