IL LUSSO DI LEGGERE di Domenico De Masi
Come si sa, verso la fine della sua vita, Flaubert concepì un’opera globale,
una sorta di rassegna critica di tutte le idee moderne. Essendo un artista e
non un pensatore, per nostra fortuna scrisse un romanzo e non un saggio. La
composizione di Bouvard et Pécuchet occupò sei anni e, ciò nonostante,
rimase incompiuta: come tutte le scritture; come tutte le letture.
La trama è nota: due copisti, molto amici tra loro, ricevono una cospicua
eredità e si ritirano in campagna con l’intenzione di acculturarsi leggendo
di tutto. Poiché poco dotati, nulla capiscono di ciò che leggono e, dopo una
trentina d’anni, delusi, comprano una doppia scrivania e tornano al loro
primitivo mestiere di scrivani. Piuttosto che leggere, preferiscono
scrivere.
Si dice che, per meglio mettersi nei panni dei suoi due personaggi poveri di
spirito, Flaubert leggesse a sua volta oltre mille trattati d’ogni genere:
dall’agronomia alla pedagogia, dalla fisica alla metafisica, sempre
sforzandosi di nulla capire. Emile Foguet ha commentato questo antefatto del
romanzo acutamente osservando che “se uno si ostina a leggere dal punto di
vista di uno che legge senza capire, in pochissimo tempo arriva a non capire
assolutamente nulla e ad essere ottuso per conto suo”.
Forse proprio per salvarsi dal contagio di una irreparabile mediocrità,
Flaubert, dopo sette capitoli in cui i suoi stupidi copisti tentavano
inconsapevolmente di istupidirlo, decise improvvisamente di rovesciare la
situazione: all’ottavo capitolo è lui, genio, che li fa diventare
improvvisamente geniali. Cinque anni di convivenza hanno trasformato i
personaggi nel loro autore, il quale, con una frase rimasta celebre, nota
che, a furia di leggere, “essi avevano finalmente conquistato la virtù
incresciosa di riconoscere a prima vista l’idiozia e di non riuscire più a
tollerarla”.
Non sapremo mai se le cose sono andate veramente così ma così ce le
racconta, forse romanzandole, il sulfureo Jorge Luis Borges in una raccolta
del 1932 titolata Discusiòn. E a noi così piace che le cose siano andate,
perché solo così vanno a comporsi in una sorta di parabola della lettura e
del leggere.
Perché ci ostiniamo a leggere? perché consideriamo il tasso di lettori come
indice di civiltà? Semplicemente perché leggere è un lusso. E’ il lusso.
Il lusso consisteva ieri nell’ostentazione di cose rare e vistose; consiste
oggi nel godimento di cose rare ma invisibili. Secondo Hans Magnus
Henzensberger sei sarebbero le cose veramente rare oggigiorno (il tempo, lo
spazio, l’autonomia, il silenzio, l’aria pulita e la sicurezza) cui, di mio,
aggiungerei la creatività e la convivialità. E la lettura: che ogni altra
forma di lusso presuppone e comprende, consentendo al lettore di attingere
la decima e suprema forma di lusso: l’attitudine, appunto, di riconoscere a
prima vista la mediocrità e di non riuscire a tollerarla.
“Al monologo con mia moglie -diceva Carl Kraus- preferisco il dialogo con me
stesso”. La lettura facilita questo dialogo e lo moltiplica includendo tra i
nostri interlocutori, accanto a noi stessi, anche l’autore del libro e i
suoi personaggi.
Nella lettura tutti i sensi tacciono. L’udito, il tatto, l’olfatto, il gusto
si fanno da parte e cedono il passo alla vista che, concentrandosi sulla
pagina, crea un rapporto diretto tra l’autore, il libro, l’occhio e la mente
del lettore, senza altra intermediazione che la fantasia di quest’ultimo.
Ancora più densa è questa concentrazione quando si legge un testo teatrale.
Allora avviene qualcosa di analogo a ciò che Moravia intravedeva nella
psicologia del marchese de Sade: “Una strana saldatura di parti per solito
lontane l’una dall’altra, un po’ come di un sistema digerente nel quale lo
stomaco sia amputato e l’intestino collegato direttamente con l’esofago”.
Quando ci si abbandona alla gioia ineguagliabile della lettura di un testo
teatrale, la vicenda narrata dall’autore e quella immaginata dal lettore si
saldano senza l’intermediazione ingombrante di attori, scene, regia e
pubblico circostante.
Questa volta non è il regista a decidere i tempi e i modi della
rappresentazione, né lo scenografo a decidere i colori, i costumi, le
suppellettili. Questa volta è il lettore che si appropria di tutti i ruoli,
che può rallentare o accelerare l’azione, che può alzare o calare le luci e
i colori senza i condizionamenti del palcoscenico, degli interlocutori,
delle musiche, degli elettricisti.
Questa volta, soprattutto, è il lettore che, senza i noiosi tempi tecnici
imposti dai cambiamenti di scena, può passare disinvoltamente da un livello
all’altro della realtà descritta nel copione che scorre sotto i suoi occhi.
Ricordate Sogno di una notte di mezza estate? come nota Calvino, vi sono
almeno cinque livelli di realtà in quel copione: vi è il livello dei
personaggi di rango elevato della corte di Teseo e di Ippolita; vi è il
livello dei personaggi soprannaturali (Tania, Oberon, Puck); vi è il livello
dei personaggi comici plebei (Botton e compagni); vi è il livello del regno
animale in cui entra Bottom con la sua metamorfosi asinina; e vi è in fine
il meta-teatro offerto dal dramma di Piramo e Tsibe. Pensate con quanta più
disinvoltura chi legge il testo in casa propria può vagare da un livello
all’altro, rispetto a chi, seduto in un palco del teatro, è inchiodato alle
decisioni sceniche del regista.
Ricordate l’Amleto? qui i livelli di realtà diventano sei, come rinota
Calvino: il livello dei valori arcaici e cavallereschi rappresentati dal
fantasma del padre di Amleto che invoca giustizia; il livello realistico del
marcio in Danimarca rappresentato dalla corte di Elsinore; il livello della
coscienza psicologica rappresentato dall’interiorità di Amleto, il livello
del mascheramento linguistico rappresentato dalla follia simulata di Amleto,
in cui Polonio scorge del metodo; il livello della follia vera prodotta
dalla follia simulata, rappresentato dal suicidio di Ofelia; il livello del
meta-teatro, rappresentato dai teatranti cui Amleto affida la sua denunzia.
Solo chi legge un copione può vagare tra pagine e livelli; può accelerare e
rallentare i ritmi della rappresentazione; può smettere e riprendere a suo
piacimento perché è l’unico a condividere con l’autore il piacere assoluto
del testo. Piacere: che è ragione, sentimento e fantasia..