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AUTODENIGRAZIONE DI UN GENIO Giorgio Manganelli

Nel settembre 1858 – un secolo fa, per l’appunto – Darwin si accingeva a preparare “un suo volume sulle origini della specie”, come egli disse, “che mi costò tredici mesi e dieci giorni di duro lavoro”. The Origin of Species venne pubblicato nel novembre del 1859, e nel giro di poche settimane divenne il libro più discusso d’Europa. “Senza dubbio – scrisse Darwin – è questa la massima opera della mia vita. Fin da principio ebbe grande successo. La prima edizione di 1250 copie venne esaurita nel giorno stesso della pubblicazione, ed in breve anche una seconda edizione di 3000 copie. Tra il ’59 e il ’76 se ne vendettero 16000 copie, che non è una piccola cifra, per un libro tanto ponderoso”.
Queste note ispirate ad uno schietto orgoglio mercantile, insieme ingenue e proterve, Darwin scrisse per la sua Autobiografia, che egli intraprese a scrivere nel maggio 1876 e concluse nell’agosto dello stesso anno: Darwin aveva allora sessantasette anni, e non più di sei anni lo separavano dalla morte. Questa autobiografia venne pubblicata una prima volta nel 1887 – Darwin era già morto da cinque anni – ma talmente mutilata e racconciata da una sorta di pietosa censura familiare, da toglierle ogni colore e vigore, e gran parte dell’interesse; e non diversamente venne ristampata due volte in questo secolo. Solo ora una nipote dello scienziato, Nora Barlow, ha dato alle stampe l’edizione integrale dell’Autobiografia, diligentemente trascrivendola dal manoscritto, collocato ora alla biblioteca universitaria di Cambridge.
“Un editore tedesco – scrive Darwin in apertura delle sue memorie – mi ha di recente richiesto una breve autobiografia, che fosse insieme storia della mia personalità, e delle mie idee: ed io ho pensato che forse mi ci sarei divertito, e che forse anche i miei figli, o i loro figli, l’avrebbero letta con interesse. Pertanto ho cercato di mettere per iscritto questo racconto della mia vita, come se io fossi già morto, e da un altro mondo mi volgessi a considerare me stesso e i miei ricordi. Né questo m’è stato difficile, giacché la vita per me è ormai finita. Né mi son dato gran pensiero dello stile.”
Questa Autobiografia voleva dunque essere un documento familiare, la testimonianza concreta di una esistenza, come le bibbie familiari dei mercanti toscani: non scritto per placare una inquietudine delle emozioni o della intelligenza, ma per far cronaca – e cronaca dimessa, parlata, cordiale anche se impacciata o ineguale, come può esserlo un racconto non letterario. E così appunto sono queste memorie; di lettura non sempre agevole, ma cattivante sempre; se non affatto prive di stile, certo ineguali, perplesse, dove a pagine svelte e colorite, altre se ne alternano, fitte di periodi che incespicano, di aggettivi generici e ripetuti – quante cose non sono mai ‘delightful’ per Darwin – impacciate e confuse. Eppure il libro ha una sua singolare intensità, un fascino irto e rustico, che vuole lettura attenta e non casuale: ed ha anche una qualità intellettuale, per dirla romanticamente, una ‘ispirazione’ che vuole essere analizzata e compresa.
All’inizio, il libro non pare molto interessante: qui non c’è introspezione, nota il lettore, non solo non c’è confessione, ma pare che sia affatto assente la materia stessa di una confessione; né ci sono avvenimenti di importanza più che privata, giacché non solo pare siano mancati gli eventi significativi, ma che se fossero anche sopraggiunti, Darwin non se ne sarebbe accorto, o si sarebbe dimenticato di darne racconto; e infine, manca anche la più lieve traccia di poetica della memoria; il racconto poi è fiacco e goffo.
In breve, ci si accorge che questo libro di memorie è esattamente il contrario di ciò che il lettore cerca in una storia personale: e questa estraneità al nostro mondo intellettuale, ed anche semplicemente alle nostre convenzioni letterarie, rende il libro non facile a leggersi. E’, realmente, la testimonianza di un mondo morale che è così totalmente estraneo alla nostra consuetudine, da risultare quasi incomprensibile: l’Autobiografia di Darwin è, in breve, un ultimo documento di un mondo classico, di un’idea dell’uomo e delle sue qualità che non pare tocca dalla fantasia romantica. Potremmo dire che quello che ci stupisce è, in questo resoconto d’una vita lunga e operosissima e intensamente originale, la totale assenza di angoscia, o di culto del dolore, e di qualunque prospettiva dionisiaca. E che si tratti di una scelta morale, conferma quel che sappiamo anche da altre fonti della vita di Darwin, che fu travagliata da infermità e da sofferenza fisiche e psichiche, ma non mai resa infelice. Dei suoi mali, Darwin giunse a rallegrarsi, giacché gli imponevano quella vita ritirata e ordinata, che più conveniva ai suoi studi ed alle sue meditazioni.
Questo risultato, Darwin conseguì grazie ad una concentrazione della sua esistenza, dei suoi affetti, e soprattutto del suo lavoro intellettuale, che ha una radicalità ed una compattezza alquanto mostruose: ma restituisce dimensione umana a questa non armoniosa intensità, la coscienza, insieme umiliata e amabilmente contrita, con cui Darwin parla delle sue limitazioni. Di poesia, confessa di non capire nulla.
“Fin verso i trent’anni, o poco oltre, provavo gran piacere a leggere poesia di vari autori, come Milton, Byron, Wordsworth, Coleridge, e Shelley; e quando andavo a scuola provavo un piacere intenso a leggere Shakespeare, specialmente i drammi storici. Ma ormai, da molti anni, non mi riesce di leggere più neanche un verso: di recente mi son provato a leggere Shakespeare, e l’ho trovato insulso fino alla nausea. D’altro canto, da anni traggo divertimento meraviglioso e gran piacere da romanzi, che sono opere di fantasia, ma di livello non troppo alto. Me ne sono fatto leggere ad alta voce un numero impressionante, e mi piacciono tutti, purché siano moderatamente buoni, e non finiscano male – cosa, questa, che dovrebbe esser proibita per legge. Per il mio gusto, un romanzo non può essere di prima qualità, se non abbia qualche personaggio degno di incondizionato amore, e tanto meglio se si tratta di una graziosa donzella.”
Con la medesima massiccia ma schietta autoironia parla della sua mancanza di orecchio musicale, singolarmente associata ad un notevole interesse per la musica: “Sono così affatto sprovvisto di orecchio musicale, da non riuscire a sentire una stonatura, o a tenere il ritmo, o a fischiettare un motivo in modo tollerabile; ed è un mistero, in qual modo io possa trar piacere dalla musica. I miei amici in breve si accorsero di questa mia condizione, e talora si divertivano a sottopormi ad un esame, che consisteva nell’accertare quanti motivi io fossi in grado di riconoscere, se suonati più velocemente o più adagio del solito. Suonato a quel modo, ‘Dio salvi il Re’ diventava per me un vero rebus.”
Codesta carenza estetica Darwin lamentava con disarmante perplessità: “Mi sembra che la mia mente sia diventata una sorta di macchina per macinare grossi cumuli di fatti e ricavarne leggi generali: ma non riesco a capire perché ciò abbia causato l’atrofia di quella parte del cervello dalla quale dipende il gusto per l’arte. Suppongo che un uomo dotato di una intelligenza meglio organizzata non avrebbe così gravemente sofferto; e se io dovessi rivivere la mia vita da capo, mi imporrei come regola di ascoltare musica o leggere poesia, almeno una volta alla settimana; giacché in tal modo la parte del mio cervello che si è così atrofizzata, sarebbe rimasta viva, grazie all’esercizio.”
E ancora, con questa ruvida onestà descrive il funzionamento della sua mente: “Non ho grande sveltezza nell’apprendere, né quell’intuito che è tanto notevole in certi uomini superiori, come Huxley. Come critico, perciò, non valgo molto: quando leggo un libro o un articolo generalmente resto subito preso d’ammirazione, e solo dopo attenta riflessione riesco a scorgere i punti deboli. Assai limitata è la mia capacità di seguire un ragionamento lungo ed astratto; in filosofia e in matematica non avrei mai concluso nulla. Ho memoria comprensiva, ma confusa; e non sono mai stato capace di tenere a mente per qualche giorno una data, o un verso. Alcuni critici hanno detto di me: ‘Non credo che sia vero, giacché The Origin of the Species è un lungo ragionamento dal principio alla fine, e ha convinto non pochi uomini di qualità. Nessuno avrebbe potuto scrivere quel libro, senza una certa quantità di ragionamento.’ Ho fantasia e buon senso, quanta ne occorre ad un buon avvocato, o ad un buon medico, ma di più, non credo.”
Un libro dunque non bello propriamente, né di eccezionale sottigliezza: ma reso compatto vitale e autentico da una disadorna e asciutta chiarezza interiore, dall’impeto non passionale, ma greve e non mai dubbioso, di una vocazione radicale; e illuminato da un lucido e contegnoso amore della realtà.
Al principio di questa nota, s’è accennato ad una prima edizione mutila, del 1887, da cui vennero tratte le successive ristampe, eccettuata quest’ultima che restituisce il testo integrale. La storia di quella prima edizione è un documento dell’età vittoriana: e val la pena di accennarvi. Allorché il figlio Francis Darwin si propose di dare alle stampe il testo dell’autobiografia, la famiglia Darwin venne scossa da discussioni di incredibile violenza. Una sorella di Francis, Etty, si dichiarò talmente disgustata a leggere le assai crude idee sulla religione esposte dal padre, da minacciare azione legale; ed alla fine Francis accettò il consiglio della madre, e tolse dall’Autobiografia una serie di pagine e passi, specie tra quelle che trattavano della religione e che alludevano a persone ancora viventi. Darwin non era uomo da palliare le sue idee ed opinioni, e certa secchezza di linguaggio deve aver turbato non poco la signora Darwin: di costei si conserva una lettera – ripubblicata nella presente edizione dell’Autobiografia – insieme irritante e disarmante: dopo aver consigliato l’omissione di un passo in cui Darwin enuncia l’ipotesi che Dio sia una specie di riflesso condizionato di tipo filogenetico, la signora Emma Darwin aggiunge: “Se possibile vorrei evitare di dar dolore agli amici di tuo padre, di convinzioni religiose, e insieme affezionati a lui, e mi immagino come li colpirebbe una frase del genere, anche persone di idee liberali come Ellen e Laura; e ancor più l’Ammiraglio Sullivan, la zia Carolina e i nostri vecchi servitori…” Questa censura esercitata in nome della zia Carolina e della servitù anziana, è veramente un affascinante dagherrotipo vittoriano.

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