Conversazioni

LA SCRITTURA NOMADE di Goffredo Parise Conversazione con Silvio Perrela di Salvatore Ferlita

Autore di un fondamentale saggio su Calvino e curatore del Meridiano Mondadori che riunisce le opere di Raffaele La Capria, Silvio Perrella è riuscito davvero, come dice Garboli, ad “accendere e a spegnere le luci della vita” capricciosa e imprevedibile dello scrittore vicentino, Goffredo Parise nel suo Fino a Salgarèda. La scrittura nomade di Goffredo Parise. Perrella non ha fatto altro che interrogare la vita di Parise, tirandone fuori il senso di una plausibile ermeneutica e consegnandocene, in questo saggio struggente, le chiavi. Un “saggio-romanzo” l’ha definito La Capria, costruito su cinque capitoli, che corrispondono ai luoghi della scrittura di Parise: Venezia, Milano, New York, Roma e Salgarèda, anche se ci sarà sempre in Parise, come scrive Perrella, “uno slittamento tra luoghi scritti e luoghi vissuti, una non coincidenza”. Luoghi che, secondo il critico, sono le vere “chiavi” per entrare nell’universo di Parise, nell’officina di questo “poeta dell’addio” segnato dalla stimmate della nascita illegittima; luoghi intesi come tappe di un lungo viaggio che si concluderà appunto a Salgarèda.
Ne abbiamo parlato con l’autore.

Dal libro viene fuori il Parise nomade, irrequieto, desideroso di costruirsi una casa, ma continuamente alla ricerca di un altro luogo. Il nomadismo, in pratica, e di conseguenza la solitudine e l’estraneità, per lei diventano la chiave di lettura per entrare nel mondo di Parise.

Sono stato in dubbio fino alla fine se usare come sottotitolo non La scrittura nomade, ma Movimenti remoti, come suonava il titolo di una sua opera che sembrava essere andata perduta e che è invece riemersa dalle carte dell’Archivio Parise di Ponte di Piave, un cui frammento ho letto al recente convegno romano. Esistono molti modi di essere nomadi e quello di Parise potrebbe essere definito un nomadismo stanziale. Muoversi nello spazio e nella geografia visibile del mondo significa scuotere la psiche. Parise va nel lontano, ma ha spesso in mente il punto di partenza. La sua vita espressiva, vista dalla distanza del poi, ha un movimento circolare. Da Vicenza – dov’era nato nel 1929 – torna, dopo varie tappe, nel Trevigiano, prima a Salgarèda e poi a Ponte di Piave. E’ un cerchio, ma non perfetto, piuttosto una spirale. Scrivendo ho cercato di rappresentare questi movimenti remoti, facendoli diventare la struttura stessa del libro.

Parise, lei dice, quando scriveva non dimenticava mai di possedere un corpo. Un corpo con cui toccare il mondo, un corpo con cui sciare. Tanto che, a un certo punto, la sua mente crea un nesso fortissimo tra i due verbi, scrivere e sciare.

Amava la neve e amava sciare. Le sue frasi a volte sembrano sciare sulle pagine. Sono frasi veloci e scattanti (soprattutto quelle dei Sillabari), hanno movimenti che ricordano la repentinità di chi si lancia giù lungo una dorsale innevata. Parise non ha mai voluto rinunciare all’avventurosità, alla conoscenza come imprevedibile conseguenza di un gesto. Era il suo un modo per ricordare che non contano solo i nostri pensieri, ma è necessario porsi in ascolto del mondo esterno.

Per Parise, che come Gadda ha letto Darwin, c’è un rapporto strettissimo tra la biologia e la letteratura. Questo nesso è ampiamente sviluppato nel suo libro, tanto da sospettare che sia anche e forse soprattutto il suo modo di intendere i libri e la vita di chi li scrive.

“Forse è così, non so. Non posso negare di avere un interesse per le forme, siano esse letterarie o umane. Il Dna è, tra le scoperte scientifiche del secolo scorso, quella che più possiede un certo valore narrativo. Ognuno di noi abita in un racconto biologico, costituito dal proprio corpo. E ogni corpo ha una sua forma diversa dalle altre; una forma che s’intona spesso ai nostri pensieri e agli umori più segreti. Estrapolare i racconti da noi stessi è il lavoro che fanno gli scrittori. Leggendo le loro opere, a volte intuiamo per un attimo la forma del nostro destino, e un attimo dopo, per fortuna, la dimentichiamo. E’ un fulmine di conoscenza.

Perché per Parise era importante difendersi dall’accumulo libresco? È vero, secondo lei, che tra lui è il mondo non c’erano libri? Può l’autore de Il prete bello essere definito uno scrittore che nelle sue opere brucia, nega, il post-moderno?

Parise ha intuito il postmoderno con Il padrone alla metà degli anni Sessanta, e ancor prima viaggiando in America. Ma se ne è presto allontanato, andando nella direzione opposta, quella di un recupero del rapporto primario con il mondo. Ciò non significa che Parise non fosse consapevole che riabilitare la naturalezza del vivere fosse difficile e a volte impossibile. Ma ci ha provato, non solo cambiando la sua scrittura, ma cambiando se stesso come uomo. E per cambiare se stesso si è difeso dai libri, dall’accumulo cartaceo. Si spiega così il perché della sua pulsione a buttare via le lettere ricevute, a disfarsi della carta in sovrappiù. Per fortuna qualcosa è rimasto, ma per merito di chi riceveva le sue lettere”.

Pare di capire che il miglior Parise sia in quei libri in cui la sua “rabbiosa forza fisica” si traduce in una “lingua semplificata e ragionativa”. È vero?

Non sempre. E’ vero ne Il padrone e ne L’odore del sangue. Ma c’è anche il Parise dell’abbandono e della conoscenza sensuale. In lui l’analisi della ragione e la sintesi della percezione sono sempre fenomeni in comunicazione. Dipende da come si mescolano e dalla loro mescolanza nascono i diversi salti stilistici di Parise.

Parise è stato uno scrittore che ha imbarazzato i critici: quando vide la luce L’odore del sangue, libro analitico come lei dice, che martirizza la ragione, si parlò quasi esclusivamente del Sillabario. Forse che il tema del romanzo, ossia la presenza di Priapo, la fascinazione del fallo “nella sua nuda potenza”, erano da censurare? Ma quasi nessuno si era accorto che quel libro, come lei scrive, era “il testamento di un uomo adulto che dice addio sia alla vita sia alla letteratura”.

L’odore del sangue è un libro nato dalla necessità e dal dolore. Forse neanche lo stesso Parise ne aveva un percezione precisa. Non gli è stato dato il tempo di poterlo vedere fuori di sé come qualcosa di autonomo. Quando lo lessi la prima volta, in dattiloscritto, non seppi cosa pensare. Mi piacque e non mi piacque. Oggi mi affascina molto. E’ come se il tempo gli avesse donato dimensioni che solo i libri nati dalla necessità possiedono. Sempre più spesso incontro persone che sono state segnate dalla lettura de L’odore del sangue. Uno di questi è il regista Mario Martone, che poi ne ha girato anche un film. Ma si tratta ancora di lettori singoli, che non hanno creato un’attenzione comune e pubblica intorno al libro, com’è invece avvenuto per Petrolio di Pasolini.

Ogniqualvolta Parise scrive una voce dei Sillabari, pare di capire, rinomina il mondo, come se fosse il primo uomo a farlo. Si può parlare di una innocenza di Parise, di una sua purezza? Un’innocenza e una purezza che lo portavano ad amare la montagna, la brina, la legna, gli uccelli.

Non lo so. Credo che Parise non credesse nella purezza. Essendo vittima di malattie precoci, aspirava alla salute, questo sì. Sembra che quando ha finalmente incontrato il vero padre, gli abbia chiesto soprattutto se avesse malattie ereditarie. Ma una particolare forma di innocenza Parise la possedeva, forse ha ragione lei. Era nel suo sguardo, che non aveva mai dimenticato cosa prova un bambino quando scopre il mondo visibile. Parise è stato un precoce adulto-bambino, e in questa dicotomia risiede, credo, la radice della sua originalità.

Dietro a ogni libro di Parise sta un preciso sentimento della vita che si trasforma in esattissimo stile di scrittura. Quando, secondo lei, non avviene nelle sue opere questa trasformazione, e perché?

Non avviene quando a prevalere è la ragione, quando Parise non si sente a suo agio nello spazio della pagina e non sa come abitarla. A volte capita in alcuni passaggi de Il prete bello, o nei racconti de Il crematorio di Vienna. Fu lui stesso a imputarsi, in alcuni casi, un eccesso di razionalismo, e dunque una mancanza di poesia. Al contrario, Parise è a suo agio quando prova un sentimento preciso. Allora scrive quasi con noncuranza, cercando di arrivare il più presto possibile alla fine. Tutto procede veloce e prende un ritmo dispari, con improvvisi scarti. Mi piacerebbe molto sapere come camminava Parise, che andatura aveva. C’è una frase della Ginzburg che può fare intuire qualcosa di Parise, scriveva la Ginzburg: aveva stampata la solitudine nel corpo, nell’incedere del passo. Vorrei sapere come camminava perché credo a quella “teoria dell’andatura” di cui parlava Balzac. E credo anche che gli scrittori usino la punteggiatura non in senso grammaticale, ma per dare alle frasi un’andatura, e che quest’andatura abbia qualche rapporto misterioso e inspiegabile con il loro modo di camminare. Ma essendo tutto così difficile da dimostrare, ho lasciato questi pensieri fuori dal mio libro.

A suo avviso, come riusciva Parise a essere uno scrittore dei sentimenti, uno scrittore vicino alle persone che hanno il cuore e che vede il cuore palpitare, standosene lontano dal sentimentalismo?

Ci riusciva non dimenticando la ragione. Non si pensa solo con il cervello, ma anche con il cuore. Raffaele La Capria ha detto che Parise possedeva l’intelligenza del cuore. E’ vero. E ne derivano molte cose non solo letterarie. So quanto la parola cuore sia stata sottoposta ad usura dai sentimentalisti, ma corro il rischio di pronunciarla lo stesso perché non ne trovo un’altra. Certo, è sempre più raro trovare all’opera questo tipo speciale di intelligenza. Negli ultimi anni mi è capitato soprattutto con i due ultimi film di Almodovar, Tutto su mia madre e Parla con lei. La scena in cui canta Caetano Veloso mi sembra l’emblema di ciò che qui sono riuscito solo ad accennare.

La scrittura di Parise, nei suoi libri migliori, sembra illuminata da quella luce dell’alba che lui tanto amava. Dalla luce che solo la neve sa riflettere. Da qui forse il mistero che investe le sue pagine, quella magia che le attraversa?

C’è la luce dell’alba di cui lei parla in alcuni Sillabari, ma c’è anche la luce cruda e notturna de L’odore del sangue. Pochi scrittori hanno visto la luce della fine come Parise; pochissimi hanno saputo dire addio come lui.

Parise, grazie al suo libro, sembra come rinato, avendo dismesso la veste del pessimista atrabiliare e del misantropo irrecuperabile, e svelando la sua vera natura di artista che scruta il reale senza infingimenti. Anzi, lei dice che il suo esempio oggi può tornare più utile anche di certe geniali intuizioni di Pasolini.

Sì, mi sembra così.

Admin

Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE