Conversazioni

FORUM / PICCOLI E MEDI EDITORI CRESCONO (5 domande a 6 editori e/o editor) a cura di Salvatore Ditaranto

1. “Editoria senza editori” (Shiffrin). Grandi case editrici amministrate da manager. Obbiettivo: profitto. Le piccole e medie case editrici stessa logica o bastiancontrario?

Simone Caltabellota: (editor “Fazi” editore – Roma) Io sono per la qualità dei titoli e la coerenza ad un progetto. E comunque sia per una casa editrice indipendente che per un grande gruppo editoriale il progetto economico è importante. Il mio obbiettivo è quello di far pubblicare libri buoni che si vendano. Anche se nessuno può programmare nulla altrimenti tutte le case editrici farebbero libri che vendono. Io poi sono convinto che il lettore non è scemo. Sa fare le sue scelte!

Marco Vicentini: (editore “MeridianoZero” – Padova) Obiettivi: profitto e qualità

Marco Monina: (editore “Pequod” – Ancona) Le piccole case editrici non possono essere amministrate da manager. L’ha spiegato molto bene Sergio Fanucci in una intervista a “Sette”, quando si privilegia il catalogo non può essere un manager (o un consiglio d’amministrazione) a decidere che titoli pubblicare, quando e perché. La verità è che la divisione non è più tra grandi e medio/piccole case editrici, ma tra industria editoriale e editoria. È banale ma è così.

Marco Cassini: (editore “Minimumfax” – Roma) Provo a dire in due parole un concetto che richiederebbe interi libri (e per di più ce ne sono di già buoni, come quello di Shiffrin appunto): per le grandi case editrici il profitto è l’obiettivo. Per le case editrici piccole, indipendenti, di qualità, di progetto o comunque vogliamo chiamarle, il profitto è il mezzo per poter continuare a stampare i libri che per esse è importante pubblicare.

Giulio Mozzi: (editor “Sironi” – Milano) Sironi è un’emanazione di Alpha Test, una casa editrice che dal 1993 a oggi si è affermata in alcune precise nicchie di mercato: i manuali per prepararsi alle prove di ammissione all’università, i manuali per prepararsi agli esami di concorso (il prodotto leader è il Manuale del promotore finanziario), i “sunti” nelle materie più disparate, e così via.
In Alpha Test lavorano una quarantina di persone. Alcune di loro sono si occupano anche del progetto Sironi. Sironi, tra parentesi, si chiama così perché i quattro principali soci di Alpha Test sono tre fratelli, i tre fratelli Sironi per l’appunto, e Massimiliano Bianchini (che ha il ruolo di direttore editoriale del progetto Sironi). Dico questo per dire che il progetto Sironi non nasce con spirito idealistico. Per far circolare effettivamente dei libri, per assicurare una continuità di produzione, per avere una distribuzione degna di questo nome, bisogna badare attentamente al quattrino.
I libri Sironi devono produrre un profitto. Non è necessario che producano profitti stellari: per l’azienda Alpha Test il progetto Sironi non ha solo un valore economico diretto. Ha anche un valore economico indiretto (ad esempio in termini di prestigio), ha un valore umano, ha un valore etico (e quindi politico).
Le persone che materialmente lavorano al progetto Sironi hanno ben chiaro questo. Anch’io l’ho ben chiaro. Un editore non può ragionare come un presidente dell’Inter. L’attività, da un certo punto in poi, deve autoalimentarsi. Se i conti non tornano si smette di fare libri, si mettono a rischio posti di lavoro, si rischia di far naufragare tutto. Ci sono editori-squali, senz’altro. E nessuno in Sironi ha voglia di diventare un editore-squalo. Ma anche le sardine mangiano…

Marco Zapparoli: (editore “Marcosymarcos” – Milano) Obiettivo lavorare su quello in cui si crede. Più si è convinti di un autore e di un libro, più si riesce a farlo conoscere. Non ha senso, per noi, lavorare sui numeri. Non l’ha mai avuto e non potrà mai averlo. Tutti si rendono conto quando ci entusiasmiamo, tutti si rendono conto quando un piccolo editore scimmiotta il modo di fare dei grandi. E lì ridono tutti. Pubblico e colleghi. E i libri, anziché emergere, si sprecano. Ed è un peccato, una tristezza. Pensate all’entusiasmo con cui Cristiano Cavina autore di “Alla grande” ha affrontato il suo esordio da aprile a oggi. E’ stata un’esperienza stupenda per tutti: noi, lui, i lettori, i librai (ha fatto più di sessanta incontri, richiesti spontaneamente).

2. Le grandi case editrici, distribuzione, vendita, pubblicità, visibilità, uffici stampa, l’esercito contro un manipolo, una moltitudine contro un oligopolio, quali spazi e quali difficoltà per le piccole e medie case editrici?

S. Caltabellota: L’inizio è difficile. Fondare una casa editrice è abbastanza complicato. Nei primi anni si deve essere disposti a perdere, poi ci vuole un bravo distributore, un buon progetto editoriale e un po’ di fortuna!

M. Vicentini: Passo. Non ha senso rispondere in poche righe a una domanda così vasta.

M. Monina: Le difficoltà ci sono, ma sono meno di quanto si possa credere. Oggi è possibile anche per un piccolo editore (anzi, è fondamentale) avere una buona distribuzione (che implica, poi, una buona visibilità). La vendita può esserci in proporzione. Una medio/piccola casa editrice comunque si avvale di tirature medio/piccole., è tutto conseguente. Per gli uffici stampa è un discorso a se stante. Ci sono case editrici che, nonostante le dimensioni, godono di una stampa che neanche i colossi editoriali (vedi per tutti Minimum Fax). Credo, quindi, che alla fine paghi la qualità.

M. Cassini: Immense. Ma è lo stesso per l’industria cinematografica, discografica, per l’arte, e anche per il mercato, che so, dei costumi da bagno o degli stuzzicadenti. Industria culturale: non fate quella faccia, ipocriti. Il libro, dentro, è pieno di cose belle romantiche meravigliose eteree impalpabili virginee e immacolate. Ma fuori ha un prezzo di copertina, un codice a barre e, ancora più fuori, una libreria che lo contiene. Per arrivare in quella libreria c’è un percorso difficile (pensate alle esercitazioni dei film americani sul Vietnam, con tanto di sergente stronzo che si diverte a umiliarti pubblicamente). Per un editore indipendente ogni centimetro di scaffale occupato è una conquista. Come ogni recensione, ogni contratto con un autore, ogni stipendio pagato a un dipendente, ogni nuovo giorno che vedi il sole e sei ancora lì.

G. Mozzi: Si tratta di lavorare sodo. Non potendo contare sulla capacità di fuoco, bisogna prendere la mira con la massima cura. E bisogna curare attentamente la gestione economica: le risorse non sono infinite, vanno impiegate puntando al massimo rendimento.
Al momento, ai margini dell’oligopolio ci sono discrete possibilità di sopravvivenza. I problemi cominciano, semmai, nel momento in cui si esce dal margine e si comincia a entrare negli stessi territori – negli stessi pezzi di mercato – battuti dall’oligopolista.
Ma non bisogna farsi ossessionare dall’oligopolista. Chi si lascia ossessionare, ha già perso.

M. Zapparoli: Sapete qual è la vera difficoltà? Far sì che i libri vengano letti! Un conto è venderli, un conto è leggerli, farli conoscere “dentro”.Né i giornalisti né i librai sono “cattivi”, anzi… ma difficilmente hanno tempo per conoscere davvero i libri. Il pubblico si rende conto quando una recensione è vera, e ci sarebbe bisogno di un po’ più recensioni vere, sentite, scritte con calma.

3. “Il libro è interessante, si può pubblicare se l’autore partecipa alle spese di pubblicazione?”. Cosa pensa di una casa editrice che scrive queste parole ad un autore?

S. Caltabellota: È una truffa. È la cosa che divide un editore serio da uno che fa semplicemente il tipografo. Se un editore crede in un libro, si accolla il rischio di pubblicarlo, distribuirlo ecc.

M. Vicentini: Che non è una casa editrice. L’editore è un imprenditore che valuta costi e possibili vantaggi e che rischia in proprio. L’attività di stampare per altri o curare le pubblicazioni di altri la fanno oneste aziende quali le tipografie o I service editoriali. L’attività di stampare inclusa a promesse di distribuzione e commercializzazione, con partecipazione dell’autore alle spese, è una truffa nel 99% dei casi.

M. Monina: Non penso niente, quindi non penso neanche male. Alcuni, come Moby Dick per non far nomi, lo fanno dichiaratamente.

M. Cassini: Semplicemente che è sbagliato il campo semantico: chi chiede soldi a un autore non è un editore. L’editore, è sì un operatore culturale ma è innanzi tutto un imprenditore, deve assumersi il rischio di impresa: se crede nel libro, rischierà; se non vuole rischiare (chiedendo appunto i soldi all’autore e trasferendo quindi su di lui il rischio d’impresa) vuol dire che non crede nelle potenzialità del libro. E quindi non farà nulla per far “funzionare” commercialmente il libro.

G. Mozzi: Le case editrici devono vivere vendendo i libri, non spillando soldi agli autori. Si possono fare poche eccezioni. Alcuni editori di poesia, ad esempio, non sono materialmente in grado di sopravvivere con i soli proventi delle vendite.

M. Zapparoli: Anche qui, non che è “cattivo”, ma che ha deciso di non scommettere, e di fare piuttosto il tipografo. Quindi, appunto, NON di fare l’editore.

4. Al di là della vostra linea editoriale, quali sono le caratteristiche che fanno sì che un autore vi convinca?

S. Caltabellota: Quando leggo un manoscritto, devo sentire la voce dell’autore, una personalità forte che sappia raccontare sulla pagina come vede il mondo. Mi deve toccare. Se un libro non piace a me, perché dovrebbe piacere ad altri?

M. Vicentini: L’intensità, spontaneità e originalità, nell’ordine.

M. Monina: Di un autore mi deve convincere l’autore stesso. In una dimensione artigianale come la nostra le persone contano, eccome. Chiaro che questo non può essere sempre vero. Ma quando è possibile…

M. Cassini: Difficile dirlo. Sono anni che cerco di trovare una definizione giusta. Per il momento quella che mi sembra più calzante è: gusto. Le scelte le facciamo in base al nostro gusto, che è un criterio quanto mai irrazionale, indefinibile, sfuggente, personale. Ma il gusto è la risultante di tutto ciò che dopo anni di letture (per passione o “professionali”) mi fa capire cosa mi piace e cosa no, e quello che può essere adatto a uscire con il marchio minimum fax sopra.

G. Mozzi: Al di là della nostra linea editoriale, ci convince la qualità. Naturalmente ci si può sbagliare: si può vedere qualità dove non ce n’è, si può non vederla dove c’è. Non esistono regole precise. Si prova, si tenta. Si scommette. Si mette in gioco la passione.

M. Zapparoli: Un vero autore deve riuscire a scrivere qualcosa di inconfondibile. Per la storia, o per il tono, o per il contesto, o per il personaggio.

5. Festival di letteratura, festival di filosofia, fiere del libro, un calendario fittissimo di incontri, conferenze, presentazioni, dibattiti, reading. La spettacolarizzazione della cultura, la creazione dell’evento: quanto avvicinano il pubblico alla lettura?

S. Caltabellota: Per me sono una cosa buona. Tutto ciò che può creare un’occasione per far avvicinare nuove persone ai libri è positivo. Però è anche vero che non si risolve in queste occasioni il problema della fruizione della cultura.

M. Vicentini: Niente.

M. Monina: C’è un proliferare imbarazzante di festival, fiere, conferenze, reading e quant’altro. In alcuni casi, pochi, servono ad avvicinare il pubblico alla lettura. Servono quasi sempre, invece, all’editore per far conoscere il suo marchio. Questo è importante. Quando non si ha liquidità per poter investire in pubblicità, l’unico modo è veicolare il nome della casa editrice sfruttando questo tipo di eventi. La cosa che lascia perplessi è che poi gli unici che funzionano veramente sono sempre gli stessi: Torino, Mantova. Gli altri sono comunque poca cosa.

M. Cassini: Parecchio. Sta poi al pubblico, al singolo lettore – come sempre – cercare il proprio libro preferito. E viceversa. L’importante è non cascare nel tranello che solo perché si parla di cultura, tutto va bene, tutto è buono, tutto vale. I festival fanno bene perché portano il libro fra la gente e la gente fra i libri. Ma poi bisogna vedere se sono i libri giusti, se è la gente giusta.

G. Mozzi: Secondo me, nemmeno un po’. Avvicinano il pubblico alla cultura spettacolarizzata, ossia allo spettacolo. Le fiere del libro fanno, almeno in parte, eccezione: perché sono comunque appuntamenti più professionali, in cui i libri sono più al centro dell’attenzione.

M. Zapparoli: Spettacolo sì. Super-spettacolarizzazione-pre-pianificata no. Le cose giuste al momento giusto. Non strafare. Non esagerare. Non saturare.

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