Conversazioni

UN PASSO DOPO LA CATASTROFE: A PROPOSITO DEL LIBRO “DI QUESTA VITA MENZOGNERA” – Intervista a Giuseppe Montesano di Roberto Balzano

Di questa vita menzognera è il terzo romanzo di Giuseppe Montesano, uscito nel mese di aprile da Feltrinelli. Segue A capofitto (Oscar Mondadori, 1996) e Nel corpo di Napoli (Oscar Mondadori, 1999).
Il libro è la storia di Roberto, giovane alter ego dello scrittore, alle prese con il suo maestro intellettuale Cardano, e la di lui famiglia di arricchiti in odore di camorra, i Negromonte, e con una Napoli pronta a raccogliere a suo modo la sfida del futuro e di “un nuovo miracolo italiano”, metafora comica e agghiacciante dei pericoli verso cui corre la nostra epoca.
Abbiamo scelto di parlare di questo libro, con il suo autore, semplicemente perché ci sembra che esso indichi una strada di impegno, di coerenza, di carattere, che la letteratura italiana contemporanea sembra aver con indifferenza, e senza rammarico, abbandonato.

Partiamo dal titolo. I versi di Blok in epigrafe. Perché questa drammatica necessità di uno scarto dal presente?
Quei versi, più che una semplice epigrafe, sono la sensazione principale da cui è nato il libro, tanto da suggerirmene anche il titolo. Per spiegare il loro valore dovrei chiarire la genesi stessa del romanzo, che nasce da una incubazione lenta e faticosa dovuta ad una sorta di resistenza a mettermi a scrivere, dal momento che non mi sembra mai di essere pronto. Sono convinto che sia inutile scrivere troppo, e che quando si inizia un romanzo, o si va dove non si è mai stati, oppure è meglio non partire proprio. Non scrivo per registrare quello che c’è, ma per andare oltre l’orizzonte puramente letterario, cercando di avvicinarmi a qualcosa di più radicale, di più vero. “Spremere il midollo, …arrivare all’essenziale”, per dirla con Pasternak. All’essenziale di che? Sempre e solo della realtà, bella e terribile.

È un’idea chiara della funzione dello scrivere. Potresti approfondirla?
Io credo che alla base della letteratura debba esserci un amore per l’infinita stratificazione dell’animo umano, e che, per citare un maestro, uno come Dostoevskij rappresenti al massimo l’idea di quello che la letteratura dovrebbe fare: uscire e avventurarsi dove c’è la sorpresa della realtà. Da qui nasce l’esigenza di un “romanzo polifonico”, che abbandoni l’illusione del dominio assoluto dell’autore sulla materia, e si abbandoni a quello che incontra per strada. Un romanzo nel quale si dà voce a personaggi il più possibile opposti tra loro, in una continua interazione che è anche uno scontro.

Il tuo romanzo gira attorno alla costruzione di “Eternapoli”. Come ti è venuta in mente l’idea di questo enorme parco tematico? Prendendo anche spunto dalla situazione di un’Italia museo all’aperto per turisti sempre in cerca di nuove emozioni?
L’idea mi è venuta dalla lettura della realtà, e soprattutto di un po’ di cose che accadano negli Usa. Lì si sta facendo strada l’idea che tenendo artificialmente in vita una cultura, si possa poi metterla in vendita come forma dell’esperienza (i safari nella giungla, le vacanze nel campo dell’ultima tribù di selvaggi), proprio come accade negli zoo. Ma mettere in vendita l’esperienza vorrebbe dire vendere l’interiorità stessa dell’uomo, il suo sé più profondo, l’energia che lo alimenta.

È una critica anche al modello economico occidentale?
Certo. Il capitalismo è uscito fuori dai limiti dell’economia, e sta entrando nella cultura per svuotarla dall’interno. Il palazzo della cultura è come una costruzione dall’apparenza solida e inscalfibile, ma dentro la quale stanno arrivando le termiti a minarne la stabilità e la stessa sopravvivenza, almeno nelle forme che abbiamo conosciuto fino a adesso. Pensa che anche i Negromonte, che non sono altro che degli arricchiti, dei parvenu, decidono di farsi la “casa artistica”: Ma quale è l’idea di arte dei Negromante? Esibizionismo sociale, e basta. Ma l’arte non dovrebbe essere invece la voce della diversità nel finto “tutti uguali” e tutti con gli stessi desideri della società? L’arte in realtà è asociale.

Il libro racconta la storia di un genocidio storico e culturale vissuto dalla gente con indifferenza e quasi con compiacimento. La convinzione dei Negromonte è che il popolo voglia solo “fottere e mangiare”. Anche i ribelli del libro non sembrano essere convinti del contrario. È veramente così?
È difficile rispondere. I ribelli pensano che il contrario sia possibile, ma gli manca la fiducia, la fede, per cercare l’alternativa. Io non penso che tutto sia in questi termini, e soprattutto non credo che sia il popolo, ma la piccola borghesia italiana ad essere cinicamente indifferente verso il valore del bello e del bene. In ogni caso io invento i modi con cui racconto, ma non certo una realtà che è abbastanza evidente, riconoscibile da chiunque non ami ingannarsi raccontandosi frottole.

Quindi la società descritta nel tuo libro, ormai prossima all’implosione, non è frutto di fantasia ma di una tua personale previsione, della spaventosa proiezione di una serie concreta di timori?
Te lo ripeto: chi scrive prende tutto dalla realtà, ma non grezzamente. Si cerca di lavorare con la coscienza del grado di deformazione a cui si sottopone per mettere in evidenza il dislivello che c’è sempre tra immaginario e reale: proprio quel dislivello dovrebbe provocare lo choc della conoscenza emotiva.

La triade Sciacallo-Calebbano-Ferdinando (i tre fratelli Negromonte) si appropria di un lessico forcaiolo e ultrareazionario per giungere al potere assoluto. Corriamo davvero il rischio o forse siamo già in piena restaurazione?
Siamo in corsa verso una piena restaurazione da Santa Alleanza, ma di proporzioni tali che, una volta ultimata, non darà spazio ad una rivolta, né ad un ’20-’21, né tantomeno a un ’48. È una restaurazione basata sulla trasformazione interiore dell’uomo, non sulla sua oppressione esterna. Punta a creare, per dirla brutalmente, una massa amorfa di schiavi contenti. La nuova guerra perpetua si basa su un criterio semplice e agghiacciante: tutti devono sentirsi insicuri se non fanno parte dell’omologazione.

Ferroni parla del tuo come di un esempio di “romanzo antropologico”. Anche per la serie di riferimenti inseriti nel racconto, si può dire che Di questa vita menzognera ha pure una valenza politica?
La definizione di “romanzo antropologico” è giusta. La politica, in senso stretto, non ha una importanza grande. Diciamo che è un punto di partenza, e che in ogni caso, secondo me, ogni momento storico esprime un costume politico conveniente alla gran parte della società.

Al centro Di questa vita menzognera c’è Napoli, la città del disordine, dell’indolenza e dell’affarismo, che tanta parte ha avuto nella storia letteraria italiana. In che rapporto pensi di essere con la tradizione del romanzo napoletano di Bernari, di La Capria, della Ortese? Li rileggi con piacere? Quale di loro ha influenzato di più il tuo lavoro?
Credo di avere poco collegamento con questa tradizione. Mi sento più vicino a quella del teatro e del cinema (Eduardo, Totò, Ruccello), proprio per la loro capacità di raccontare una realtà complessa, stratificata, e di raccontarla ad un pubblico non di nicchia, con modi accessibili a tutti. Gli scrittori napoletani naturalmente li ho letti, ma le letture formative sono state Dostoevskij, Flaubert, Kafka, Musil, e per gli italiani Flaiano, Gadda e Brancati. Per la loro capacità di narrare utilizzando sempre un registro comico e allo stesso tempo tragico, per la loro passione inesausta non solo per la letteratura ma anche per la vita civile, per la loro rabbia di fronte alla menzogna scatenata.

Tu hai fatto dell’uso del napoletano una tua cifra stilistica. È un napoletano moderno, vivo, e a tratti esilarante. Come lavori questa lingua? Ti ispiri al parlato della gente? Da dove moduli espressioni, sintassi, ritmo?
Il parlato della gente è la fonte, ma mi ci ispiro solo in parte. Diciamo che il mio obiettivo era di rendere quella lingua mista di italiano e napoletano che realmente si parla. Il ritmo del racconto, invece, quello è fondamentale, ma lo devo sentire io. Io penso che al ritmo narrato si debbano sacrificare molte cose. Il ritmo di una storia è la sua anima e il suo corpo. Prendi lo scorrere del sangue, è un ritmo fisico, ma che si trasmette anche ai pensieri: è corporeo, e contemporaneamente mentale. Il ritmo è fatto di fratture, tagli, salti. Per questo il montaggio è così importante, perché quello che nel racconto non si legge, è altrettanto importante di quello che si legge, si vede e si sente. In uno scrittore consapevole non ci sono mancanze, ma soltanto spaziature di montaggio o, musicalmente, pause. In questo senso, posso dire che la trama come si intende oggi non mi interessa granché, perché la trovo un residuo di un modo di raccontare molto vecchio, naturalistico e rassicurante: ma né Kubrick né Poe sono rassicuranti, eppure raccontano meravigliosamente.

Di questa vita menzognera, come già il tuo libro precedente, sono raccontati in prima persona. Sia Roberto che Tommaso (i due protagonisti) sono intellettuali trentenni in crisi d’identità. Quanto di te, della tua storia personale, c’è in entrambi?
In realtà c’è la storia di tutti quelli che passano i loro vent’anni leggendo libri, adorando la cultura e andando in crisi per essa. Ci sono io, ma come se fossi tutti gli altri che mi sono somigliati. La mia vita e altre cento oltre la mia. Raccontando gli altri, racconto inevitabilmente anche di me, di tutti quelli che a sedici anni sognano sul mito di Rimbaud e di Una stagione all’inferno. Un romanzo è sempre in qualche modo un’opera collettiva, un mondo che non appartiene solo a chi lo ha scritto.

Cardano, Roberto, Nadja, lo stesso Scardanelli, tutti gli intellettuali sono ben lontani dall’avere un‘influenza reale sul corso delle cose. Addirittura Andrea Negromonte (il ribelle della famiglia) si suicida. Credi che ci sia ormai una impossibilità alla reazione, una frattura sociologica tra storia e cultura?
Credo che reagire sia sempre possibile, e auspicabile, necessario. Ma il problema è capire come. Anche per sognare un mondo diverso devi essere capace di sognare. La pura ribellione viene sempre riassorbita. Cardano, in fondo, è l’unico lucido quando li esorta ad andare via: via dalle loro stesse limitazioni e trappole, vie geograficamente ma anche interiormente.

Concludiamo con il finale del libro. Una via di scampo dal Carnevale esiste, e i protagonisti, in un modo velleitario e ancora acerbo, alla fine prendono una direzione destinata in qualche modo verso un altrove. Cosa dobbiamo aspettarci, allora, dal tuo prossimo romanzo?
Davvero non lo so. Scrivere un romanzo è vivere e viaggiare insieme ai personaggi. Non posso sapere dove i miei mi porteranno. In qualche modo il finale del libro chiude una specie di trilogia, ma non è detto che non apra lo spazio, che so, per un ritorno di Napoli, e dei protagonisti del libro, su un registro diverso. Ma queste sono frasi, e con le frasi non si fanno romanzi. No, la verità è che lo ignoro, e questa è una sensazione (in un certo senso) esaltante. Diciamo che andrò dove loro, i personaggi che ancora non vedo e sento, vorranno. Spero solo che sia, come diceva Kafka, via da qui.

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