PoesiaRacconti

KETCHUP (Il condottiero)

Frank alzò gli occhi e guardò la faccia davanti a sé. Era una faccia gioviale, di un uomo ancora giovane, grassoccia, la pelle liscia e bianca, i lineamenti piccoli e concentrati sul davanti; occhi azzurri e vicini, naso piccolo all’insù, capelli neri con la sfumatura alta, pettinati e impomatati in ordinate onde all’indietro. Una goccia rossa tremava sul labbro inferiore; fra un attimo sarebbe caduta.
Jerry si buttò di scatto contro il ripiano spingendo la faccia in avanti: la goccia cadde sul bordo. La asciugò preoccupato con un tovagliolino di carta.
“Pfiuh! Be’, è andata bene, una camicia sporca è l’ultima cosa al mondo di cui ho bisogno” disse leccandosi le labbra con la piccola lingua rosa.
Passò poi ad ispezionarsi preoccupato la camicia a maniche corte, inamidata di lavanderia, con il taschino pieno di penne protetto da un risvolto di plastica. Tenne il capo chino per qualche istante srotolando ad uno ad uno i rotoli della pancia ed esaminandoli con cura.
“Noi dobbiamo sempre essere puliti e in ordine, ricordatelo Frank, se dai l’impressione di essere un vagabondo sei finito. E’ l’uomo di successo che ha successo. Remember that” aggiunse con un sorriso finale mostrando i denti radi sul davanti.
“D’accordo” borbottò Frank senza levargli gli occhi di dosso. Non si era tolto la giacca come tutti gli altri e si sentiva a disagio stretto tra il tavolino del diner e il sedile di plastica finto-pelle. Aveva paura di sporcarsi le maniche sul ripiano ingombro di tutta quella roba da mangiare: uova strapazzate, bacon, pancakes, sciroppo, ketchup, patate fritte, cole slaw, tazze di caffè, fette di pane tostato, marmellata, il bicchierone di coca-cola con il ghiaccio che tintinnava a ogni movimento che Jerry faceva quando agguantava qualcosa e se la infilava in bocca.
Terminata l’ispezione, Jerry immerse un’altra patatina fritta nella chiazza rossa di ketchup sul lato del piatto, tolse una goccia con il lato della forchetta e se la portò alla bocca. Questa volta la lingua fece sparire ogni residuo dalle labbra.
“Vedrai che tutto andrà bene” disse masticando a bocca aperta e ingurgitando, nell’ordine, un sorso di caffè e mezzo bicchiere di coca-cola. “Soprattutto non ti devi scoraggiare. E’ difficile per tutti la prima volta, ma dopo che hai preso la mano, te la caverai così!” e schioccò le dita della sinistra strizzando contemporaneamente l’occhio destro e facendo una smorfia che trascinò tutto quel lato della faccia verso l’orecchio. “Verrai un po’ con me e ti farò vedere io. Una volta che hai fatto una buona apertura hai già il piede nella porta e si tratta soltanto di spingere.” Si infilò una mezza pancake in bocca leccandosi lo sciroppo dalle dita. “Ricordati la regola del vecchio Jerry: infilarlo con dolcezza e spingere con decisione. A loro piace da morire” concluse ridendo e facendo traballare il tavolino; poi, temendo di non essere stato capito perché Frank era rimasto a guardarlo senza reagire, gli chiese perplesso: “Ce l’hai la ragazza, no? Dovresti sapere come si fa.”
Frank assentì senza aprire bocca. Spinse accuratamente il piatto sporco con le posate verso il centro del tavolino. Si mise davanti il piattino dell’insalata di cavolo condita con il latte. Era fresca e puliva la bocca. Quando l’ebbe finita si mise a giocherellare con la rosa di plastica sul tavolo dentro il vasetto di metallo cromato, guardandosi intorno. Altri fiori di plastica polverosa erano sparsi lungo la parete di vetro del diner sopra gli areatori dell’impianto di riscaldamento che faceva vibrare i loro colori stinti come sotto una brezza marina. Ma all’interno di quel diner, all’estrema periferia di Jersey City, già di prima mattina l’aria sapeva di chiuso, di odore stantio di sigarette e del grasso bruciato del bacon.
A parte loro cinque c’era soltanto un uomo, un ragazzo piuttosto, che fumava appoggiato al bancone con una tazza di caffè davanti e si guardava continuamente intorno; aveva i vestiti spiegazzati, i capelli lunghi e la faccia sudata: sembrava un drogato che aveva passato la notte sveglio alla ricerca di una dose. Frank gli dette appena un’occhiata e notò che gli tremavano le mani mentre si portava la tazza alle labbra; poi guardò fuori, in basso, il vasto spiazzo del parcheggio quasi deserto con le pompe di benzina, le due macchine con cui erano arrivati (si vede che gli inservienti tenevano le loro sul retro), la cassetta metallica dei giornali vuota, qualche ciuffo di erba stenta che cresceva ai bordi dell’asfalto e il cartello pubblicitario che sbatteva al vento. Il cielo era grigio con stracci di nuvole che venivano dal mare. Un cane stava arrivando lungo la statale; si fermò e si mise ad annusare il palo della luce. Sul fondo, dall’altro lato della strada, si vedevano le prime case del quartiere operaio che sarebbe stato il loro campo di battaglia per qualche giorno: case di legno scrostato con giardinetti di terra battuta senza un filo d’erba, recinzioni di rete arrugginita, i bidoni della mondezza ammaccati e vecchie macchine sgangherate davanti alle porte. La disoccupazione sta avanzando anche su questo lato dell’Hudson — pensò. Intanto il cane dopo la sua ispezione olfattiva aveva alzato una gamba e si era messo a pisciare con precisione contro il palo. Frank osservava il vapore dell’urina che si spandeva per l’aria e pensò che faceva molto freddo anche se erano soltanto i primi di novembre.
“Vuoi del dolce?” gli chiese Jerry. Aveva mangiato tutta la roba che aveva davanti e adesso si guardava intorno incapace di accettare l’idea che fosse già tutto finito.
“No, grazie, prendo ancora un po’ di caffè.”
“D’accordo. Judy!” gridò alla cameriera agitando un braccio, “portaci altre due tazze di caffè e per me una torta al formaggio. E il conto!” aggiunse. Poi, voltandosi con il braccio appoggiato alla spalliera del sedile: “Ehi Jack, sbrigati con gli altri due, qui abbiamo quasi finito!” La voce risuonò squillante e autorevole.
Due tavoli più in là Jack non si voltò.
“Non ti scaldare troppo Jerry, se no quando lo infili dentro poi fai cilecca!” gli gridò di rimando. Gli altri risero, si scambiarono qualche battuta e risero di nuovo, poi Jack aggiunse: “all right, abbiamo quasi finito anche noi, due minuti e siamo pronti per stendere le massaie arrapate di questo fottutissimo posto dove ci hai portato, Bucodiculo o come diavolo si chiama.”
“Ehi, ehi, piano ragazzi, ricordatevi che noi siamo persone istruite, missionari della cultura, e che qui ci sono delle signore, Cristodidio!” disse Jerry con la bocca piena (aveva raccolto le ultime tracce di ketchup con un pezzo di pane) vedendo la cameriera che si avvicinava con l’ordinazione.
La ragazza, in minigonna con calze bianche, grembiulino di finto pizzo e cuffietta di plastica, i capelli giallo tinti e la faccia già stanca, arrivò con due tazze di caffè colme fumanti, i bricchetti del latte e una enorme porzione di torta al formaggio, bianca e soffice ricoperta di uno strato giallastro di ananas. Poggiò tutto sul piano del tavolo, tirò fuori dal taschino il suo blocchetto, scribacchiò qualche cosa senza alzare gli occhi, si rimise il blocchetto in tasca, la matita dietro l’orecchio e appoggiò i due foglietti sul piano a pancia sotto. “Thank You” dicevano stampato in corsivo sul dietro. Se ne andò senza pronunciare una parola.
“Questi li prendo io.” La mano di Jerry, grassoccia con le unghie mangiate, un grosso anello giallo e la sigla JK intrecciata ai due lati di una vistosa pietra blu, si stese a coprire i due pezzi di carta. “Ma non ti ci abituare” aggiunse portandosi alla bocca la forchetta con una piccola montagna traballante di cheese cake. “Solo oggi che è il tuo primo giorno.”
“D’accordo Jerry, per me va bene, se paga la ditta…”
Bruciava il caffè anche con la crema dentro, ma aveva un buon sapore soffice ed era fatto di fresco. Frank ne mandò giù due sorsate senza staccare la tazza dalla bocca. L’uomo al bancone adesso si era girato sullo sgabello e guardava nervoso verso la strada come se aspettasse qualcuno.
Dietro le lenti appannate dal vapore che saliva dalla tazza la faccia di Jerry tremava informe come un budino di gelatina rosa. Piggy face, faccia di maiale – pensò Frank. Ah, che ti frega. Non vedeva l’ora di cominciare. Aveva assolutamente bisogno di guadagnare qualcosa entro la fine del mese. Erano già due mesi che non pagava l’affitto e al massimo tra quindici giorni l’avrebbero buttato fuori. Con 75 dollari e 50 centesimi per ognuna, anche una sola al giorno faceva più di 400 dollari la settimana. Sì, era meglio così che con lo stipendio fisso, 135 dollari la settimana. Va bene, quelli erano sicuri, ma poi niente percentuale, tutto finiva lì. Mentre invece, anche se ne vendeva solo due la settimana, andava già in pari. E poi Jerry gliel’aveva detto quando l’aveva chiamato nel suo ufficio per comunicargli che aveva passato il corso di formazione (che razza di corso! due pomeriggi in quella stanzetta gelida a maneggiare copie campione tutte unte, moduli d’ordine, tabelline dei piani di rateizzazione e gadget regalo che non valevano nulla – mezz’ora sarebbe stata anche troppo) e gli aveva comunicato che lo assumevano. Gli aveva anche detto che era libero di scegliere tra stipendio fisso e percentuale, ma intanto se non vendeva lo avrebbe licenziato comunque dopo un paio di settimane, mentre se ci sapeva fare gli sarebbero bastati un paio di giorni di lavoro a percentuale per guadagnare quanto con lo stipendio. Fatti furbo, gli aveva detto, la percentuale è la cosa più intelligente da fare, ed è anche nello spirito americano; chissà, aggiunse, un giorno potresti diventare come me, capo settore, e essere anche invitato alle convention della casa madre – ma si vedeva che non ci credeva. Comunque, aveva accettato.
Adesso Jerry aveva finito la torta; tirò fuori un portafogli che sembrava più rigonfio di cartacce che di banconote e mise due dollari sui foglietti dei conti, poi li preso di nuovo in mano, fece un accurato calcolo della percentuale della mancia, si infilò le mani in tasca con difficoltà, rovistò per un po’ sbuffando e aggiunse ancora qualche spicciolo.
“Su ragazzi, in sella. Il mondo ci aspetta!”
Incominciò a tirarsi su appoggiandosi al piano del tavolo e portando le mani alla cintola per sistemarsi il ventre e la camicia dentro i pantaloni. Anche Frank si alzò e per un istante rimase lì fermo davanti a lui: la figura di Jerry gli copriva completamente la vista verso l’ingresso del diner. Sentì due colpi secchi ma non troppo forti che venivano da fuori e un rumore di vetri rotti dal fondo del bancone, vicino l’ingresso, dove si trovava l’uomo che sembrava un drogato e che in quello stesso momento si buttò, o cadde, dallo sgabello portandosi una mano alla coscia. Contemporaneamente (o subito dopo?) Jerry si piegò in avanti come se qualcuno gli avesse dato una robusta spinta alle spalle, rimanendo di nuovo incastrato tra il sedile e il tavolo, con le gambe diritte e il busto inchinato fino a toccare il piano di formica verde con la fronte. Frank chinò lo sguardo e per un attimo rimase a guardare quella testa grande adagiata sul tavolo che quasi gli sfiorava i pantaloni. Dapprima si ritirò un poco per paura di sporcarsi, poi osservò con curiosità e quasi con affetto la nuca unta di brillantina dove i capelli già incominciavano a diradarsi, notò una cisti arrossata dietro l’orecchio sinistro e le tre pieghe del collo sotto la sfumatura alta. Poi, sentendo un rumore di gomme e di motore imballato, si girò verso il parcheggio e vide una macchina azzurra uscire da dietro al diner e passargli davanti a forte velocità zigzagando tra le pompe di benzina, mentre il cane si metteva ad abbaiare e accennava a correrle dietro; dentro c’erano due uomini, aveva la targa bianco sporco del New Jersey, ma non fece a tempo a leggerla.
Dal fondo del locale l’uomo a terra incominciò a lamentarsi. Jerry invece non si mosse; continuava a rimanere piegato in due sul tavolo, come un bue abbattuto; sulla camicia bianca si vedeva un piccolo strappo, come un foro, sulla schiena. Dalle labbra schiacciate contro il piano di formica incominciò ad uscirgli un piccolo rivolo rosso.

(New York – Roma, ottobre 2003)

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