Conversazioni

Caos, sistema italia e cultura. Conversazione con Antonio Moresco di Massimo Pallottino

Antonio Moresco, Il vulcano: scritti critici e visionari, La cipolla, La santa, Clandestinità: racconti, Lettere a nessuno (Bollati Boringhieri) Gli esordi Canti del Caos (Feltrinelli) e l’Invasione (Rizzoli) dove sta per uscire anche la seconda parte dei Canti, è certamente tra gli scrittori più originali e interessanti dell’attuale scena letteraria, che divide la critica e fa’discutere. Origine l’ha incontrato per approfondire alcuni temi, e parlare del suo lavoro.

Partiamo dal titolo della sua opera più recente: “Canti del caos” seconda parte… V’è sottintesa un’allusione a qualche tipo o forma di caos?

Mi sembra qualcosa di più che un’allusione. E’ l’essenza stessa del libro. Non “Il caos”, come pensavo di intitolarlo all’inizio, ma “Canti del caos”. E “caos” non nel senso di confusione, disordine ecc, ma di qualcosa che viene prima della separazione artificiale tra ordine e disordine. Nella lettura della realtà che ci circonda e in cui siamo immersi, nella struttura del pensiero umano così come si è andato precisando nello spazio e nel tempo e anche nella stessa letteratura. E “canti” perché al suo interno si liberano continuamente delle lacerazioni dove le voci escono da se stesse, si sbarazzano del tessuto narrativo e lo radicalizzano e si rivolgono direttamente, visceralmente all’esterno, si configurano.

Il suo caso letterario è esploso in maniera clamorosa solo nel ’98, con l’uscita de “Gli esordi”. Ma lei, in effetti, ha dovuto faticare tantissimo per arrivare a pubblicare. Insomma, il sistema editoriale italiano è sempre più vicino agli autori affermati e sempre più distante dagli aspiranti esordienti?

Ho già raccontato tutto questo. Sì, in effetti c’è stata questa storia durissima, quasi una lotta per la vita e la morte. Di fronte a me tutto il sistema culturale ed editoriale si è mostrato come un muro, e questo non per qualche mese o per qualche anno, ma fino all’età di 45 anni quando, in seguito all’invio postale di un manoscritto, da sconosciuto, sono riuscito a pubblicare il mio primo libro, scritto quindici anni prima e rifiutato decine di volte dagli editori e dai loro consulenti. Ma il problema non è solo la pubblicazione. E’ anche che cosa si pubblica. Perché, per quanto mi riguarda, non è che in quegli anni gli editori non continuassero a pubblicare (e a pubblicare anche esordienti) e probabilmente sarebbe bastato che io accettassi di scrivere cose simili a quelle che vedevo accettate, di obbedire a certi parametri e probabilmente sarei riuscito a pubblicare anch’io molto prima. Ma a me -anche se non ero nessuno- non era possibile fare questo. E allora forse tutta questa lunga esclusione (che solo il caso ha impedito che diventasse definitiva) ha fatto sì che continuassi a crescere invisibile sotto terra, fuori da certe logiche che riducono la letteratura a puro esercizio autoreferenziale e intrattenimento svuotato.
Quanto agli autori affermati e agli esordienti, a me pare che non siano due categorie da prendere o rifiutare in blocco. Ci sono, sia tra gli scrittori affermati che tra gli esordienti, delle diversità. E vediamo anche che gli editori continuano pur sempre a pubblicare esordienti, ma spesso -non sempre- li scelgono tra quelli che sentono più allineati, che stanno dentro il target… Insomma, bisogna vedere caso per caso, senza generalizzare.

In un’epoca come la nostra in cui si consuma tutto molto in fretta, per cui anche i libri debbono essere d’agevole lettura e non troppo lunghi, lei ha operato la scelta opposta: la torrenzialità, “l’includere dentro tutto”, che contraddistingue “Gli esordi” e ancora “Canti del caos”.

Sì, è andata proprio così. E mi ricordo che alcuni letterati noti con cui ero venuto a contatto mi avevano fatto questa stessa osservazione e mi avevano consigliato: “Scriva libri piccoli, adesso non si può più, non c’è più il tempo, la gente ha il cinema, la televisione, il computer, non è mica come una volta. D’ora in poi…” Ma perché scrivere -mi domando- se non si può mettere in gioco uno spostamento più forte, se scrivere serve solo per far passare un po’ il tempo tra una fermata e l’altra della metropolitana?
Io continuavo a fare istintivamente tutto il contrario, anche se la cosa poteva sembrare senza senso e senza futuro, tanto più nello stato in cui mi trovavo. Ogni volta che mi rifiutavano un libro, la mia reazione era di alzare il tiro, di farne uno più grande, di non arrendermi, di contrattaccare. Tra l’altro, adesso vediamo che diversi scrittori stanno scrivendo opere impegnative anche dal punto di vista dell’ampiezza, negli Stati Uniti, per esempio, oppure in Giappone e in altre parti del mondo e anche in Europa, e sta anzi diventando addirittura una moda e a volte è solo per allungare un po’ il brodo… Per cui, anche se era il loro mestiere, sbagliavano anche in questo, persino in questo, non erano in grado di cogliere i movimenti interni, profondi, che erano in atto, quello che stava avvenendo proprio sotto il loro naso.

Il suo libro “Il vulcano – scritti critici e visionari”, si compone altresì di due pamphlet: uno su Italo Calvino, l’altro su Pier Paolo Pasolini. La letteratura contemporanea ha ancora bisogno di scrittori come Calvino e Pasolini?

In quegli scritti ho espresso la mia profonda insofferenza verso l’idea di letteratura che c’è in Calvino, verso le sue sistematizzazioni teoriche e idelogiche “deboli” e autodifensive, che sono poi diventate non a caso il galateo culturale di questi anni e che a me sembravano e sembrano una camicia di forza, un vicolo cieco, qualcosa che bisogna sfondare per poter fare un passo in avanti e riprendere il movimento. Quanto a Pasolini, è uno scrittore, un poeta, un drammaturgo, un regista, un critico, un saggista ecc… di cui alcune cose mi piacciono e mi emozionano e altre meno, ma che considero irrinunciabile e nevralgico. Però la situazione è profondamente cambiata da allora. Pasolini riusciva ancora a stare con un piede dentro e uno fuori, uno dentro la macchina di potere culturale, anche quella brutta, pesante, mafiosa, e un altro fuori a lanciare i suoi attacchi corsari e le sue incursioni, ed è forse proprio questo elemento di duplicità che affascina molti dei suoi più superficiali estimatori, il fatto che aveva ancora un ruolo importante e di potere come intellettuale, gli stessi che poi criticano certi scrittori di adesso perché non avrebbero quella rilevanza mediatica e di potere e quell’ascolto e non fanno che ripetere: “Ci vorrebbe Pasolini, adesso non ci sono più dei Pasolini ecc…”. Forse non si rendono conto che questi spazi non vengono più lasciati, non ci sono più, gli scrittori se li devono inventare di nuovo, completamente, dal basso, tutto il tessuto vivente che permette un’ interazione forte è da ricostruire in una situazione mutata, in cui tra l’altro il potere non opera più solo nella dimensione politico-sociale antropocentrica ma anche in quella biologica radicale, perché ha messo direttamente le mani sulla scatola nera della vita e sul condizionamento e allevamento della specie. Oggi gli scrittori che vogliono fare sul serio si trovano di fronte blocchi e chiusure di ogni tipo, dappertutto, senza quasi distinzioni politico-culturali. “Ci vorrebbe Pasolini. Lui sì… in prima pagina sul “Corriere della sera”, ecc…” Invece adesso sulla prima pagina del Corriere, da molti anni, ci fanno scrivere Alberoni, non so se ci hanno fatto caso. Io stesso, nel mio piccolo, ho cercato di far pubblicare scritti che entravano direttamente nel vivo di quanto sta succedendo in Italia e nel mondo, ma sono stati rifiutati da tutti i giornali cui li ho presentati, senza distinzioni politiche e culturali. E allora anche questa eterna lamentela diventa un modo per conservare l’esistente, per non vedere come stanno realmente le cose, per non valorizzare quello che anche adesso esiste ed è in movimento.

Crede nell’importanza dei corsi di scrittura creativa per un aspirante esordiente?

Il mio primo impulso sarebbe di rispondere di no, che non ci credo. Però mi è capitato di incontrare persone appassionate anche qui, persino qui. Nelle scuole di scrittura c’è dentro di tutto. Anche in questo caso non bisogna generalizzare. Le strade sono tante. La situazione è pesante, bloccata, in tutti i campi. Le persone, soprattutto quelle giovani, cercano sempre delle strade, e imboccano quelle che il presente offre loro. Poi le cose non stanno ferme. Chi lo sa, forse anche queste forme possono diventare l’embrione di qualcos’altro…

Nella società odierna, dove i messaggi massmediologici e quelli veicolati dalle immagini sembrano aver preso definitivamente il sopravvento, qual è la funzione che ancora può avere la letteratura?

Se intendiamo per “letteratura” quella cosa che si teorizza in questa epoca, non può che avere un posto gregario e terminale rispetto ad altre forme di “comunicazione”, alle quali anzi le si chiede continuamente di uniformarsi e di fare da supporto. In questa descrizione parcellizzata e autoreferenziale di ogni cosa non c’è posto per nulla, non solo per la letteratura, tutto è sotto scacco. A me riesce fastidiosa persino questa definizione insiemistica di “letteratura”, che dovrebbe indicare la totalità indifferenziata delle cose scritte, come se fossero tutte un’unica cosa indistinta, un contenitore a perdere. Ma se proviamo a uscire da questa logica e ce ne freghiamo dei nomi e delle definizioni e vediamo il movimento interno e pensante e anche delirante della vita e dei corpi all’interno dello spazio e del tempo e del nostro pianeta e dell’intero universo, allora questa cosa che è stata chiamata stupidamente “letteratura”, qualunque siano i modi e le forme, possiede, può possedere, come mille altre cose, una possibilità di movimento profondo, verticale. In un certo senso, come la vita, anche quella cosa che è stata chiamata letteratura è con le spalle al muro. Non ha più niente da perdere. Ma è questo il suo posto, se non cerca facili scorciatoie e gratificazioni. Ed è proprio da questo che può derivare la sua irriducibilità e la sua forza.

Il libro di Carla Benedetti “Il tradimento dei critici” ha ben evidenziato l’atteggiamento di chiusura della critica militante, la correlazione delle loro stantìe ideologie con le forme odierne del potere. Il caso letterario Moresco ha di colpo scardinato tutto ciò?

Carla Benedetti -tra mille incomprensioni, sarcasmi e intimidazioni- sta portando avanti una riflessione scomoda, intransigente e controcorrente. Non le vengono perdonate molte cose: il coraggio, lo spessore, la mancanza di diplomazia, il fatto di venire dall’ italianistica universitaria eppure di essersi sottratta ai suoi riti culturali in vario modo bloccati, persino di essere una donna. Riesce infatti difficile pensare che certi rilievi sarcastici e certe particolari forme di derisione sarebbero gli stessi se si trattasse invece di un uomo. Anche questo è segno dei tempi e della meschinità umana e culturale che li attraversa. Però, se succede questo, significa che nel suo lavoro è andata a toccare dei punti nevralgici,che ha messo il dito nella piaga. Significa che le lacerazioni ci sono, che non si può più tenere dentro e allineato tutto quanto, che tutta la massa ideologica intestinale di questi decenni sta uscendo dalla sua sede, è allo scoperto, si mostra per quello che è sotto gli occhi di tutti, in questo drammatico passaggio di epoca e insieme di specie.
Se il mio caso letterario ha scardinato tutto questo o almeno qualcosa non lo so. Non sta a me dirlo. La mia percezione (minima), quel po’ che riesco a cogliere, è di una spaccatura ristretta, poco visibile ma profonda. C’è in giro viltà, asservimento, si cerca di invisibilizzare tutto ciò che sta fuori dai piccoli gruppi di potere culturale e dal coro (un giornale come “La repubblica”, ad esempio, non ha mai recensito o anche solo segnalato un mio libro, nonostante ne abbia già pubblicati 11). Ci sono ostilità che arrivano fino all’ottusità, alla volgarità, al disonore e al linciaggio da una parte e dall’altra accoglienza e addirittura entusiasmo per quanto sto cercando di fare. Tutto ciò non era scontato nella situazione culturale terminale di questi anni. La cosa strana è che il secondo tipo di atteggiamento viene soprattutto da lettori giovani e giovanissimi, di una o addirittura due generazioni più giovani di me, ed è questa una sorpresa perché io non sono più giovane né ci sono nel mio lavoro ammiccamenti giovanilistici e ho passato gran parte della mia vita di scrittore sotto terra.

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Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE