Conversazioni

DIETRO LA SCRITTURA – CARTEGGIO in forma di intervista e conversazione di Goffredo Fofi ed Elena Ferrante

Elena Ferrante, è una scrittrice particolare, che ha scelto di rimanere defilata e tangente al carrozzone mediatico. Ma di questa scelta, di questo starsene fuori scena, ci piace riproporre, l’ha fatto anche la sua casa editrice E/o, nel recente Frantumaglia, la rigorosità di un’analisi su se stessa, una sorta di presa di coscienza di sé che la scrittrice ha nel momento stesso che si confronta con le domande che Le sono poste. Questa sorte di pudore misto di un’innocenza pensosa e riflessiva, questa coerenza, ed il non cercare quei facili colpi ad effetto o frasi ad impatto che spesso molti scrittori usano nel parlare del loro lavoro.L’intervistatore d’eccezione è Goffredo Fofi.

Ecco alcune domande che Goffredo Fofi, indirizza a Elena Ferrante, in una sua lettera.

1 Il film di Mario Martone è molto rispettoso nei confronti del suo romanzo, ma scegli di distinguere nettamente il presente dal passato (dai flashback) mentre nel romanzo tutto avviene al presente nella riflessione di Delia. L’altra differenza tra romanzo e film sta nel fatto che il film spiega molto, anche ciò che nel romanzo era un detto implicito. La terza, infine, è una specie di pudore maggiore (maschile?) da parte di Martone nell’accettare la sessualità di Delia nella parte del passato, in adesione, si direbbe, alla psicologia dei Delia bambina. In questa parte Amalia è solo vittima del film realizzato. Cosa pensa di questi interventi e queste diversità le attribuisce a una diversa sensibilità di Martone o piuttosto alla necessità del cinema di essere nell’obbligo di mostrare, più didascalico?
2 La Napoli che lei descrive con estrema puntualità e decisione di luoghi e zone, oltre che di ambienti umani, di comportamenti, non è stata molto decritta nel cinema. Come non è stato decritto in letteratura, il passaggio da una periferia ancora proletaria, contadina, alla città dell’infima piccola borghesia cui finisce per appartenere la famiglia di Delia. Che incidenza ha questa Napoli, e in che cosa la ritiene cambiata nel processo di rinnovamento attuale della città? Lei lo segue, questo processo? Si sente ancora coinvolta in Napoli e da Napoli? La sua distanza geografica dalla città è stata una scelta precisa (come quella di Delia?) o è dovuta ad altri fattori? Tornerebbe a vivere a Napoli oggi? E Delia tornerà a vivere a Napoli? In altre parole, si può considerare la riconciliazione di Delia con Amalia come una riconciliazione con un’identità napoletana, fastidiosa, morbosa, ma dalla quale tuttavia si deve ripartire? In altre parole ancora, Amalia è una madre-Napoli, può essere vista come un metafora di Napoli?
3 Lei ha vinto, quando il romanzo uscì, il Premio Procida-Elsa Morante, e la critica ha visto una sorta di filiazione tra il suo romanzo e certe opere della Morante (soprattutto Aracoeli). Accetta questa filiazione? E come se ne distacca? (come Delia da Amalia?) Hai mai conosciuta direttamente la Morante? E quali altri scritti, e in cosa hanno influito sulla sua formazione (la Ortese per esempio)?
4 Di che tratta il suo nuovo romanzo se è lecito chiederlo?
5 Immaginava simili ad Angela Luce e ad Anna Bonaiuto le protagoniste del suo romanzo? In cosa le sembra abbiano colto meglio il carattere della protagonista? In cosa se ne sono distaccate?
6 Qual è il motivo profondo del suo star lontana dai media? Una diffidenza nei loro confronti (nei confronti della società dello spettacolo)? Una forma di timidezza privata? Oggi che si tende a personalizzare all’estremo le opere come prodotti di autori riconoscibili, presenti sulle pagine dei giornali e sul piccolo schermo ,quasi che questo apparire fosse indispensabile, il suo è un caso davvero anomalo. Anche senza volerlo rendere troppo esemplare, c’è la tentazione di prenderlo come un modello. Che cosa pensa di questa eventualità?
7 Lei è stata mai in analisi? Ha una cultura di tipo psicanalitico? E di tipo femminista?

Grazie, e un caro saluto dal suo affezionato estimatore
Goffredo Fofi.

Risposta non spedita di Elena Ferrante a Goffredo Fofi

Scrivere nascostamente.

Caro Fofi,
mi dispiace doverle dire che non so rispondere sinteticamente alle domande che mi ha fatto avere. Evidentemente su molti quesiti che mi pone non ho riflettuto abbastanza e trovare formule esaurienti mi risulta difficile o addirittura impossibile. Cerco perciò di abbozzare risposte solo per dialogare con lei fuori dalle necessità giornalistiche. Le chiedo scusa in anticipo per i tratti confusi o contradditori in cui si imbatterà.

Comincio dalla fine, soprattutto perché le domande conclusive che mi hai inviato mi permettono di partire da dato di fatto. No, non sono mai stata in analisi, anche se in certe fasi mi sono sentita molto incuriosita dall’esperienza analitica. Non ho nemmeno quella che lei definisce una cultura di tipo psicanalitico, se con questa formula intende una sorta di impronta culturale, un punto di vista dominante, uno specialismo. Anche affermare che ho una cultura femminista mi sembra eccessivo. Per limiti soprattutto caratteriali, che ho fatto fatica ad accettare, ma dentro i quali oggi vivo senza troppe smanie e senza troppi rimpianti, non mi sono mai esposta pubblicamente, non ho preso partito, non ho il coraggio fisico, che in genere è richiesto per queste cose. Perciò oggi mi è difficile attribuirmi una storia personale che non sia tutta privata (un percorso mio di letture, simpatie libresche) e quindi in interessante. Sono cresciuta per addizione di cose viste o ascoltate o lette o scarabocchiate, niente altro. Dentro questo quadro timido, da ascoltatrice muta, posso dire che mi sono interessata un poco alla psicanalisi, abbastanza al femminismo e che mi sento vicina al pensiero della differenza. Ma mi sono lasciata prendere anche da molte altre cose che hanno poco a che fare sia con la psicoanalisi che col femminismo, che con la riflessione odierna delle donne. Sono contenta che nell’amore molesto non appaiano nella loro immediatezza.

Più complicato è il discorso su quello che li definisce “tenersi lontano dai mezzi di comunicazione di massa”. Credo che alla radice, oltre ai tratti caratteriali a cui ho fatto già cenno, ci sia un desiderio un po’ nevrotico di tangibilità. Nell’esperienza che ne ho, la fatica-piacere di scrivere tocca ogni punto del corpo. Quando il libro è finito, è come se si fosse stati frugati con eccessiva intimità e non si desidera altro che riguadagnare distanza, ritornare integri. Ho scoperto, pubblicando, che un certo sollievo viene dal fatto che il testo, nel momento in cui diventa libro stampato, se ne va altrove. Prima era lui a starmi addosso, ora toccherebbe a me corrergli dietro. Ho deciso di non farlo. Desidero poter pensare che, se il mio libro entra nel circuito delle merci, niente sia in grado di obbligarmi a fare il suo stesso percorso. Ma forse voglio anche poter creder, in certi momenti, se non sempre, che quel “mio” che gli riferisco sia nella sostanza una convenzione, tanti che chi si disgusterà della storia narrata o se ne entusiasmerà non potrà, con un passaggio logico errato, disgustarsi o entusiasmarsi anche di me. I vecchi miti sull’ispirazione forse dicevano almeno una verità: quando si fa un lavoro creativo si è abitati da latri, in qualche misura si diventa altro. Ma quando si smette di scrivere si ridiventa se stessi, la persona che comunemente si è, nelle occupazioni, nei pensieri, nel linguaggio. Perciò ora sono di nuovo io, me ne sto qui, faccio le mie cose di tutti i giorni, non c’entro col libro o, per dir meglio, ci sono entrata, ma adesso non posso poù entrarci. Né d’altra parte il libro può rientrar in me. Non mi resta quindi che proteggermi dai suoi effetti, ed è quello che cerco di fare. L’ho scritto per liberarmene, non per restarne prigioniera.

C’è ovviamente anche altro. Da ragazza, avevo un’idea totalizzante della letteratura. Scrivere era puntare al massimo, non accontentarsi di risultati intermedi, darsi alla pagina senza mezzi termini. Con gli anni ho combattuto questa sovrastima della scrittura letteraria con una sottostima puntigliosa (“ci sono molte altre cose che meritano una dedizione senza limito”) e, una volta raggiunto il mio equilibrio- ho una vita che giudico soddisfacente, sia sul piano privato che su quello pubblico- non desidero tornare indietro, voglio tener ferma quella che considero una piccola conquista. Mi fa piacer, naturalmente, che l’amore molesto abbia degli estimatori, mi fa piacere che abbia ispirato un film importante. Ma non voglio raccogliere un’idea della vita dove la buona riuscita di sé è misurata sulla buona riuscita della pagina scritta.
Poi c’è il problema delle mie scelte inventive che non sono in grado di spiegare con chiarezza, specialmente a chi può ritagliare dal testo frasi e situazioni e sentirsene ferito. Sono abituata a scrivere come se si trattasse di ripartire un bottino. A un personaggio attribuisco un tratto di Tizio, a un latro una frase di Caio; riproduco situazioni in cui si sono veramente trovate persone che conosco e ho conosciuto; mi rifaccio a esperienze “vere”, ma non per come si sono realmente compiute, piuttosto assumendo come “veramente accadute” soltanto le impressioni o le fantasticherie nati negli anni in cui quell’esperienza fu vissuta. Così ciò che scrivo è pieno di riferimenti a situazioni ed eventi realmente verificatisi, ma riorganizzati e reinventati come non sono mai accaduti. Più resto lontana, quindi, dalla mia scrittura, più essa diventa quello che vuole essere: un’invenzione romanzesca. Più mi avvicino ci sono dentro, più il romanzesco è sopraffatto dai dettagli reali, e il libro smette di essere romanzo, rischia di ferire innanzitutto me come il resoconto malvagio di un’ingrata senza rispetto. Voglio, perciò, che il mio romanzo se ne vada il più lontano possibile proprio possa dare la sua verità romanzesca e non gli scampoli accidentali, che pure contiene, di autobiografia.
Ma i media, specialmente quando connettono foto dell’autore al libro, performance mediatica dello scrittore a copertina dell’opera, vanno proprio in direzione opposta, aboliscono la distanza tra autore e libro, fanno in modo che l’uno si spenda a favore dell’altro, impastano il primo con i materiali del secondo e viceversa. Provo, di fronte a queste forme di intervento, esattamente quella che lei ben definisce “timidezza privata”. Ho lavorato a lungo, precipitando a capofitto dentro la materia che intendevo narrare, per distillare dall’esperienze mie e di altri quanto di “pubblico” era distillabile, quanto mi pareva estraibile da voci, fatti, persone vicine e lontane, per costruire parvenze e un organismo narrativo di qualche pubblica coerenza. Ora che quell’organismo ha, nel bene e nel male, un suo equilibrio autosufficiente, perché dovrei affidarmi ai media? Per continuare a mescolare il suo respiro col mio? Ho il timore fondato che i media, privi per la loro attuale natura di un reale “pubblico interesse”, tenderebbero a ridare sciattamente privatezza a un oggetto che è nato proprio per dare un significato meno circoscritto all’esperienza individuale.
Forse soprattutto quest’ultimo ordine del discorso merita di essere discusso. C’è modo di tutelare il diritto di un autore alla scelta di fissare una volta per sempre, soltanto attraverso la propria scrittura, quanto di sé merita di diventare pubblico? Il mercato editoriale si preoccupa innanzitutto di sapere se l’autore è spendibile in modo da diventare personaggio accattivante e aiutare così il viaggio mercantile della sua opera. Se si cede, almeno in teoria si accetta che l’intera persona, con tutte le sue esperienze e i suoi affetti, sia posto in vendita insieme al libro. Ma le nervature del privato sono troppo reattive. Se vanno allo scoperto, possono dare soltanto spettacolo di dolore o di allegria o di malevolenza o di astio (qualche volta anche di generosità, ma volenti o nolenti esibita); sicuramente non posso aggiungere altro all’opera.
Chiudo con questo tema dicendole per ultimo che scrivere sapendo di non dover apparire genera uno spazio di libertà creativa assoluta. E’ un angolo mio che intendo difendere, ora che l’ho sperimentato. Se ne fossi privata, mi sentirei bruscamente impoverita.

Veniamo adesso ad Elsa Morante. Non l’ho conosciuta, non sono mai stata capace di conoscere le persone che mi causavano intensissime emozioni. Se mi fosse capitato, mi sarei paralizzata, sarei diventata così stupida da non essere in grado di stabilire un contatto di qualche spessore. Lei mi chiedi di filiazioni, domanda che mi lusinga così tanto, che francamente rischio di dirle bugie pur di consolidare la sua ipotesi. Il problema mi si pose per la prima volta quando l’amore molesto vinse il Premio Procida. Possibile che il mio libro avesse un qualche pur esile legame con quell’autrice? Mi misi a frugare nelle pagine della Morante per trovare anche soltanto un rigo in grado di giustificare soprattutto a me stessa, in una lettera di ringraziamento, la legittimità di quel riconoscimento, Cercai soprattutto in Aracoeli, ma cercai male, non trovai niente che mi permettesse di stabilire un contatto non immodesto. D’altra parte non sono una lettrice coscienziosa, di buona memoria. Leggo moltissimo ma disordinatamente, e dimentico quello che leggo. Per meglio dire ne conservo una memoria distorta. In quell’occasione, per fretta e un po’ forse per opportunismo, mi aggrappai a una frase sola che compare nello Scialle Andaluso: “nessuno, a cominciare dalle sarte delle madri, va a pensare che una madre abbia un corpo di donna”. Era una citazione facile che avevo in testa da anni, variamente annotata. Avevo frugato spesso nel senso d’ansia che mi dava l’idea custodita in quel passaggio. Vi si diceva che donne esperte nel vestire corpi di donne non riuscivano tuttavia fare il loro mestiere quando si trattava di cucire stoffe sul corpo della madre. Mi ero immaginata forbici che si rifiutavano di tagliare metri che mentivano sulle misure, imbastiture che non tenevano, gesso che non lasciava segno. Il corpo della madre generava una rivolta negli strumenti da sarta, un annichilimento delle competenze. Vestirsi e vestire altre donne, era facile; ma vestire la madre era perdere la guerra con l’uniforme, era “infagottare”, altro vocabolo morantiano.
Questo fallimento nelle sarte di fronte al problema di vestire il corpo materno mi ha accompagnato a lungo insieme a una ben più vecchia suggestione di lettrice senza rigore, incline a fantasticare su poche righe e scarsamente attenta ai veri significati. E’ una suggestione legata alla lettura dell’Isola di Arturo, che ho fatto per la prima volta una ventina di anni fa. Ne fui travolta ma per ragioni di cui allora mi vergognai. Mentre leggevo, lungo tutto l’arco del racconto, pensai che il vero sesso di Arturo fosse quello femminile. Arturo era una ragazzina, non poteva essere che così. E per quanto la Morante scrivesse di un io maschile, non potevo far a meno di immaginarmi lei, un mascheramento di sé, dei suoi sentimenti, delle sue emozioni. Non si trattava di un comune “trasporto” letterario. Percepivo – e mi è capitato in seguito con tutti i personaggi maschili della Morante che vanno a fondo impudicamente nel loro rapporto con la madre- un travestimento finalizzato a fare, letterariamente, quello che appunto le sarte delle madri non riescono a fare: sottrarre la figura materna (madre morta- Nunziatina- padre omosessuale) all’infagottatura; approfittare del limbo di un’adolescenza al maschile_ più libera, come in tante altre cose- per non infagottarla più, per raccontare quello che altrimenti, nell’esperienza femminile, non ha forma.
Anche nell’epigrafe presa da Saba, del resto, ho pensato a lungo solo per avvalorare questa suggestione. Saba scrive: “Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare…”. In qualsiasi direzione porti Il fanciullo appassionato nella sua interezza, da qualche parte di me, per quel che riguarda l’Isola di Arturo, continua a contare soltanto quel verso e quell’in lui messo lì, sotto il titolo per dire: “Mi sembra una buona cosa che io possa ricordarmi di me scrivendo dall’interno di lui, di Arturo”.
Da’altronde- credo- deve pur venire il momento in cui riusciremo a scrivere davvero fuori di lui, non per pretesa ideologica, ma perché davvero, come le anime platoniche, ci ricorderemo di noi senza doverci, per comodità, per consuetudine, per prendere le distanze da noi stessi, rappresentare in lui. Le sarte delle madri mi immagino che stiano studiando da tempo. Presto o tardi impareremo tutte a non infagottare, a non infagottarci. Che dirle insomma, per concludere su questo punto! Mi piacerebbe che tra L’amore molesto e i libri della Morante ci fosse un nesso anche flebile. Devo però confessarle che molti tratti stilistici di questa autrice mi risultano estranei; che mi sento incapace di concepire storie di ampio respiro; che non apprezzo più da tempo una vita in cui la Letteratura conta più di ogni altra cosa. Ci sono, invece, certi fondali bassi del raccontare che mi attraggono. Con gli anni, per esempio, mi vergogno sempre meno di come mi appassionavo alle storie dio giornaletti femminili che circolavano per casa; robaccia di amori e tradimenti, che però mi ha causato emozioni indelebili, un desiderio di trame non necessariamente sensate, il godimento di passioni forti e un po’ volgari. Anche questo scantinato dello scrivere, fondo pieno di piacere che per anni ho represso in nome della Letteratura mi pare che vada messo al lavoro, perché non solo suo classici, ma anche lì è cresciuta la smania di racconto, e allora ha senso gettare via la chiave?

Quanto a Napoli, oggi mi sento attratta soprattutto dalla Ortese di ‘La città involontaria”. Se riuscissi a scrivere ancora di quella città, proverei a fabbricare un testo capace di esplorare la direzione indicata in quelle pagine, una storia di piccole violenze miserabili, un precipizio di voci e di vicende, gesti minimi e terribili. Ma, per farlo, sarebbe necessario tornare a vivere lì, cosa che per motivi familiari e di lavoro mi è impossibile.
Con Napoli, comunque, i conti non sono mai chiusi, anche a distanza. Sono vissuta non per breve tempo in altri luoghi, ma questa città non è un luogo qualsiasi, è un prolungamento del corpo, è una matrice della percezione, è il termine di paragone di ogni esperienza. Tutto ciò che per me è stato durevolmente significativo ha Napoli per scenario e suona nel suo dialetto.
Questa enfasi però è recente ed è il frutto di rivisitazioni da lontano. La città in cui sono cresciuta l’ho vista a lungo come un posto in cui mi sentivo continuamente a rischio. Era una città di litigi improvvisi, di mazzate, di lacrime facili, di piccoli conflitti che finivano in bestemmie, oscenità irriferibili e fratture insanabili, di affetti così esibiti da diventare insopportabilmente falsi. La mia Napoli è la Napoli “volgare” di gente “sistemata” ma ancora terrorizzata dalla necessità di tornare a doversi buscare la giornata con lavoretti precari, pomposamente onesta, ma, nei fatti, pronta a piccole nefandezze, per non sfigurare, chiassosa, di voce alta, sbruffona, laurina, ma anche per certe ramificazioni, stalinista, affogata nel dialetto più angoloso, sboccata e sensuale, senza ancora il decoro piccolo-borghese ma con la pulsione a darsene almeno i segni superficiali, per bene e potenzialmente criminale, pronta a immolarsi all’occasione o alla necessità, di non dimostrarsi più fesso degli altri.
Mi sono sentita diversa da questa Napoli, l’ho vissuta con repulsione, sono scappata via appena ho potuto, me la sono portata dietro come sintesi, un surrogato per tenete sempre a mente che la potenza della vita è lesa, umiliata da modalità ingiuste dell’esistenza. Da molto tempo, però, la guardo al microscopio. Isolo frammenti, ci scendo dentro, scopro cose buone che da ragazza non vedevo e altre che mi appaiono ancora più miserabili di allora. Ma neanche per queste provo più il vecchio astio. Alla fin fine è un’esperienza di città che non si cancella nemmeno volendo e che risulta utile dappertutto. Posso girare per strade e vicoli semplicemente standomene a letto a occhi chiusi; quando ci torno ho momenti iniziali di entusiasmo incontenibile; poi passo ad odiarla nel giro di un pomeriggio, regredisco, ritorno muta, avverto un senso di soffocamento, un malessere diffuso, mi pare di aver colto da ragazzina non una sua fase limitata nel tempo e nello spazio ma i segni di una degenerazione che ormai si è espansa, cosicché la città, coi suoi richiami di tempo perduto da ritrovare, o con le improvvise rammemorazioni, fa solo da sirena perversa, usa strade, vicoli, quella salita, quella discesa, la bellezza avvelenata del golfo, ma nei fatti resta un luogo di scomposizione, di disarticolazione, di perdita della testa che ho imparato a fatica a far funzionare un poco, fuori di lei. E tuttavia è la mia esperienza, vi custodisco molti affetti importanti, sento la ricchezza umana, gli strati complessi delle culture. Ho smesso di sottrarmela.

Alle domande che mi fa su Delia e Amalia, non so rispondere. Non mi pare di aver stabilito consapevolmente un nesso metaforico tra Amalia e Napoli. Napoli, nel mio libro e nelle intenzioni di quando l’ho scritto, è pensata come pressione, forza oscura del mondo che grava sui soggetti, summa di ciò che chiamiamo la minacciosa realtà d’oggi, fagocitazione ad opera della violenza, intorno e dentro i personaggi, di ogni spazio di mediazione e di relazione civile, ma, ciò detto, nel mio libro Delia deve semplicemente riuscire a raccontarsi una storia, che però conosce bene dalla A alla Z, non ha mai rimosso. La storia è soltanto rimasta impigliata in certi spazi della città, nel vociare dialettale attraverso cui ha preso forma. Questa donna vive nel labirinto di Napoli, per andare a prenderla, metterla in ordine, sistemare spazi e tempi, disse la propria storia finalmente ad alta voce. Ci prova e nel farlo capisce che, se le riuscirà, riuscirà anche a sommare finalmente a sé la madre, il mondo di lei, i torti, le fatiche, le passioni consumate o immaginate, le energie inibite, quelle espanse dentro ipochi canali accessibili. Tutto qui. Persino il mistero della morte di Amalia diventa piano piano irrilevante per Delia; o meglio diventa parte secondaria della storia intera sua e della madre. Naturalmente è vero Napoli non è un puro fondale. Scrivendo mi rendevo conto con chiarezza che non c’era luogo o gesto della storia che non venisse marcato da certa napoletanità non redenta, non redimibile, di scarsa dignità narrativa, fastidiosa. D’altra parte lo sforzi di Delia consisteva soprattutto nel raccontare ciò che le era sembrato a lungo non raccontabile e proseguire per quella strada mi giovava. E’ possibile che alla fine proprio il personaggio più sfuggente, meno catturabile, più densamente ambiguo, questa Amalia che assorbe fatiche e botte ma non si piega, si sia fissata con la carica di napoletanità meno delimitabile, e quindi risulti una sorta di somma-città strattonata, irretita, percossa, inseguita, umiliata, desiderata, tuttavia dotata di una sua straordinaria capacità di resistenza. Se fosse così ne sarei lieta. M non so confermarglielo.
Del resto le confesso che non mi piace la narrativa che mi dice programmaticamente com’è Napoli oggi, come sono i giovani oggi, come sono diventate le donne, com’è in crisi la famiglia, di quali mali soffre l’Italia. Ho l’impressione che queste operazioni siano quasi sempre la messinscena di luoghi comuni mediatici, la poeticizzazione di un articolo di rotocalco,m di un servizio televisivo, di una ricerca sociologica, di una posizione di partito. Mi aspetto invece da un buon racconto che mi dica sull’oggi ciò che non posso sapere da nessun’altra fonte che da quel racconto, dal suo modo unico di mettere in parole, dal sentore che esso presuppone.

Del film di Mario Martone non ho strumenti per parlarne e perciò sto zitta. Gli ho scritto ma poi non ho spedito la lettera, mi è sembrato di sapergli dire solo cose che lui sapeva già. Posso parlarle invece della sceneggiatura, che all’epoca ho letto e riletto. Nel mio libro la trama di passato e presente è tutta affidata all’oscillazione di detto-non detto, oscillazione decisa in assoluta autonomia dentro l’io narrante. Delia cioè, sulla pagina, è una prima persona letteraria, unica fonte di discorso e unica fonte di verità del racconto; nessuno interverrà mai veramente dall’esterno dalla sua voce narrante. Al cinema invece la voce narrante, quando c’è, deve fare i conti col proprio corpo-oggetto esposto sullo schermo ha un fuori che è dominante, perciò è sempre una parvida parvenza di quella letteraria. Mi è sembrato quindi naturale che Martone dovesse operare andando in altre direzioni e probabilmente ponendosi altre mete.
Per esempio, la vicenda di Delia, una volta incarnata, era da iscrivere dentro la città reale e il suo dialetto reale. Di conseguenza, una volta fissata Delia fuori dall’io narrante, è ovvio che, pur lavorando sui suoi silenzi e sulle sue mezze frasi, non si potesse fare altro che rappresentarla dall’esterno, alla ricerca di qualcosa che non sa e che deve scoprire, un percorso che impone quel didascalismo a cui lei accenna e che pur volendo sfruttare a fondo i margini di ambiguità possibili, deve per forza collocare, mostrare, affermare, negare, chiarire, più di quanto faccia la parola letteraria in prima persona.
A ma è sembrato, specialmente quando ho letto l’ultima versione della sceneggiatura che Martone avesse trovato soluzioni intelligenti e creative. Le faccio un solo esempio: per non tirarla troppo per le lunghe. Nelle poche parole del finale, ho lavorato più o meno consapevolmente su un gioco di tempi: “ Amalia c’era stata. Io era Amalia”. Il piuccheperfetto della prima fase tendeva a considerare compiuta definitivamente la storia di Amalia non con la sua morte, ma col passaggio, ormai avvenuta, della verità della sua esperienza dentro la figlia. L’imperfetto della seconda frase, e la trasformazione del soggetto della prima in predicato, volere riattivare la vita di Amalia, permetterle ricompiersi ancora dentro Delia, trasformarla in un di più, che, se non dice alcunché di Amalia, serve adesso alla figlia per essere a pieno. Quell’ero non ha alcuna funzione patologica, nelle mie intenzioni. Non è- almeno per quel che avevo in mente, mentre scrivevo- una perdita di identità. E’, piuttosto, anche un recupero del gioco infantile che la piccola Delia faceva nello scantinato quando giocava con Antonio e si fingeva Amalia, ma un recupero che ne rovescia la funzione. Quel gioco le serve ora per dirsi che un lato tremendo di se stessa bambina è diventato adulto, è stato accolto, può convivere con gli altri suoi momenti di donna matura. La soluzione inventata da Martone- la semplice risposta (“Amalia”) al giovane che le chiede come si chiama- mi è sembrata quanto di meglio si potesse fare, all’interno di un film, per tenere insieme tutte le cose che ho cercato di mettere in quelle due frasi, Per queste altre invenzioni sono molto contenta che Martone abbia messo mano all’Amore molesto.

Spero di essere stata, nei limiti del possibile, esauriente e sono contenta di aver avuto l’occasione di parlarle con una certa libertà. Vorrei che considerasse queste pagine, che mi sono costate un certo sforzo, come una sorta di ringraziamento a una persona che, definendosi mio affezionato ammiratore, mi ha messo in allegria per tutta una giornata.

Su un romanzo ma scritto

Lettera di Elena Ferrante al suo editore.

Cara Sandra
ti devo una spiegazione. Il testo che ho promesso di darti in lettura non ti arriverà. Ho visto che ti sei già impegnata a trovare un titolo (Le lavoranti mi piace, escludo invece Le lavoratrici), ma ho cambiato idea, il racconto non mi sembra ancora pronto per essere letto. Nell’ultima settimana io stessa non sono riuscita a leggerne nemmeno una riga senza disgustarmi. Ho bisogno di tempo per tornarci su con calma e capire cosa farne. Ma appena avrò preso una decisione ti farò sapere.
Adesso non pensare che sia colpa tua, hai fatto benissimo ad insistere. In tutti questi anni, ogni qual volta hai premuto perché ti facessi leggere qualcosa, mi sono messa a scrivere più motivatamente, ero contenta che almeno una persona – tu – fosse in attesa del mio nuovo libro. In questa occasione forse mi ha fatto male raccontarti per sommi capi o contenuti del libro, devo aver percepito una tua delusione editoriale;oppure ho sentito una preoccupazione per la lunghezza del manoscritto, hai sempre detto che i libri troppo lunghi, se non sono dei thriller avventurosissimi, mettono in fuga i lettori. Ma, ammesso anche che sia andata così, la mia decisione di non mantenere la promessa che ti avevo dato ha altre motivazioni.
Ho scritto questa storia perché mi riguarda. Ci sono stata dentro molto tempo. Ho accorciato sempre più le distanze tra me e la protagonista, ho occupato tutte le sue cavità, e non c’è niente di lei, oggi, che non farei io. Perciò sono stremata e adesso che il racconto è finito devo riprendere fiato. Come? Non lo so, mettendomi a scrivere un altro libro forse. O leggendone quanti più è possibile sull’oggetto di questa vicenda, e così restarci accanto, di lato, e fare come si fa con le torte per vedere se hanno raggiunto la cottura giusta, ficcarci uno stuzzicadenti, pungere il testo per capire se è fatto. Ormai penso allo scrivere come ad una lunga estenuante piacevole seduzione. Le storie che racconti, le parole che usi e su cui lavori, i personaggi a cui cerchi di dare vita sono solo strumenti con cui circuisci la cosa sfuggente, innominata, senza forma, che appartiene solo a te e che tuttavia è una sorta di chiave per tutte le porte, la ragione vera per cui passi tanto tempo della vita seduta su un tavolo a battere sui tasti, a riempire fogli. La domanda di ogni racconto è sempre: questa è la storia giusta per afferrare ciò che giace silenzioso sul fondo di me, quella cosa viva che, se catturata, si spande per tutte le pagine e gli dà anima? La risposta è incerta, anche quando si arriva fino alla fine di un racconto. Cosa è capitato nelle righe, tra le righe? Spesso, dopo fatiche e piaceri, sulle pagine non c’è niente- vicende, dialoghi, colpi di scena, solo questo- e sei atterrita dalla tua stessa disperazione.
A me succede così: all’inizio faccio sempre molta fatica, il racconto stenta a partire,nessun incipit mi sembra davvero convincente; poi la storia si avvia, o pezzi già scritti prendono energia e all’improvviso trovano il modo di saldarsi insieme; allora scrivere diventa un piacere, le ore sono un tempo di intensi godimenti, i personaggi non ti lasciano più, hanno un loro spazio-tempo in cui sono vivi, sempre più nitidi, stanno dentro e fuori di te, stanno saldamente nelle vie, nelle case, nei luoghi in cui la vicenda deve prendere forma; le mille possibilità di racconto si autoselezionano e le scelte appaiono inevitabili, definitive; ogni giorno il lavoro comincia rileggendo per riprendere lena, e rileggersi è piacevole, è in perfezionare, arricchire, ritoccare il passato per far quadrare il futuro del racconto. Poi questo tempo gioioso del racconto giunge a compimento. Il racconto è finito. Bisogna non più rileggere il lavoro del giorno prima, ma l’intera storia. Hai paura. Provi qua e là, niente è scritto come ti eri immaginata di scrivere. L’inizio è insignificante, lo svolgimento ti sembra rozzo, i mezzi linguistici ti sembrano inadeguati. E’ il momento in cui si ha bisogno di essere soccorsi, tornare il modo per disegnare il terreno su cui poggiare il libro e capire di che sostanza è veramente fatto.
Ora sono proprio a questo punto angoscioso. Perciò, se ti va, aiutami. Cosa sai di romanzi che raccontano di lavori femminili spiati ossessivamente da uno sguardo ozioso, cattivo, a tratti feroce? Ce ne sono? Mi interessa tutto ciò che mette al centro il corpo femminile impegnato in attività lavorative. Se hai qualche titolo in mente – non importa se si tratta di libri di buon livello o di robaccia – scrivimi. Io dubito che il lavoro nobiliti l’uomo ed escludo in assoluto che nobiliti la donna. Perciò il romanzo è concentrato sul dispiacere di lavorare, sull’orrore implicito nella necessità di guadagnarsi la vita, espressione già di per sé abominevole. Ma non ti spaventare: ti assicuro che, pur avendo utilizzato non solo tutti i lavori che conosco a fondo per averli fatti io stessa ma anche quelli di cui so la prassi grazie a persone che conosco bene e delle quali mi fido, ho scritto tutt’altro che un’inchiesta sulla fatica delle donne, il racconto è a forte tensione, succede di tutto. Però del risultato del libro, non so proprio dirti. Adesso che mi pare che sia finito devo tornare ragioni per acquietarmi. Alla fine, in tutta serenità, ti dirò se il romanzo si può leggere o no, se è da stampare o va ad aggiungersi ai miei esercizi di scrittura. In quest’ultimo caso sarei veramente dispiaciuta di averti delusa di nuovo. D’altra parte io credo che, per chi ama scrivere, il tempo dello scrivere non sia mai sprecato. E poi non è di libro in libro che ci si avvicina al libro che vogliamo veramente fare? A presto,

Elena

Admin

Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE