Conversazioni

“SESSUALITA’, RESPONSABILITA’ E SCRITTURA”. Intervista a Michael Cunningham di Francesco Gnerre

Michael Cunningham è nato a Cincinnati nel 1952 ed è cresciuto in California. Ha conseguito la laurea in letteratura inglese presso l’Università di Stanford. Ha scritto Carne e sangue, Una casa alla fine del mondo ma soprattutto Le ore, romanzo con cui si è imposto all’attenzione letteraria internazionale ed ha conquistato il “Premio Pulitzer 1999” per la letteratura, il “Pen/Faulkner Award” e il “Premio Grinzane Cavour 2000” per la narrativa straniera. Da Le ore è stato tratto un film di grande successo con Meryl Streep, Nicole Kidman e Julianne Moore. In Italia i suoi romanzi sono pubblicati da “Bompiani”.
Prima di parlare del romanzo Le ore, che ho trovato molto bello, vorrei farti una domanda un po’ bizzarra: qualcuno ti ha chiesto come mai uno scrittore che è gay, che finora ha scritto di gay maschi, che vive negli Stati Uniti alla fine del secolo, sente il bisogno di scrivere un romanzo che ha come protagoniste tre donne, una delle quali, Virginia Woolf, è rappresentata quando, nel 1923, sta elaborando un suo romanzo?
Sì, mi è stato già chiesto, ma vedi, io sono un gay e sono uno scrittore e voglio usare tutta la mia esperienza per scrivere i libri migliori, per quanto mi è possibile. Io credo che c’è un grande vantaggio ad essere gay: si ha una prospettiva più ampia, perché si è un pochino al di fuori del mondo e si riesce forse a vederlo meglio. E quindi proprio la mia esperienza come gay forse mi permette di scrivere di persone molto diverse tra di loro. Sì, è vero, quando ho iniziato a scrivere questo libro ho pensato che probabilmente avrei finito per perdere molti dei miei lettori gay. Gli uomini gay, ho pensato, non avranno interesse a leggere di personaggi che non sono come loro, che non sono loro. Questo mi dispiaceva. Mi sono detto “ecco, ora non verranno più quei bei ragazzi mentre mi alleno in palestra a dirmi quanto gli è piaciuto il mio libro”, mentre invece, con grande, enorme sorpresa, molto gratificante, ho visto che, almeno negli Stati Uniti, non ho perso quei lettori gay, i quali anzi mi sono sembrati interessati quanto me a conoscere, e nel mio caso a scrivere, di questo mondo più ampio. E’ un po’ come se ora fossimo tutti d’accordo sul fatto che noi viviamo come gay in questo mondo e dobbiamo conoscerlo e che quindi non serve leggere solo storie che riguardano noi.

Mi piacerebbe che raccontassi quando e come è nato questo straordinario amore per Virginia Woolf tanto da riuscire, oltre che a reinventarla come personaggio, a rifarne quasi la scrittura.
Ho iniziato ad amare l’opera di Virginia Woolf e in particolar modo La signora Dalloway da ragazzino. Quello è stato il mio primo libro importante, avevo quindici anni e fu come una rivelazione. Ero un ragazzino abbastanza sciocco, stupido, che viveva in California e che non aveva mai praticamente letto un libro. Questo libro è rimasto dentro di me, come nessun altro. Volevo in qualche modo farlo mio. Ed ero partito dall’idea di farne un libro, come dire, più gay. Pensavo che avrei riscritto La signora Dalloway come la storia di un uomo gay nella New York contemporanea, un uomo di cinquantadue anni che vive nella società gay dei bar, club, così come la signora Dalloway andava alle feste. E poi mi sono reso conto, man mano che scrivevo, che non era una storia interessante, che non veniva fuori bene. Era un po’ un trucco, c’era poco spessore in questa idea, non c’era abbastanza materiale. Così c’è stata una metamorfosi e il libro si è trasformato in quello che è, un libro su tre donne (ed una di queste è la Woolf stessa), e per scriverlo ho letto, o piuttosto riletto, tutta l’opera della Woolf: lettere, diari, saggi, oltre i romanzi. Poi ho messo tutto da parte, in modo da poter scrivere come sono io, però sotto la sua influenza. Non volevo imitarla, non volevo scrivere come lei, perché sarei stato sciocco e tra l’altro non avrebbe funzionato. Volevo scrivere come sono io, però immerso in lei.

Cosa ha comportato questo confronto con tanto genio? Non hai avuto un po’ paura?
Sì, assolutamente. Terrore, panico. Virginia Woolf è innanzitutto un genio e avevo paura che al suo fianco sarei apparso piccolo piccolo. In secondo luogo, è un simbolo, un’icona del femminismo e io sono un uomo. E però mi sono detto “perché non scrivere un libro che comporti un rischio e un pericolo?”. E così sono andato avanti.
Tutti i personaggi del libro hanno una sessualità come dire, ambigua, che sembra essere in un modo, ma poi è anche altro…
Diciamo che a me premeva cominciare a ricercare l’incredibile complessità della sessualità. Parlare di gay, di bisessuali o di persone, diciamo, dalla sessualità normale non esaurisce l’infinita possibilità della sessualità. Nessuno in questo libro è etichettabile come una persona dalla sessualità “normale” o gay, ecc., perché tutti hanno una sessualità molto particolare, molto personale che non assomiglia a quella degli altri.

In ogni testo letterario c’è sempre un personaggio che fa un po’ da portavoce dell’autore. Puoi dire, come Flaubert per Madame Bovary, “Virgina Woolf c’est moi”?
Certamente sì, ma debbo dire anche che un po’ tutti questi personaggi c’est moi. Se un personaggio non fosse almeno in parte autobiografico, non so se riuscirei a scriverne.

Un tema del libro, che sembra essere un po’ sullo sfondo ma che a me è sembrato molto importante, è la malattia di Richard. Tu hai vissuto a New York gli anni più drammatici dell’AIDS. Quanto ha influito nella tua vita, anche come scrittore?
L’AIDS ha influito enormemente sulla mia vita. Nel libro due delle storie sono ambientate dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale. La terza invece è ambientata al tempo dell’AIDS. Ritengo che chi di noi, fino ad ora almeno, è riuscito a sopravvivere all’epidemia dell’AIDS , in qualche modo è paragonabile a chi è sopravvissuto ad una guerra. Abbiamo visto il male, abbiamo visto l’eroismo, spesso da parte di persone insospettabili che nessuno avrebbe detto eroiche, e abbiamo visto persone che si sono comportate malissimo, inaspettatamente. Sopravvivere ad una epidemia come questa è un po’ come sopravvivere alla guerra. Vivere in mezzo all’epidemia modifica profondamente il senso che abbiamo dell’umanità, la nostra identità stessa e la consapevolezza di ciò che siamo in grado di fare.

Che rapporto c’è tra questo libro e i precedenti?
Questo libro per me rappresenta un grosso cambiamento. I miei primi due libri Una casa alla fine del mondo e Carne e sangue sono stati scritti entrambi quando avevo molti amici malati. Lavoravo allora con “Act up” ed ero in mezzo a persone straordinarie. Ho visto dei ragazzi di ventitré anni, che magari lavoravano in discoteca, occuparsi di amici, quando ormai le famiglie non ne volevano più sapere. Li ho visti lottare con i medici, cercare di trovare i farmaci giusti, ripulire il vomito, la merda, tenere veramente per mano queste persone. Poi alcuni di questi si sono ammalati e sono stato io ad aiutare loro e mi sono reso conto che molti erano giovani, non erano dei lettori impegnati (a loro Checov difficilmente poteva interessare), volevano leggere storie che riguardassero le loro vite e non è che ci fosse un granché in giro che potesse soddisfare questo loro desiderio. Entrambi i miei primi libri erano in qualche modo scritti per queste persone. Quindi sono libri, se vogliamo, accessibili, tradizionali, con una struttura narrativa molto lineare. Puoi entrare così, facilmente, senza ostacoli. Questo libro invece è più complicato, diverso, più difficile.

Però proprio con un libro così difficile, dalla struttura così articolata e sofisticata, sei arrivato ad un traguardo così importante come il Pulitzer. Cosa ha significato per te anche come militante gay?

E’ stata un’enorme sorpresa, devo dire. Tutte le reazioni che si sono avute al libro mi hanno sorpreso . Io pensavo che questo sarebbe stato un piccolo libro “artistico” che sarebbe stato letto da qualche centinaio di persone e che però dovevo scrivere, perché più scrivi e più migliori la scrittura, penso. E questo è il mio libro migliore, più forte…. però non posso non dire “Beh, al momento in cui smetti di scrivere di gay che fanno sesso, ecco che ti danno il Pulitzer !!!”. A parte la battuta, i premi di per sé sono stupidi, sono sciocchi: un libro vince e un altro perde, è assurdo! Ma la cosa veramente gratificante dell’aver vinto questo premio e dell’aver suscitato così tanto interesse è il fatto che tante persone, scrittori e non, gay, sono venute da me e mi hanno detto “non è bello che abbiamo vinto questo premio? Che ci hanno dato questo premio?”. Questo per me è stato straordinario.

Una domanda personale: vuoi dirmi qualcosa a proposito del tuo coming-out?
Non c’è mai stato alcun problema per quanto riguarda me scrittore, nel senso del coming-out. Quando è uscito il mio primo libro ho fatto la mia prima intervista radiofonica e la donna che mi intervistava ha detto “Beh, mi parli della sua sessualità”. E io ho detto “Parliamone!”. Io penso che in assoluto l’atto politico più significativo sia semplicemente essere out. E per questo rispondo sempre a domande sulla mia vita privata, a cui magari preferirei non rispondere, ma lo faccio perché non voglio che si possa pensare che abbia qualcosa da nascondere. Dal momento in cui ho avuto una qualche notorietà, non c’è stato neanche un attimo in cui io non sia stato out.

Questa intervista è stata originariamente pubblicata sul numero di novembre 1999 del mensile “Babilonia”.

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