Critica letteraria

SULLA SUPERIORITA’ DELLA LETTERATURA ANGLO-AMERICANA di Gilles Deleuze – Parte I

1. Partire, evadere, significa tracciare una linea. L’oggetto più alto della letteratura, secondo Lawrence: “Partire, partire, evadere… attraversare l’orizzonte, penetrare in un’altra vita… è così che Melville si ritrova nel mezzo del Pacifico, egli ha veramente superato la linea dell’orizzonte”. La linea di fuga è una deterritorializzazione. I francesi non sanno bene che cos’è. Evidentemente essi fuggono come tutti, ma pensano che fuggire sia una fuga dal mondo, misticismo o arte, oppure che sia qualcosa di vile, in quanto si sfugge così agli impegni e alle responsabilità. Fuggire non significa affatto rinunciare alle azioni, non c’è niente di più attivo di una fuga. E il contrario dell’immaginario. Lo stesso vale per il far fuggire, non necessariamente gli altri, ma far fuggire qualcosa, far fuggire un sistema, come si fa scoppiare un tubo. George Jackson scrive dalla prigione: “E’ possibile che io fugga, ma durante la mia fuga cercherò un’arma”. E Lawrence, ancora: “Le armi vecchie si guastano, costruitene delle nuove e mirate giusto”. Fuggire significa tracciare una linea, delle linee, tutta una cartografia. Si scoprono dei mondi solo in una lunga fuga spezzata. La letteratura anglo-americana mostra in continuazione queste rotture, questi personaggi che creano la loro linea di fuga, che creano attraverso linee di fuga. Thomas Hardy, Melville, Stevenson, Virginia Woolf, Thomas Wolfe, Lawrence, Fitzgerald, Miller, Kerouac. Qui tutto è partenza, divenire, passaggio, salto, demonio, rapporto con il fuori. Essi creano una nuova Terra, ma può proprio darsi che il movimento della terra sia la deterritorializzazione stessa. La letteratura americana opera secondo linee geografiche: la fuga verso il West, la scoperta che il vero Est è all’Ovest, il senso delle frontiere come qualcosa da superare, spingere indietro, varcare.

Fuggire non significa esattamente viaggiare, neanche muoversi. Innanzitutto perché ci sono dei viaggi alla francese, troppo storici, culturali e organizzati, in cui ci si accontenta di portare in giro il proprio “io”, poi perché le fughe possono anche farsi sul posto, in un viaggio immobile. Toynbee mostra che i nomadi, in senso stretto, in senso geografico, non sono né degli emigranti, né dei viaggiatori, ma al contrario quelli che non si muovono, che si avvinghiano alla steppa, immobili a grandi passi, secondo una linea di fuga sul posto, loro, i più grandi inventori di nuove armi.

2. Ma la storia non ha mai capito nulla dei nomadi, privi come sono di passato e di avvenire. Le carte sono delle carte d’intensità, la geografia non è meno mentale e corporea di quanto non sia fisica in movimento. Quando Lawrence se la prende con Melville, gli rimprovera di aver preso troppo sul serio i viaggi. Finisce così che il viaggio diventa un ritorno fra i selvaggi, ma un ritorno di questo genere è una regressione. C’è sempre un modo di ri-territorializzarsi mentre si viaggia, son sempre il proprio padre e la propria madre (o peggio) che si ritrovano in viaggio. “La vita coi selvaggi nauseò Melville più di qualsiasi altra cosa […] Ma ecco, immediatamente dopo esser tornato nel purgatorio della Casa e della Madre, tornargli il rimpianto per il Paradiso”.

3. Fitzgerald lo spiega ancora meglio: “Ciò mi portò all’idea che coloro i quali erano sopravvissuti se l’erano probabilmente cavata tagliando la corda. Questa è un’espressione particolare, non applicabile a chi evade da un carcere con la prospettiva di andare a finire in un nuovo carcere o di essere costretto a viva forza a tornare nel vecchio. La famosa “Evasione” o “il piantar baracca e burattini” è un’escursione in una trappola anche se la trappola include i mari del Sud, che sono solo per coloro che vogliono dipingerli o navigarli. Tagliare la corda è qualcosa da cui non si torna indietro, qualcosa di irrimediabile perché fa sì che il passato cessi di esistere”.

4. Ma anche dopo aver distinto la fuga dal viaggio, la fuga rimane ancora un’operazione ambigua. Chi ci dice che, lungo una linea di fuga, noi non stiamo per ritrovare tutto ciò da cui fuggiamo? Fuggendo l’eterno padre-madre, non stiamo per ritrovare tutte le formazioni edipiche sulla linea di fuga? Fuggendo il fascismo, ci imbattiamo in concrezioni fasciste sulla linea di fuga. Fuggendo tutto, come non ricostituire il nostro paese natale, e le nostre formazioni di potere, e le nostre droghe, le nostre psicanalisi, i nostri papà-mamma? Come fare perché la linea di fuga non si confonda con un puro e semplice movimento di autodistruzione, alcolismo di Fitzgerald, scoraggiamento di Lawrence, suicidio di Virginia Woolf, triste fine di Kerouac? La letteratura inglese e americana è effettivamente attraversata da un cupo processo di demolizione, che travolge lo scrittore. Una morte felice? Ma è proprio quello che si può imparare soltanto sulla linea, nello stesso momento in cui la si sta tracciando: i pericoli che vi si corrono, la pazienza e la precauzione che bisogna impiegare, le correzioni che bisogna apportare in continuazione, per liberarla dalle sabbie e dai buchi neri. Non si può prevedere. Una vera rottura può dispiegarsi nel tempo, essa è diversa da un taglio troppo significante, deve continuamente venir protetta non soltanto contro i suoi falsi sembianti, ma anche contro se stessa, e contro le riterritorializzazioni che l’attendono al varco. Ecco perché da uno scrittore all’altro essa salta come qualcosa che deve essere ricominciato. Gli inglesi e gli americani non hanno lo stesso modo di ricominciare dei francesi. Il ricominciamento francese è la tabula rasa, la ricerca di una certezza prima quale punto di origine: sempre il punto fermo. L’altro modo di ricominciare invece è quello di riprendere la linea interrotta, aggiungere un segmento alla linea spezzata, farla passare fra due rupi, lungo una stretta gola, oppure oltre il vuoto, là dove essa si era arrestata. Non sono mai l’inizio e la fine ad essere interessanti, essi sono solo dei punti. L’interessante è il mezzo. Lo zero inglese sta sempre nel mezzo. Ci si trova nel mezzo di una linea e questa è la situazione meno confortevole. Si ricomincia dal mezzo. Le strettoie sono sempre nel mezzo. I francesi pensano troppo in termini di albero: l’albero del sapere, i punti d’arborescenza, l’alfa e l’omega, le radici e la cima. E’ il contrario dell’erba. Non solo l’erba cresce nel mezzo delle cose, ma cresce essa stessa attraverso il mezzo. E’ il problema inglese o americano. L’erba possiede una sua linea di fuga, e non di radicamento. In testa si ha dell’erba e non un albero: il che significa pensare, significa cervello, “un certo sistema nervoso”, erba.

5. Caso esemplare di Thomas Hardy: in lui i personaggi non sono persone o soggetti, ma collezioni di sensazioni intensive, ognuno di essi si presenta come una tale collezione, un pacco, un blocco di sensazioni variabili. C’è un curioso rispetto per l’individuo, un rispetto straordinario: non perché egli prenderebbe se stesso come una persona e sarebbe riconosciuto come una persona, al modo francese, ma al contrario proprio perché egli si vive e vive gli altri come tante “possibilità uniche” – la possibilità unica che proprio questa o quella combinazione sia stata lanciata. Individuazione senza soggetto. E questi pacchi di sensazioni dal vivo, queste collezioni o combinazioni, filano su delle linee di possibilità, o di cattiva possibilità, là dove avvengono i loro incontri, eventualmente i loro brutti incontri che si spingono fino alla morte, fino all’omicidio. Hardy invoca una sorta di destino greco per questo mondo sperimentale empirista. Dei pacchi di sensazioni, degli individui, filano sulla landa quale linea di fuga, o linea di deterritorializzazione della terra.

Una fuga è una specie di delirio. Delirare significa esattamente uscire dal solco (come “dir fesserie” ecc.). C’è qualcosa di demoniaco o di demonico in una linea di fuga. I demoni si distinguono dagli dei in quanto questi ultimi posseggono degli attributi, delle proprietà e delle funzioni fisse, territori e codici: hanno a che fare coi solchi, coi limiti e coi catasti. Tipico dei demoni invece è il saltare gli intervalli e da un intervallo all’altro. “Quale demone ha fatto il salto più lungo?” chiede Edipo. C’è sempre un tradimento in una linea di fuga. Non si imbroglia come un uomo d’ordine che predispone il suo avvenire, ma invece si deve tradire come un uomo semplice che non ha più passato né futuro. Si tradiscono le potenze fisse che vogliono trattenerci, le potenze stabilite della terra. Il movimento del tradire è stato definito attraverso il doppio distoglimento: l’uomo distoglie il proprio viso da Dio che non è da meno nel distogliere il suo dall’uomo. é in questo doppio distoglimento, nello scarto dei volti, che si traccia la linea di fuga, cioè la deterritorializzazione dell’uomo. Il tradimento è come il furto, è sempre doppio. Edipo a Colono, con il suo lungo errare, è stato presentato come il caso esemplare del doppio distoglimento. Ma Edipo è la sola tragedia semitica dei Greci. Dio che si distoglie dall’uomo che si distoglie da Dio: questo è prima di tutto il soggetto dell’Antico Testamento. E’ la storia di Caino, la linea di fuga di Caino. E’ la storia di Giona: il profeta si riconosce da questo, dal fatto che prende la direzione opposta a quella ordinatagli da Dio, e in tal modo realizza il comandamento di Dio ancora meglio che se avesse obbedito. Traditore, egli ha preso il male su di sé. Il Vecchio Testamento è continuamente percorso da queste linee di fuga, linee di separazione della terra e delle acque. “Che […] gli elementi si dissocino e si fuggano. Il tritone abbandoni la moglie umana e i figli […] Attraverso il cuore li spinge il mare. Bisogna lasciare amore e casa […]”

6. Nelle “grandi scoperte”, nelle grandi spedizioni, non c’è soltanto l’incertezza per quello che si va a scoprire, la conquista di qualcosa di sconosciuto, ma anche l’invenzione di una linea di fuga e la potenza del tradimento: essere il solo traditore, e traditore di tutti – Aguirre o il furore di Dio. Cristoforo Colombo come è descritto da Jacques Besse in un racconto straordinario, dove si vede pure il divenire-donna di Colombo.

7. Il furto creativo del traditore, contro i plagi dell’imbroglione.

Il Vecchio Testamento non è un’epopea né una tragedia, è il primo romanzo; ed è così che gli inglesi lo comprendono, come fondazione del romanzo. Il traditore è il personaggio essenziale del romanzo, l’eroe. Traditore del mondo delle significazioni dominanti e dell’ordine stabilito, é molto diverso dal truffatore: quest’ultimo infatti cerca di impadronirsi di proprietà stabili, o di conquistare un territorio, o anche di instaurare un nuovo ordine. Il truffatore ha di fronte a sé molto avvenire, ma proprio per nulla un divenire. Il prete, l’indovino sono dei truffatori, lo sperimentatore invece un traditore. L’uomo di Stato, l’uomo di cuore, è un truffatore, ma l’uomo di guerra (non maresciallo o generale) un traditore. Il romanzo francese presenta molti truffatori e i nostri romanzieri lo sono spesso loro stessi. Non hanno un rapporto speciale con l’Antico Testamento. Shakespeare ha messo in scena molti re truffatori, che arrivavano al potere con l’imbroglio e che poi in fin dei conti si rivelavano dei buoni re. Ma quando s’imbatte in Riccardo III, si innalza alla più romanzesca delle tragedie. Perché Riccardo III non vuole semplicemente il potere, vuole il tradimento. Non vuole la conquista dello Stato, ma il concatenamento di una macchina da guerra: come essere il solo traditore e tradire tutto nello stesso tempo? Il dialogo con lady Anna, che alcuni commentatori hanno giudicato “poco verosimile ed eccessivo”, mostra i due volti che si distolgono, e Anna che comincia a presentire, già consenziente e affascinata, la linea tortuosa che Riccardo sta tracciando. E non c’è nulla che riveli il tradimento meglio della scelta di oggetto. Non perché sia una scelta oggettuale, brutta nozione, ma perché è un divenire, l’elemento demonico per eccellenza. Nello scegliere Anna, c’è un divenire-donna di Riccardo III. Di cosa è colpevole il capitano Achab, in Melville? Di aver scelto Moby Dick, la balena bianca, invece di obbedire alla legge di gruppo dei pescatori, la quale vuole che qualsiasi balena vada bene per essere cacciata. E’ questo l’elemento demonico di Achab, il suo tradimento, il suo rapporto con il Leviatano, questa scelta d’oggetto che trascina lui stesso in un divenire-balena. Lo stesso tema appare nella Pentesilea di Kleist: il peccato di Pentesilea, aver scelto Achille, mentre la legge delle Amazzoni vieta di scegliere il nemico; l’elemento demonico di Pentesilea la coinvolge in un divenire-cagna (Kleist faceva orrore ai tedeschi, non lo riconoscevano come tedesco: con grandi scorribande sul suo cavallo, Kleist fa parte di quegli autori che seppero tracciare, nonostante l’ordine tedesco, una dirompente linea di fuga attraverso le foreste e gli Stati. Come Lenz o Bochner, tutti degli Anti-Goethe). Bisognerebbe definire una funzione speciale, che non si confonde né con la salute, né con la malattia: la funzione dell’Anomalo. L’Anomalo si trova sempre alla frontiera, sul margine di una banda o di una molteplicità; ne fa sì parte, ma la fa anche passare in un’altra molteplicità, la fa divenire, traccia una linea intermedia. Così è l’“outsider”: Moby Dick, ovvero la Cosa, l’Entità di Lovecraft, terrore.

Può darsi che lo scrivere si trovi in un rapporto essenziale con le linee di fuga. Scrivere vuol dire tracciare delle linee di fuga che non sono immaginarie e che uno si trova addirittura costretto a seguire, in quanto la scrittura è un ingaggio, un imbarco in realtà. Scrivere è divenire, ma non è affatto un divenire scrittore. E’ divenire altro. Uno scrittore di professione può giudicarsi secondo il suo passato o secondo il suo avvenire, secondo il suo avvenire personale o secondo la posterità (“sarò compreso tra due anni, tra cento…”). Tutt’altri sono i modi di divenire contenuti nella scrittura, quando questa non aderisce a delle parole d’ordine stabilite, ma traccia essa stessa delle linee di fuga. Si potrebbe dire che la scrittura in se stessa, quando non è ufficiale, si ricongiunge necessariamente a delle “minoranze” che com’è ovvio non scrivono per conto proprio, e sulle quali nemmeno si scrive, nel senso di prenderle come oggetto, ma nelle quali per contro ci si trova presi, volenti o nolenti, per il fatto stesso che si scrive. Una minoranza non esiste mai tutta intera, ma si costituisce solo su delle linee di fuga, che sono anche il suo modo di avanzare e di attaccare. C’è un divenire-donna nella scrittura. Non si tratta di scrivere “come” una donna. Mme Bovary “sono” io – è una frase da truffatore isterico. Anche le donne non riescono sempre quando si sforzano di scrivere come donne, in funzione di un avvenire della donna. Donna non è necessariamente lo scrittore, ma il divenire-minoritario della sua scrittura, che sia lo scrittore un uomo oppure una donna. Virginia Woolf si proibiva di “parlare come una donna”: e tanto più coglieva il divenire-donna della scrittura. Lawrence e Miller passano per grandi fallocrati; tuttavia la scrittura li ha trascinati in un irresistibile divenire-donna. L’Inghilterra non ha prodotto mai tanti romanzieri quanto attraverso questa forma di divenire, in cui le donne devono fare la stessa quantità di sforzi degli uomini. C’è un divenire-negro nella scrittura, un divenire-indiano, che non consistono nel parlare come un pellerossa o un piccolo negro. Ci sono delle forme di divenire-animale nella scrittura, che non consistono nell’imitare l’animale, nel “fare” l’animale, non più di quanto la musica di Mozart imiti gli uccelli, sebbene essa sia penetrata da un divenire-uccello. Il capitano Achab è preso in un divenire-balena che non consiste in un’imitazione. Lawrence e il divenire-tartaruga, nei suoi ammirevoli poemi. C’è un divenire-animale nella scrittura che non consiste nel parlare del proprio cane o gatto: é piuttosto un incontro tra due regni, un corto circuito, una cattura di codice dove ciascuno si deterritorializza. Scrivendo si dona sempre scrittura a coloro che non l’hanno, ma essi donano alla scrittura un divenire senza il quale essa non sarebbe, senza il quale sarebbe pura ridondanza al servizio delle potenze stabilite. Il fatto che lo scrittore sia minoritario non vuol dire che c’è meno gente che scrive rispetto a quella che legge; oggi questo non sarebbe neanche vero: significa invece che la scrittura s’incontra sempre con una minoranza che non scrive, e non si incarica di scrivere per questa minoranza, ovvero al suo posto o a suo proposito. Quel che accade è al contrario un incontro dove ciascuno spinge l’altro, lo coinvolge nella propria linea di fuga, in una deterritorializzazione coniugata. La scrittura si coniuga sempre con qualche altra cosa che è poi il suo proprio divenire. Non esiste un concatenamento che possa funzionare su un unico flusso. Non è una questione di imitazione ma di congiunzione. Lo scrittore viene penetrato da una profondità maggiore, da un divenire-non-scrittore. Hofmannsthal (che si dà in questo caso uno pseudonimo inglese) non può più scrivere quando vede l’agonia di una muta di ratti, perché sente che è in lui che l’anima dell’animale mostra i denti. Un bel film inglese, Willard, rappresentava l’irresistibile divenire-topo del protagonista, che cercava di aggrapparsi a tutte le occasioni di umanità, ma che tuttavia si trovava trascinato in questa congiunzione fatale. Tanti silenzi e tanti suicidi di scrittori devono essere spiegati con queste nozze contro natura, queste partecipazioni contro natura. Essere un traditore del proprio regno, traditore del proprio sesso, della propria classe, della propria maggioranza – quale altra ragione per scrivere? Ed essere traditore della scrittura stessa.

Sono in molti a sognare di essere dei traditori. Ci credono, credono di esserlo. E tuttavia non sono che piccoli traditori. E’ il caso patetico di Maurice Sachs, nella letteratura francese. Quale traditore non si è detto: “Ah finalmente, sono un vero traditore!”. Ma quale traditore poi non dice a se stesso la sera: “Dopo tutto non ero che un traditore”. Il fatto è che tradire è una cosa difficile, significa creare. Bisogna perdere la propria identità, il proprio volto. Bisogna sparire, diventare sconosciuto.

Il fine, la finalità dello scrivere? Ben più al di là ancora di un divenire-donna, di un divenire-negro, animale, ecc., al di là di un divenire-minoritario, si presenta l’impresa finale di divenire-impercettibile. Oh no, uno scrittore non può augurarsi di essere “conosciuto”, riconosciuto. L’impercettibile, carattere comune della più grande velocità e della più grande lentezza. Perdere il volto, superare o perforare la parete, limarla con grande pazienza, scrivere non ha altro fine. E’ quel che Fitzgerald chiamava vera rottura: la linea di fuga, non il viaggio nei mari del Sud, ma l’acquisizione di una clandestinità (anche se si deve divenire animale, divenire negro o donna). Essere finalmente sconosciuto, come poca gente lo è, questo sì è tradire. E’ ben difficile riuscire ad essere completamente sconosciuto, sconosciuto anche alla propria portinaia, o nel proprio quartiere, il cantore senza nome, il ritornello. Alla fine di ‘Tenera è la notte’, il protagonista letteralmente, geograficamente, si dissipa. Il testo così bello di Fitzgerald, ‘The crack up’, dice: “Mi sentivo come quegli uomini dagli occhi piccoli e tondi che ero solito incontrare sul treno di Great Neck quindici anni fa […]”. C’è tutto un sistema sociale che si potrebbe chiamare sistema parete bianca – buco nero. Siamo sempre inchiodati alla parete delle significazioni dominanti, siamo sempre sprofondati nel buco della nostra soggettività, il buco nero del nostro Io che ci è caro più di ogni altra cosa. Parete su cui si inscrivono tutte le determinazioni oggettive che ci fissano, ci squadrano, ci identificano e ci fanno riconoscere: buco dove noi alloggiamo, con la nostra coscienza, i nostri sentimenti, le nostre passioni, i nostri piccoli segreti troppo conosciuti, la nostra voglia di farli conoscere. Anche se il volto è un prodotto di questo sistema, esso è una produzione sociale: grande volto dalle guance bianche, con il buco nero degli occhi. Le nostre società hanno bisogno di produrre volti. Il Cristo ha inventato il volto. Il problema di Miller (e già quello di Lawrence): come disfare il volto liberando in noi le teste cercatrici che tracciano delle linee di divenire? Come passare la parete, evitando di rimbalzare contro di essa, all’indietro, o di essere schiacciati? Come uscire dal buco nero, invece di girare sul fondo, quali particelle fare uscire dal buco nero? Come spezzare anche il nostro amore per divenire infine capaci di amare? Come diventare impercettibile? “Non guardo più negli occhi della donna che tengo fra le braccia, ma ci nuoto dentro, testa, braccia e gambe, e vedo che dietro le occhiaie c’è una regione inesplorata, il mondo del futuro, e qui non c’è logica affatto […] quest’occhio senz’io non rivela né illumina. Viaggia lungo la linea dell’orizzonte, viaggiatore incessante e disinformato […] Ho infranto il muro creato dalla nascita, e la linea del viaggio è rotonda e ininterrotta […] Il mio corpo intero deve diventare un costante raggio di luce […] Perciò chiudo le orecchie, gli occhi, la bocca. Prima di ridiventare uomo forse esisterò come parco […]”

8. Qui non abbiamo più segreti, non abbiamo più niente da nascondere. Siamo noi ad essere diventati un segreto, siamo noi che siamo nascosti, anche se tutto quel che facciamo avviene in pieno giorno e sotto una cruda luce. E’ l’opposto del romanticismo del “maledetto”. Ci siamo dipinti con i colori del mondo. Lawrence aveva denunciato quel che gli sembrava attraversare tutta la letteratura francese: la mania dello “sporco piccolo segreto”: personaggi e autori hanno sempre un piccolo segreto che alimenta la mania di interpretare. Bisogna sempre che ci sia qualcosa che ne richiami un’altra, che ci faccia pensare a un’altra cosa. Per quel che ci riguarda, abbiamo creduto di vedere nell’Edipo lo sporco piccolo segreto, non certo però l’Edipo a Colono, nella sua linea di fuga, divenuto impercettibile, identico al grande segreto vivente. Il grande segreto si dà quando uno non ha più niente da nascondere e nessuno allora lo può più afferrare. Da ogni parte il segreto, e niente da dire. Da quando è stato inventato il “significante”, le cose non si sono più aggiustate. Il linguaggio, invece di venire interpretato, si è messo lui a interpretare noi e a interpretarsi da se stesso. Significanza e interpretosi sono le due malattie della terra, la coppia del despota e del prete. Il significante è sempre il piccolo segreto che non ha mai smesso di ruotare attorno al mamma-papà. Noi facciamo cantare noi stessi, facciamo i misteriosi, i discreti, avanziamo con l’aria di dire “guardate sotto quale piccolo segreto io mi piego”. La scheggia nella carne. Generalmente il piccolo segreto si riporta a una triste masturbazione narcisistica e devota: il fantasma! La “trasgressione”, un troppo bel concetto per i seminaristi sottomessi alla legge di un pontefice o di un curato, i truffatori. Georges Bataille è un autore molto francese: è riuscito a fare del piccolo segreto l’essenza della letteratura, con una madre dentro, un padre di sotto e un occhio di sopra. Non si dirà mai abbastanza il male che il fantasma ha fatto alla scrittura (oltre ad avere invaso il cinema), alimentando il significante e l’interpretazione reciproca e appaiata. “Il mondo dei fantasmi è un mondo del passato”, un teatro del risentimento e della colpevolezza. Si può vedere bene della gente oggi che sfila gridando: “Viva la castrazione, perché è il luogo, l’Origine e la Fine del desiderio!” E si dimentica ciò che c’è nel mezzo. Continuamente vengono inventate nuove razze di preti addetti allo sporco piccolo segreto, il quale non ha altro scopo che quello di farsi riconoscere, ricacciarci in un buco assai nero, farci rimbalzare contro una parete molto bianca.

Il tuo segreto lo si vede sempre sul tuo volto e nel tuo sguardo. Perdi il volto. Diventa capace di amare senza ricordare, senza fantasma né interpretazione, senza fare il punto. Dovrebbero esserci soltanto dei flussi, che a volte si prosciugano, si ghiacciano o traboccano, e a volte si congiungono o si dividono. Un uomo e una donna sono dei flussi. Tutte le pluralità di divenire che ci sono nel fare l’amore, tutti i sessi, gli n sessi in uno solo o in due, e che non hanno niente a che vedere con la castrazione. Sulle linee di fuga ci può essere una cosa sola: la sperimentazione-vita. Non lo si sa mai in anticipo, perché non si ha più avvenire né passato. “Eccomi, così come sono”: tutto questo è finito. Non si dà più fantasma, ma soltanto programmi di vita, continuamente modificati man mano che si realizzano, traditi man mano che si approfondiscono, come sponde che filano via o canali che si diramano in modo che un flusso possa scorrere. Ci sono solo delle esplorazioni dove sempre si trova all’ovest quel che si credeva fosse all’est, organi invertiti. Tutte le linee su cui qualcuno si libera sono linee di pudore, in opposizione alla sudiceria laboriosa, puntuale, asservita, degli scrittori francesi. Non c’è più l’infinito rendiconto delle interpretazioni sempre un po’ sporche, ma al contrario dei processi finiti di sperimentazione, dei protocolli d’esperienza. Kleist e Kafka passavano il loro tempo a fare dei programmi di vita: e i programmi non sono dei manifesti, ancor meno dei fantasmi, ma dei sistemi di avvistamento per guidare una sperimentazione che va al di là delle nostre capacità di previsione (stessa cosa per quella che viene chiamata la musica a programma). La forza dei libri di Castaneda nella sua sperimentazione programmata della droga, consiste nel fatto che ogni volta le interpretazioni vengono disfatte, e il famoso significante eliminato. No, quel cane che ho visto, col quale ho corso sotto l’effetto della droga, non è quella puttana di mia madre… é un processo del divenire-animale, che non vuol dire nient’altro al di fuori di ciò che diviene, e che mi fa divenire con esso. Vi si concateneranno altre forme di divenire, forme di divenire-molecolare, dove l’aria, il suono, l’acqua, vengono presi nelle loro particelle nello stesso tempo in cui i loro flussi si congiungono con il mio. Tutto un mondo di micro-percezioni che ci portano verso l’impercettibile. Sperimentate, non interpretate mai. Programmate, non fantasmatizzate mai. Henry James, uno di coloro che hanno penetrato più a fondo il divenire-donna della scrittura, si inventa una protagonista impiegata alle poste, presa in un flusso telegrafico che lei comincia a dominare grazie alla sua “prodigiosa arte dell’interpretazione” (vagliare i mittenti, i telegrammi anonimi o cifrati). Ma di frammento in frammento si costruisce una sperimentazione vivente dove l’interpretazione finisce per sciogliersi, dove non c’è più percezione o sapere, segreto o divinazione: “Aveva finito col saperne così tanto che non poteva più interpretare, non c’erano più oscurità che la facessero veder chiaro… restava soltanto una luce cruda”. La letteratura inglese o americana è un processo di sperimentazione. Loro hanno ucciso l’interpretazione.

Il grande errore, il solo errore, sarebbe quello di credere che una linea di fuga consista nel fuggire la vita; la fuga nell’immaginario o nell’arte. Ma fuggire al contrario significa produrre del reale, creare vita, trovare un’arma. Generalmente, è in un unico falso movimento che la vita viene ridotta a qualcosa di personale e che l’opera viene concepita come se potesse trovare in se stessa il proprio fine, sia quale opera totale, sia quale opera in via di costruzione, e che rinvia sempre a una scrittura della scrittura. Ecco perché la letteratura francese abbonda in manifesti, in ideologie, teorie della scrittura, e allo stesso tempo in diatribe personali, messe a punto di messe a punto, compiacimenti nevrotici, tribunali narcisistici. Gli scrittori fanno della loro vita un sudicio tugurio personale, e contemporaneamente trovano la loro terra, la loro patria, tanto più spirituale, nell’opera che vanno costruendo. Sono contenti di puzzare, dal momento che quel che scrivono è tanto più sublime e significante. Spesso la letteratura francese si rivela come il più sfrontato elogio della nevrosi. L’opera sarà tanto più significante, quanto più rinvierà alla strizzata d’occhi e al piccolo segreto nella vita; e lo stesso vale inversamente. Bisogna ascoltare i critici qualificati parlare dei fallimenti di Kleist, delle impotenze di Lawrence, delle puerilità di Kafka, delle fanciulle di Carroll. E’ ignobile. E sempre con le migliori intenzioni del mondo: l’opera apparirà tanto più grande, quanto più la vita sarà stata resa miserabile. In questo modo non si corre più il rischio di vedere la potenza della vita attraversare l’opera. Tutto è stato annientato in anticipo. E’ lo stesso risentimento, lo stesso piacere della castrazione che anima il grande Significante come finalità proposta dell’opera, e il piccolo Significato immaginario, il fantasma, come espediente suggerito della vita. Lawrence rimproverava alla letteratura francese di essere inguaribilmente intellettuale, ideologica e idealista, essenzialmente critica, critica della vita, piuttosto che creatrice di vita. Il nazionalismo francese nelle lettere: una terribile mania di giudicare e di essere giudicati percorre questa letteratura; ci sono troppi isterici fra simili scrittori e i loro personaggi. Odiare, voler essere amato, ma una grande impotenza ad amare e ad ammirare. In verità lo scrivere non ha un fine in se stesso, proprio perché la vita non è qualcosa di personale. O meglio, lo scopo della scrittura è quello di portare la vita allo stato di una potenza non personale. La scrittura abbandona così ogni territorio, ogni fine che risiederebbe in se stessa. Perché si scrive? Il fatto è che non si tratta di scrittura. Può darsi che lo scrittore abbia una salute fragile, una costituzione debole. Ciò non toglie che sia proprio l’opposto del nevrotico: un uomo pieno di vita (come Spinoza, Nietzsche o Lawrence), anche se è soltanto troppo debole per la vita che lo attraversa o gli affetti che passano in lui. Scrivere non ha altra funzione: essere un flusso che si congiunge con altri flussi – tutte le forme di divenire-minoritario del mondo. Un flusso è qualcosa di intensivo, istantaneo e mutante, fra una creazione e una distruzione. Soltanto quando un flusso è deterritorializzato riesce ad attuare la propria congiunzione con altri flussi che lo deterritorializzano a loro volta e viceversa. In un divenire-animale si congiungono un uomo e un animale, che non si assomigliano affatto l’uno all’altro e non si imitano a vicenda, mentre invece ciascuno deterritorializza l’altro e spinge più lontano la linea. Sistema di sostituzioni e di mutamenti attraverso il mezzo. La linea di fuga crea queste forme di divenire. Le linee di fuga non hanno territorio. La scrittura opera la congiunzione, la trasmutazione dei flussi, attraverso i quali la vita sfugge al risentimento delle persone, delle società e dei regni. Le frasi di Kerouac sono sobrie come un disegno giapponese, pura linea tracciata da una mano senza supporto e che attraversa le età e i regni. Ci vuole un vero alcolista per raggiungere una simile sobrietà. Oppure la frase-landa, la linea-landa di Thomas Hardy: non è che la landa si presenti come il soggetto o la materia del romanzo, ma un flusso di scrittura moderna si congiunge con un flusso di landa immemorabile. Un divenire-landa; oppure il divenire-erba di Miller, ciò che lui chiama il suo divenire-Cina. Virginia Woolf e la sua capacità di passare da un’età a un’altra, da un regno all’altro, da un elemento a un altro: ci voleva l’anoressia di Virginia Woolf per arrivare a questo? Non si scrive altro che per amore, ogni scrittura è una lettera d’amore: la Reale-letteratura. Si dovrebbe morire solo per amore e non di una morte tragica. E bisognerebbe scrivere solo per questa morte, o cessare di scrivere solo per questo amore, o continuare a scrivere, le due cose insieme. Non conosciamo un libro d’amore più importante, più insinuante, più grandioso dei Sotterranei di Kerouac. Lui non si domanda “che significa scrivere?”, proprio perché ne ha tutta la necessità; è l’impossibilità di un’altra scelta a creare la scrittura stessa, a condizione però che la scrittura a sua volta si costituisca di già per lui come un altro divenire; o a condizione che venga da un altro divenire. La scrittura: mezzo per una vita più che personale, invece di costituire la vita come un povero segreto per una scrittura che non avrebbe altro fine al di fuori di sé. Ah sì, la miseria dell’immaginario e del simbolico, con un reale che viene sempre rimandato a domani!

* La seconda parte del saggio sarà pubblicata nel prossimo numero di Origine. Questo testo è stato proposto per la prima volta all’interno del volume Conversazioni di Gilles Deleuze, Claire Parnet (“Ombre Corte Editore”, Verona) che si ringrazia per la disponibilità [catalogo www.deriveapprodi.org/ombrecorte/cartografie.htm]

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Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE