Critica letteraria

I PENSIERI di Paolo Nori

C’è un personaggio del libro di Ermanno Cavazzoni Gli scrittori inutili che è una specie di insegnante di scrittura creativa e quello che insegna è che se uno scrive dieci parole in tutta la vita, cinque da giovane e cinque da vecchio, forse è anche troppo.

Scrivi una parola ogni tre anni, dice l’insegnante al suo unico allievo, e poi per i tre anni dopo ripensaci, e non farti vedere mentre ci pensi.

Ecco, quando pochi giorni fa mi è arrivato nella posta elettronica, mittente la rivista Origine, un file che si chiamava La questione della lingua parlata e scritta, un monologo di Paolo Nori, a cura di Seia Montanelli, che era una sbobinatura e una scelta di un mio incontro con i docenti delle scuole secondarie della Baviera tenutosi a Orvieto nell’aprile del 2003, mi è tornato subito in mente quel personaggio lì di Cavazzoni.

M’è venuto da pensare che io, se da un lato sono uno che scrive molto, dall’altro lato sono uno che pensa pochissimo.

Io mi sono accorto andando avanti col tempo di essere uno che ha un pensiero ogni cinque anni e poi i cinque anni successivi ripensa a quel pensiero lì.

Ecco, questo, da qualche mese a questa parte, come si dice, secondo me è un periodo di crisi, un periodo che evidentemente io sto passando da un pensiero all’altro.

Forse per quello le cose che ho letto in La questione della lingua parlata e scritta, quando le ho lette mi sono sembrate leggermente estranee, un po’ rimasticate, un po’ risentite, un po’ dette e ridette e su alcune pensarci adesso non ero neanche molto d’accordo, con me.

Forse c’entra anche il fatto che sono le stesse cose che ogni volta che faccio una lettura io le dico per introdurre i pezzi che leggo e di letture nel duemilaetre, prima che intervenisse questo momento di stasi di crisi e di passaggio da pensiero a pensiero ne devo aver fatte un centinaio allora si capirà perché preferisco che La questione della lingua parlata e scritta non venga stampato e rimanga nella sua forma orale di conversazione con i docenti delle scuole secondarie della Baviera.

Al suo posto mi piacerebbe che Origine pubblicasse un pezzo che mi era stato chiesto quest’estate da una ragazza che doveva preparare un catalogo per una mostra che si teneva a Massa, o a Carrara, m’avevano chiesto un pezzo che in generale parlasse dell’arte per un catalogo che doveva uscire in luglio e che forse sarà poi anche uscito, chi lo sa, non mi han fatto più saper niente, avevan detto che mi mandavano il catalogo non me l’han mica mandato.

Ecco, a me sembra che in questo pezzo che si chiama Autocritica si cominci a scrivere qualcosa a proposito di questo nuovo pensiero che suppongo mi accompagnerà per i prossimi dieci anni e per quello sarei contento che questo pezzo fosse pubblicato sulla rivista Origine.

Autocritica

C’è stato un momento, non so come mai, forse studiavo tanto, ma la cosa non era lo studiar tanto, la cosa era il volere che questo studiare fosse riconosciuto dal mondo, pretendere di avere indietro dei riconoscimenti, per questo studiare, come quelli che stan male, mi ricordo una volta c’era un’obesa, faceva l’università con me, si lamentava con una sua compagna di corso che qualcuno le era andato a dire che lui stava male.
Capito? diceva, È venuto a dire a me, che lui sta male, come se io invece non stessi male, non si vede, che sto male?
Era come se lei nella classifica di chi stava male non potesse concepire che qualcuno fosse più avanti di lei era un po’ carrierista, quella studentessa obesa di lingue dell’università di Parma, nella carriera del malessere, e c’è stato un momento che io ero un po’ un carrierista, nella carriera dell’essere intelligente, e è stato quando avevo appena finito l’università e mi preparavo al dottorato e intanto lavoravo e mettevo da parte i soldi per andare in Russia dove avrei studiato per prepararmi a un esame che ci sarebbe poi stato a gennaio.
È stato il periodo che mi interessavano solo le cose che avevano un rapporto diretto con le mie convinzioni, ero pieno di convinzioni, allora, e tra le mie convinzioni spiccava la convinzione che le mie convinzioni fossero utili ai miei conoscenti ero sempre pronto a dare un parere anche se non richiesto ero d’un peso.
È stato un periodo che un libro non mi piaceva se era scritto bene, ma se diceva delle cose che si accordavano alle mie convinzioni, se aveva il coraggio di dir quelle cose, pensavo, avevo un’idea del coraggio stranissima per esempio l’idea che tacere ci vuol del coraggio non mi sfiorava neanche m’indignava, anzi, il silenzio.
Un libro che mi faceva molto arrabbiare era il Tractatus di Wittgenstein, che non avevo letto proprio tutto ma che credevo di avere capito. Era un libro, com’è noto, costruito su sette proposizioni o otto proposizioni non mi ricordo, e le prime sei o sette, che erano commentate in modo anche abbastanza complicato per non dire astruso servivano tutte per dimostrare la settima o l’ottava che non era commentata e diceva, più o meno: Ciò che non può essere detto, dev’essere taciuto.
Io mi ricordo che quando avevo avuto tra le mani il Tractatus avevo pensato a mio babbo mi ero immaginato che mi chiedesse Cosa stai leggendo? Eh, gli avrei detto, sto leggendo un libro di logica piuttosto complicato che ci sono sette proposizioni che devono dimostrare l’ottava, gli avrei risposto. E cose dice l’ottava? Che quello che non può essere detto, dev’essere taciuto, avrei detto a mio babbo, e mio babbo nella mia immaginazione mi avrebbe guardato malissimo come per dire Non c’è mica bisogno di studiare dei libri, per saper quelle cose lì.
Invece probabilmente mio babbo, che era una persona intelligente ma d’una intelligenza vera, di quella intelligenza che vien su nei cantieri e ti fa capire la meravigliosa utilità del filo a piombo, probabilmente mio babbo non mi avrebbe detto così per via che lui lo sapeva che non era una cosa semplice, da capire, quello che a me mi è venuto in mente un fracasso di volte questi ultimi otto anni quando leggevo dei libri o quando sentivo della gente parlare di argomenti artistici Quello che non può essere detto, dev’essere taciuto, m’è venuto in mente un fracasso di volte in questi ultimi otto anni.
Invece all’epoca tra il novantacinque e il novantasei, io ero convinto che un’opera d’arte non solo doveva essere eloquente e coraggiosa, complicata, doveva essere, e se qualcuno per caso mi parlava del quadrato nero di Malevič io pensavo Ma poveretto, e se c’ero in confidenza arrivavo magari anche a dirgli Il quadrato nero di Malevič? Una gran cagata.
Ecco, io non so cos’è successo, questi ultimi otto anni, noioso son sempre noioso, peso son sempre peso, ma se oggi sentissi qualcuno che dice che il quadrato nero di Malevič è una cagata, a me mi sembrerebbe un coglione.

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