Critica letteraria

UN CLASSICO DA RISCOPRIRE – Il vortice ovvero su “I viceré” di De Roberto di Antonio Moresco

Ho incontrato tardi I viceré, scoraggiato da ciò che mi capitava di leggere intorno a questo romanzo nelle storie e nei dizionari della letteratura, dove viene in genere liquidato come esempio illustre del naturalismo italiano di fine Ottocento e si mette l’accento soprattutto sulla sua capacità di essere specchio dei cambiamenti storico-politici dell’Italia del tempo.
“Ma per sapere queste cose mi basta leggere un libro di storia!” mi dicevo.
Insomma, mi sembrava esattamente il tipo di libro, magari anche bello, magari importante, ma che non potesse davvero interessarmi e piacermi a fondo.
E poi c’era sempre quella fotografia dell’autore… Scusate, lo so che è una bambinata, che non ci faccio una bella figura a dirlo. Ma vedere sempre quella fotografia dell’autore impettito, il colletto duro, i baffi all’insù, impomatati… Insomma, scusate l’espressione… una perfetta testa di cazzo!

Quella di De Roberto è una storia triste. Bloccato nella piccola categoria del “naturalismo” (le cose cominciavano a funzionare anche allora così, come adesso vediamo mediatori e media usare altre etichette per gestire e castrare gli scrittori che man mano si affacciano: “pomoderni”, “cannibali”, “pulp”, “avantpop”, e se non stanno in nessuna casella peggio ancora…).
La sua biografia è lacunosa e imprecisa. Nato a Napoli nel 1861, passa la maggior parte della sua esistenza a Catania, città della madre. Conduce una vita schiva, ma gli capita anche di abitare per un po’ a Firenze e a Milano, dove conosce alcuni degli scrittori più noti della città, gli scapigliati Boito, Praga e altri, e collabora al “Corriere della sera”. La sua attività di scrittore, nonostante la sfortuna critica che lo ha accompagnato e i continui insuccessi, è sbalorditiva per varietà e ampiezza. Un gran numero di volumi di narrativa, critica, giornalismo, ecc… scritti spesso senza intervalli, a ritmi febbrili. Negli ultimi anni della sua vita dirada di molto la sua attività e si dedica soprattutto a curare la vecchia madre colpita da paralisi. Nel 1924, tre anni prima della morte, scrive all’amico Verga: “… sognavo di raggranellare una sommetta per riscattare gli stocks delle edizioni invendute dei miei libri per darli al fuoco. Poi venne la guerra e con essa, non che mettere quattrini da parte, nacque l’improvvisa necessità di battere moneta. Ti giuro – e mi devi credere – che se avessi saputo o potuto, se mi avessero preso, avrei fatto il contabile, il magazziniere, lo scaricatore, il lustrascarpe…”
A soli 33 anni, nel 1894, pubblica I viceré, il cui impegno gli costa una seria “malattia nervosa”. Il libro è un mezzo fallimento, un flop, si direbbe adesso.
Leggo in una sua biografia che, dopo, si sarebbe messo a scrivere anche romanzetti più accomodanti per cercare di blandire un po’ il pubblico. Non li ho letti e non sono perciò in grado di giudicare. Certo, se così è, il limite è suo. La mancanza di tenuta è sua. Doveva tenere duro, non arrendersi, a dispetto di tutto e di tutti. Ma quest’uomo, a soli 33 anni, aveva scritto un capolavoro come I viceré! Era intimo amico di scrittori noti e influenti come Verga, Capuana… Perché non hanno difeso a spada tratta, ripetutamente, pubblicamente, questo capolavoro? Com’è possibile che non abbia trovato attorno a sé qualcosa che potesse incoraggiarlo dopo una simile prova, che potesse dargli un po’ di quella fiducia in se stesso che lui evidentemente da solo non riusciva ad avere, perché si creassero le condizioni culturali, emotive per andare avanti e per crescere, amici e lettori capaci di accoglierlo, come è successo ad altri grandi romanzieri russi, francesi…? Perché la sua opera è caduta in un terreno così arido, in un tessuto culturale e sociale così asfittico? Non gliel’ha detto nessuno che aveva scritto il più crudele e straordinario romanzo italiano del suo tempo? Persino più di quelli – pur straordinari – di Verga, a mio parere.
Eppure, la valutazione critica alla sua morte era la seguente: “ La posizione che egli occupa nel quadro della letteratura narrativa italiana moderna potrà essere di poco mutata da nuovi riepiloghi” (Rivista d’Italia)
Leggo ancora, nella bibiografia, che De Roberto ha scritto anche un libro su Leopardi. Non senza ragione, mi pare. E’ infatti anche lui, assieme a non molti altri, nel numero dagli scrittori italiani che, ciascuno a suo modo, hanno saputo incontrare Leopardi. Scrittori anche molto diversi tra loro, che in genere non hanno avuto sempre vita facile e immediata accoglienza nel nostro paese e che, persino quando l’hanno avuta sono stati in qualche caso snaturati nel loro nucleo di verità più irriducibile: Svevo, Tozzi, Gadda, Bilenchi, D’Arrigo…
I viceré è un libro completamente leggibile anche oggi, anzi molto vicino a certi meccanismi mitici e narrativi che si sono affermati in questi anni, quasi una telenovela tragica, una “Dinasty” lucida e disperata sulla nascita del nostro paese e, più in generale, sulla vita in assoluto e sul teatrino della modernità e del cosiddetto progresso, buñueliana, fassbinderiana e addirittura almodovariana, si potrebbe dire, così vertiginosa e serrata che da sola basterebbe a smentire i soliti luoghi comuni sull’assenza del romanzo in Italia.
E’ un libro travolgente, che comincia con un dialogo concitato e una morte e butta subito il lettore a capofitto dentro la narrazione. E che va avanti così, fino alla fine, spostando continuamente strutture narrative, intrecci, consolazioni storiche, personali e formali, in un ininterrotto movimento a spirale, a vortice, che mette in collasso ogni teatrino della composizione, scavando un buco cieco dentro la cecità della storia, come quelle grandi viti che aprono i tunnel delle metropolitane. Non più i due buchi, uno da una parte e l’altro dall’altra, che vanno avanti simmetricamente, fino all’ultimo diaframma che viene fatto infine cadere e le teste dei muratori che si affacciano e si fanno ciao e stappano la bottiglia di spumante, come in genere sono costruiti, anche adesso, i romanzi. Ma questo movimento centrifugo, che trascina con sé le strutture e le storie personali e collettive. Il vortice cieco delle generazioni che scava un buco cieco dentro la vita e la storia.
Già per questo, per questa incredibile novità formale e mentale, di composizione e pensiero, ci troviamo di fronte a un libro anomalo e originale, selvaggio e inventato. Più di quelli di Verga (che pure era uno scrittore più grande di De Roberto, ma che era a mio parere meno romanziere e che teneva ben fermo e intatto l’ordito, era più scultore che trivellatore, era meno mosso di De Roberto da una disperazione narrativa e da un’ansia infantile di verità). Neppure il grande Zola, con tutta la sua zavorra deterministica, è così drammatico come De Roberto in questo libro. Zola viene dal materialismo positivista, De Roberto da Leopardi. Zola è pessimista, ma non altrettanto tragico. Perché il determinismo è pur sempre una consolazione, una luce, anche se nera.
La posizione di De Roberto è anomala anche rispetto al cosiddetto “naturalismo” e “verismo”, come d’altronde anche quella di Maupassant in Francia, ad esempio. Tutti e due scrittori rari, straordinari, discontinui e febbrili, ma capaci di scavi verticali che altri forse più grandi di loro non hanno neppure tentato e che, a ben vedere, non sono stati dentro l’inganno “naturalistico” della natura.
I viceré è come un brandello di carne appena strappato e ancora palpitante e innervato. Una commovente immersione nella vita umana e nel tempo. Un romanzo scritto dal bambino che vede passare l’imperatore senza vestiti e lo grida al mondo. Inaspettato, poco italiano nella sua perentorietà e radicalità, sempre proporzionale, crescente, nonostante, a volte, la fretta, la furia, le scopiazzature. Un’operazione a più strati, antropologica, artistica, politica, esistenziale e sociale di infantile veggenza.
Cercherò di rendere un’dea della sua ricchezza e complessità trascrivendo qui, così come sono, alcune delle frasi che avevo annotato ai bordi delle pagine del libro durante la lettura:
– Le quarte di copertina. L’epoca storica. L’unificazione tradita, il Risorgimento tradito… A me invece sembra anche tutto assolutamente e tragicamente attuale.
– Un libro tutto narrato, dall’inizio alla fine, un vortice, a differenza delle meravigliose acqueforti di Verga.
– Un’attenzione panica a ogni cosa, a personaggi secondari, alla servitù, ai continui cambiamenti e rovesciamenti, seguiti con aderenza totale e nevrotica lucidità e indignazione e veggenza nell’onda abbandonata e ininterrotta della narrazione.
– Qui c’è un’onda. In Verga no. Verga è categorico, fisso.
– Gli inferni famigliari. Maschi e femmine. Le donne in balia della tirannide dei padri e dei mariti. Un’entità collettiva. Un verminaio (famigliare, culturale, religioso, politico…) E, in mezzo agli inferni “umani”, gli inferni “naturali”, le ondate continue del colera, la minacciosa presenza del vulcano sempre sul punto di esplodere.
– Immediato, vivido. Teatrale e violento. Come se tutti recitassero sapendo di recitare (molti incipit sono battute di dialogo).
– Un’inesausta tensione teatrale. Ma come se recitassero non degli uomini, ma degli animali. Un occhio che riporta continuamente gli uomini alla natura animale. In tutta questa radicalità Croce ci ha visto solo “personaggi piatti”.
– Il potere e la morte. La macchina del potere e della morte che si perpetua attraverso le generazioni.
– Come un’immensa slavina famigliare, culturale, politica, sociale…
– La pazzia.
– La disperata sofferenza dei bambini, maschi e femmine: “Tutte le volte che la mettevano nella ruota per farla passare dentro alla Badìa, oltre il muro impenetrabile che segregava le suore dal mondo, tendeva le braccia alla sua mamma ed alle zie con un senso di paura negli occhi spalancati; ma la principessa che aveva gli ordini del marito, pel quale la bambina era una specie di muta ambasciatrice incaricata di sedare il malcontento della Badessa e della sorella Crocifissa, persuadeva la figlia a star buona, a non temere, e la piccina diceva di sì, di sì, mandando baci alla sua mamma mentre la ruota girava, la chiudeva nello spessore del muro, la passava dall’altra parte, nello stanzone freddo e grigio con un grande Cristo nero e sanguinante che prendeva tutta una parete”.
– Questo libro è come un albero capovolto, con le radici fuori. “… appurato che in ogni albero i rami possono fare da radici e le radici da rami, s’era messo a sperimentar la verità, schiantando gli aranci alti e rigogliosi per ripantarli capovolti: ad uno ad uno tutti gli alberi erano morti”.
– Scambi continui di alleanze. Falso movimento e immobilità, ma dove il movimento generale è dentro l’immobilità.
– Religione e potere. La feroce figura di don Blasco confrontata con quella di Don Abbondio dei Promessi sposi e di Don Pirrone del Gattopardo, libro più morbido e più accettabile, in cui la malinconia prende il posto dell’urlo e del furore, nato da una costola dei Viceré ma che ha avuto un’accoglienza del tutto diversa. (Me lo faceva un giorno Vincenzo Consolo, questo paragone tra le tre figure di preti, mentre camminavamo per le vie di Lille e lui aveva fretta di trovare un gabinetto perché gli scappava.)
– Borbonici e liberali. Trasformismo, arrivismo. Nobiltà, chiesa sempre all’ombra del potere e funzionale ad esso, nuova borghesia. La formazione delle caste politiche. La tragedia italiana della quasi totale mancanza di radicalità e coerenza. I vecchi padroni che diventano i notabili del nuovo corso liberale e “rivoluzionario”.
– Il feto mostruoso conservato in vitro.
– La lotta feroce tra padri e figli, maschi e femmine, mariti e mogli e mariti e padri, e in cui anche la bontà e la mitezza diventano fatalmente colpa.
– Non si può separare una pagina dall’altra. Non c’è “scrittura” come in Flaubert e in Verga.
– La vita è un orrore: ma resta sempre la morte.
– Crudeli e idioti.
– Il problema “Italia” in letteratura, da Dante a Leopardi, a De Roberto, a Gadda, a Pasolini…
– Un affresco tragico in movimento, una macina spietata di vite, un inferno, in cui ogni figura, anche la più piccola, “buca”.
– Nessuna descrizione preliminare dei volti. Solo, dopo molto, qualche piccolo flash da cui si capisce come è fatto il tal personaggio, il tal’altro: ha la barba, i baffi, è piccolo, alto, esile, robusto… Come se l’autore se ne ricordasse all’improvviso o lo “vedesse” solo in quel preciso momento. Diverso anche qui da Verga, che scolpisce subito l’immagine dei personaggi, dei volti. Qui invece tutto è dentro la stessa onda.
– La morte, vera protagonista del libro (che si apre e si chiude con lei) e della vita sociale e del mondo.
– Infinitamente più abbandonato (e nello stesso tempo brillante) del Mastro.
– Come funziona il potere economico-politico e culturale in Italia. Le alleanze sotterranee, le clientele personali, occulte… Cinismo, opportunismo, corruzione, arroganza, ipocrisia, relativismo eletto a sistema e alibi, violenza, crudeltà, squadrismo, doppiogiochismo e “cerchiobottismo”, come si dice adesso, ciarlataneria e trasformismo, l’antica miscela culturale del nostro paese e delle sue caste economiche, politiche e intellettuali comunque riciclate e aggiornate.
– Una massa tumorale senza possibile redenzione.
– Quando esce un libro così, l’Italia, con le sue caste, si chiude a riccio.
– L’intima vigliaccheria nascosta dietro l’arroganza (Non sembra che si stia parlando dell’oggi? Di quello che abbiamo sotto gli occhi in questi anni?) La violenza mafiosa, l’aridità economica: “… egli era il rappresentante degli ingordi Spagnoli unicamente intenti ad arricchirsi, incapaci di comprendere una potenza, un valore, una virtù più grande di quella dei quattrini…”
– Vecchie classi di despoti locali che si riciclano a livello nazionale. Vecchi padroni che si impossessano delle “nuove” strutture politiche, economiche. La cultura che comincia a essere vista come strumento di potere. La casta degli “intellettuali” e il loro ruolo. Membri della stessa famiglia che si collocano diversamente e prendono dentro tutto il gioco politico e il suo teatrino.
– Dopo la macelleria delle anime, quella dei corpi (la morte del capo casata per mano del nuovo potere medico chirurgico).
– Per avere, nella nuova situazione “democratica”, quello che si aveva prima, ora ci vuole anche l’inganno politico. (La nascita degli istituti politici, della “democrazia” e della figura del “politico”. E, dopo una simile nascita, il regime dei notabili, poi quello fascista, poi quello democristiano, fino al blocco attualmente dominante…).
– Un libro straordinario e unico sul piano artistico e di conoscenza. Uno di quei libri crudeli e veri di cui l’Italia e la modernità hanno paura perché le pongono di fronte a uno specchio.
– Lo strepitoso, shakespeariano monologo di Consalvo di fronte alla mummia della vecchia Donna Ferdinanda silenziosa e impietrita, che va avanti per pagine e pagine: “Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: ‘Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio va in Parlamento’. Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta… un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto…”
– La conclusione del lungo monologo pieno di spietato cinismo è questa: “No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.”
– Un libro universale. Per questo fa ancora paura. Più avanti di Zola, più profondo e drammatico e nello stesso tempo anche più leggero. Uno di quegli scrittori di cui si dice che sono nichilisti, che fanno di tutte l’erbe un fascio, per disinnescare le terribili verità che portano in luce.
Prima di morire, De Roberto ha scritto un altro importante romanzo, rimasto incompiuto e pubblicato postumo. Si intitola L’imperio. E’, a mio parere, un libro più statico, fiacco, costruito, paralizzato in una struttura di contrappunti paralleli, senza quella verticalità e libertà compositiva dei Viceré. Lo stesso personaggio di Consalvo (l’ultimo, ambizioso e cinico rampollo degli Uzeda) è solo un debole calco di quello che era nei Viceré. Però contiene a volte pagine di tale disperata e indignata lucidità da farci capire quale fosse lo sguardo del suo autore sulla vita e sul suo tempo.
Ve ne leggo alcuni brani, e forse sembrerà anche a voi di incontrare cose note e discorsi che si ascoltano e si leggono continuamente oggi. Sentite, per esempio, questa giustificazione del trasformismo:
“Prima di mettersi nella vita pubblica, fin da quando per le stravaganze e le liti continue dei suoi parenti era stato nella necessità di lodarli beffandoli tra sé, e di secondare le pretese dell’uno e contemporaneamente quelle dell’altro, Consalvo s’era assuefatto alla finzione; entrato nelle società politiche e nelle amministrazioni municipali aveva fatto strada con questo mezzo, affermando e negando le stesse cose, secondo l’umore dell’uditorio o della maggioranza o di quei pochi che voleva ingraziarsi bordeggiando continuamente, menando tutti pel naso. Talvolta egli aveva pensato: ‘Io sono dunque scettico? Non ho carattere?…’ quasi rimproverandosi questo scetticismo, questa mancanza d’una qualità reputata necessaria ad ottenere la stima del mondo: ma i suoi scrupoli s’erano acquietati all’idea che per riuscire bisogna essere così; che le fedi apparentemente più sincere nascondono, il più sovente, un tornaconto uguale a quello che consiglia i voltafaccia e l’instabilità. Del resto la fermezza in una opinione non può essere segno di cocciutaggine, di angustia di mente?”
Quante volte abbiamo incontrato questi stessi identici ragionamenti su giornali e riviste, sciorinati come se fossero segno di chissà quale grande leggerezza, autoironia, senso della misura, disincanto… mentre sono solo la solita vecchia, trita, micidiale miscela italica di servilismo, opportunismo, trasformismo e arrivismo.
E sentite queste battute di dialogo:
“Il Paese? Con la P grande? Voi ci credete ancora? Caro mio, se voi dite, chi è, dov’è, che cosa fa, dove si può trovare questo signor Paese ve ne sarò grato. Il Paese siamo io e voi, e l’usciere che sta in anticamera, e la signorina che ricopia lettere di là. Il Paese è di tutti, il che vuol dire nessuno. E tanto valgono le nostre idee quanto quelle dei nostri avversarii.”
“Come? Ella crede che siano tutt’uno?”
“Ma sì! Io credo che tutti siamo d’accordo. Noi vogliamo conservare progredendo, gli altri vogliono progredire conservando: la differenza non mi pare un abisso. E’ questione d’intendersi…”
Ma sentite anche quanta disperazione esprime De Roberto, attraverso i pensieri di Federico, l’altro protagonista del libro, alla fine di questo suo ultimo romanzo:
“Allora, che cos’era tutto questo mondo, tutto questo tutto, che pareva un inganno, ma che stava e durava, e premeva ed opprimeva, inesorabilmente? Era il Male. Tutte le forme dell’esistenza, dalle più semplici alle più complicate, erano forme maligne. Ogni atomo della inerte materia era il prodotto d’una irritazione, d’una infezione, d’un processo morboso. La terra, con i suoi piani e i suoi monti, gli appariva come un enorme neoplasma, una mostruosa ipertrofia, una terribile sclerosi; le acque, i rivi, il mare, come un flusso, un catarro, un’iperemia; il fuoco come una febbre. L’alterazione si aggravava con la vita organica. In mezzo agli atomi indolenti, nascevano e crescevano le cellule: da questa superfetazione cominciava la sensibilità, cioè i pungoli, le crispazioni, i brividi, i fremiti, le trafitture, i dolori, gli spasimi. E l’unico fine del processo morboso non poteva essere altro, logicamente, che la necrosi. La vita finiva con la morte perché era tutta un morbo dalle sue prime e più semplici frasi; e perché si manifestava e diffondeva nel corso d’un altro morbo, in mezzo al tumore del mondo. Gli esseri viventi, parassiti e vibrioni di questo tumore, si nutrivano delle sue morte fibre, o si divoravano tra loro; i più perniciosi, i più devastatori erano gli uomini.”

E’ raro ascoltare in Italia una voce così radicale, così necessaria e così disperata. Si preferisce generalmente la schiuma, la schiumetta del caffè che bagna appena le labbra e si può togliere col dorso della mano, prima di posare le labbra su un’altra tazzina. Così anche adesso, alla fine, mi tornano in mente le stesse domande con cui avevo iniziato. Perché in Italia, a differenza che in altri paesi, un capolavoro come i Viceré – se si eccettuano alcune, anche grandi, eccezioni – può cadere in un terreno così sfavorevole e ostile? Perché questo atteggiamento pressoché costante da parte della casta solo diversamente servile dei letterati? Perché in Italia i canoni sono così intangibili? Perché negli stati Uniti – ad esempio – si è riusciti, sia pure dopo mezzo secolo, a disseppellire Moby Dick massacrato alla sua uscita dalla critica del suo paese per la sua originalità, radicalità e complessità, e invece in Italia le sepolture operate dalle caste letterarie sembrano senza appello (l’ultimo, clamoroso caso è Horcynus Orca)? Perché Verga è passato e De Roberto no? Cosa c’è di così intollerabile in questo libro da aver determinato una quasi generale espulsione? Perché, in Italia, una simile paura della radicalità artistica e di pensiero e della coerenza?
Com’è istruttiva la storia dei grandi romanzi italiani dell’Ottocento, anche solo a volersi fermare a quelli! Com’è spesso masochistico, distruttivo e gregario il ruolo della casta dei letterati italiani, funzionale alle ideologie di volta in volta dominanti e invece servile verso le altre letterature, degna erede delle caste dei letterati servi di principi e duchi tirati su nelle corti e ora invece servi del potere “debole” e solo apparentemente disincantato di questa epoca, paurosa sempre di ogni libertà e movimento e indisponibilità e selvatichezza. I promessi sposi, di cui non mi sfugge la grandezza, è stato salvato dal potere cattolico ramificato e dall’uso edificante e sistematico che questo ne ha fatto nelle scuole, imponendolo come libro di testo. Confessioni di un italiano, pur con la sua eloquenza, delicatezza, eccentricità e bellezza, è rimasto là, quasi come se non ci fosse. Non è entrato veramente nel cuore dei lettori italiani – spesso altrettanto assoggettati dei loro rappresentanti critici – come invece è successo, ad esempio, in Francia coi romanzi di Stendhal, in Russia con quelli di Puskin e Lermontov. Pinocchio è stato salvato dai bambini, che hanno aggirato le caste dei letterati e che, attraverso le generazioni, l’hanno letto e se lo sono passato di mano in mano. Così, per merito soprattutto loro, non ha mai smesso di venire ristampato e di vivere. Forse, se non fosse stato per i bambini, noi oggi non sapremmo quasi che questo straordinario e inimitabile romanzo esiste.
Pinocchio. Un altro libro crudele, radicale e sincero, l’unico altro romanzo italiano dell’Ottocento altrettanto radicale dei Viceré.
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Pubblicato in Dieci decimi – Sguardi a ritroso sulla nostra letteratura, Holden Maps – BUR, 14,00, pagg. 188

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