Conversazioni

PREMIO STREGA – Conversazione con Ugo Ricciarelli, su Il Dolore Perfetto, la Scrittura, i Premi letterari … a cura di Michele Infante e Anna Colia

1. Partiamo dal titolo del suo libro, Il dolore perfetto: qual è il dolore di cui parla, e se è perfetto, come è possibile uscirne? E’ possibile un dolore perfetto in una vita di cui tutto si può dire, tranne che vi sia perfezione? C’è qualcosa di altrettanto perfetto da poter opporre al dolore?

L’aggettivo “perfetto” non è da intendersi strettamente in senso migliorativo, quanto piuttosto nell’etimologia latina: condotto a compimento, compiuto. La sofferenza è una parte inalienabile della condizione umana. Non tanto quella fisica, quanto, appunto, quella che scaturisce dalla nostra impossibilità di essere “perfetti”. Sempre e comunque, nel nostro esistere, ci troviamo di fronte, prima o poi, alla pesantezza del vivere, a fare i conti con la nostra condizione, e proprio la consapevolezza del dolore (o come direbbe Gadda, la cognizione del dolore) è uno strumento di conoscenza, un motore di vita. Mi interessava questo tema soprattutto oggi, in un’epoca nella quale mi pare che si cerchi di negare questa condizione, nel senso che viene sempre di più “spacciata” l’idea che la vita sia e debba essere facile, facile lo studio, facile il lavoro, che tutto in fondo si stemperi in un sorriso, in luci e paillettes. Non è così.

2. Perché ha scritto un romanzo così pieno di sofferenza? Viene da chiedersi se non sia il frutto di un periodo della sua vita particolarmente doloroso… si può paragonare l’asma che affligge il protagonista del suo primo romanzo Le scarpe appese al cuore con i problemi respiratori di Sole? […NDR] Se sì, quale il significato recondito di tali problemi fisici; quale altro disagio nascondono, quanto, o non troppo ovvio, il peso della propria “corpolarità” e “biologicità”?

Credo in parte di aver già risposto. Inoltre vorrei insistere sul fatto di non separare il dolore fisico dalla “sofferenza” in genere, da quel senso di inadeguatezza che deriva proprio dalla nostra condizione umana. Non ho mai creduto, poi, a una divisione netta, quasi cartesiana, tra il corpo e la mente: la malattia fisica è, secondo me, soltanto l’aspetto ultimo di una sofferenza interiore e profonda. Anzi, credo proprio che l’insistere sulla separazione tra i due piani ci privi di importanti elementi di conoscenza.

3. Il suo romanzo sembra inserirsi nel filone del “romanzo storico”. Condivide questa definizione? Alcuni, critici e scrittori, ritengono discutibile “rifugiarsi nel passato storico” invece di produrre narrazioni che raccontino il presente. Tuttavia, il “romanzo storico” riscuote, o continua a riscuotere, un certo successo.

Non ho mai pensato a questo romanzo come a un romanzo strettamente “storico”, anche perché, come ho detto, uno dei punti da cui sono partito si riferiva piuttosto a un’indagine sul senso dell’esistenza, della nostra condizione. C’è però un’altra immagine sulla quale questa storia si è srotolata, ed è quella della mia nonna paterna che mi racconta le strie della mia famiglia, restituendomi attraverso le parole, la narrazione orale delle piccole storie, il senso di una Storia più ampia, che in fondo è quella del nostro Paese. Proprio per questo ho cercato di alzare l’orizzonte della narrazione spostandolo indietro di molti anni, convinto che questo partire da lontano non sia un allontanarsi dal presente ma, al contrario, proprio come accade quando si sale su una collinetta e si guarda il paesaggio, ci possa servire per avere nuovi elementi di riflessione su quello che oggi noi siamo, e siamo diventati. Probabilmente è lo stesso motivo per cui, ultimamente, molti autori hanno riutilizzato la Storia come elemento di indagine letteraria. Forse c’è l’esigenza, appunto, di alzare lo sguardo dal nostro ombelico, dal minimalismo quotidiano, e provare anche a ritornare sulla memoria collettiva, sull’indagine attorno alla nostra identità storica, ad altri elementi che possano fornirci nuovi spunti di indagine.

4. Oggi, esistono ancora famiglie come quelle di cui si parla nel suo libro come la Bartoli e Bertorelli? Chi sono? C’è la possibilità, come nel romanzo, che si incontrino?

“Il dolore perfetto” è, in qualche modo, anche una grande “fiaba” e proprio come nelle fiabe la narrazione si struttura attraverso situazioni e personaggi con una forte carica simbolica o emblematica. E’ il caso delle due famiglie che, potremmo dire rappresentino due anime del nostro Paese. Una, quella della famiglia del Maestro, idealista, utopista, legata ai sogni; l’altra, quella dei commercianti di maiali, più concreta, materiale, opportunista. Sono anime che realmente hanno caratterizzato una lunga parte della nostra Storia, e che, addirittura l’hanno determinata attraverso l’intrecciarsi delle loro dinamiche. Credo che oggi la situazione sia un po’ differente. Manca quasi del tutto, per esempio, la spinta ideale delle grande utopie, e i contorni dei tratti “sociali” (come ha insegnato Pasolini) si sono confusi, mischiati, deteriorati, generando una situazione molto più complessa.

5. Si è fatto il nome di Verga ed di altri autori: c’è qualche opera letteraria cui si è ispirato per la realizzazione di questo romanzo? In particolare, che tipo di lettore è Ugo Riccarelli?

Francamente non ho scritto tenendo un punto di riferimento preciso. E’ chiaro che scrivere oggi, nel 2000, significa portare con sé una quantità di suggestioni, di idee, di insegnamenti che trovano e hanno punti di ispirazione e di contato con quanto è stato già scritto. Così lascio volentieri ai critici e ai lettori il gioco di trovare punti di convergenza con altri autori. Per questo romanzo sono stati tirati in ballo Verga, Garcia Marquez, la Morante, Cassola, riferimenti che non possono che farmi piacere e che probabilmente, ognuno per la propria parte, sono stati effettivamente importanti esempi. Sono tra l’altro autori che ho letto e che amo. Sono un lettore onnivoro, appassionato, che ha trovato nella lettura un riparo alla noia e al disagio di un’infanzia afflitta da una salute cagionevole. E ancora oggi, mi abbandono più facilmente al piacere della lettura che alla fatica dello scrivere.

6. Dal romanzo gli ideali escono sconfitti, ma anche esaltati: a suo parere quanto serve averne? Quali sono quelli in cui crede e quali pensa siano quelli della nostra società?

Credo che i sogni, gli ideali, i desideri, siano il motore della vita e che, in fondo, non sia tanto importante raggiungerli, quanto non perderli di vista, e usarli come un motore della nostra esistenza, come uno strumento di conoscenza. A me è sempre interessato l’uomo, la curiosità per le sue idee, il modo di esprimerle, la varietà dei colori e delle forme dell’umanità. Ritengo che sia fondamentale battersi per salvaguardare questi valori: il rispetto reciproco, la possibilità di conoscenza, l’offrire a ogni persona quella dignità indispensabile a compiere la propria ricerca.

7. L’arrivo sconvolgente del progresso e il sorgere del socialismo scientifico sono strettamente collegati anche nel romanzo. La visione pessimistica del progresso che emerge dal libro corrisponde alla sua visione? Rinnegherebbe il progresso per una vita più tranquilla e in sintonia con la natura, magari andare a lavare i panni al ruscello, scrivere ancora con il calamaio, etc.?

Non ho un rifiuto totale del progresso. Piuttosto un ragionamento critico verso quelle posizioni eccessivamente positivistiche che hanno messo e ancora mettono la modernità al di sopra di tutto. E’ chiaro che le innovazioni tecnologiche, le conoscenze scientifiche, hanno fornito buone opportunità per il miglioramento della vita, ma ogni giorno tocchiamo con mano quanto questo ci stia costando. In particolare mi riferisco all’esasperazione e a una certa “idolatria” tecnologica che rende le macchine e il rapporto con le macchine (per esempio il telefonino) quasi patologico, fuorviante. “Il dolore perfetto” non va letto solo in chiave di lamento malinconico verso un passato “ingenuo” che ora non c’è più, ma come la realistica necessità di non scordare le origini, di non negare noi stessi per legarci a qualcosa che non ci appartiene.

8. Nel suo libro, la scena del maestro appena diplomato che non riesce a proferire parola con i contadini che lo festeggiano è in contraddizione con l’immagine del vitello sciolto che simboleggia il maestro dinanzi al padre: è una critica agli utopisti rivoluzionari del tempo, pieni di ideali e motivazione, ma che dinanzi al popolo sembravano smarrirsi?

Non precisamente. Quell’immagine è la proiezione di quanto crede di vedere il padre del Maestro, un aiuto fattore che non riesce neppure a concepire l’idea della ribellione. Certo è che i rivoluzionari del tempo avevano una grande componente di ingenuità e di idealismo che se da una parte mi piace guardare quasi con tenerezza, da un punto di vista storico politico va considerata con un buon grado di critica.

9. Il suo è un classico romanzo da Primo Strega, come c’è la canzone di Sanremo per il festival di Sanremo, o come c’è il film da Mostra per il Festival del Cinema di Venezia. Le importa essere apprezzato nella sua categoria e/o che le categorie sono inevitabili, per gli uomini, come per i prodotti e come sappiamo sono alla base dei concetti, del pensiero… o pensa più romanticamente sarebbe meglio pensare un romanzo, come romanzo, ha e come sempre ha avuto una sola categoria universale… quale?

Io credo che la scrittura, in quanto letteratura, sia per un autore una vera e propria forma di ricerca. Così, nei precedenti quattro libri, credo di aver compiuto un cammino che mi ha portato a usare la struttura di un romanzo “classico”, di ampio respiro, con molti personaggio e un intreccio complesso, per affrontare i temi di cui abbiamo parlato sopra. Personalmente, dunque, non ho scritto con l’idea di un “format” per un Premio o per l’altro, anche perché credo che non sia onesto farlo. Tutto questo viene dopo. La Casa Editrice ha ritenuto che questo fosse un buon libro, che avesse buone chances per quel Premio, e così è nata la partecipazione allo Strega. Sarei ipocrita se dicessi che mi è stata indifferente la vittoria. Non è così. Scrivere il proprio nome in un buon Albo d’Oro è sempre piacevole, ma non determinante, perché comunque il senso di tutto sta nel libro, nello scrivere. Nel romanzo e nei romanzi che dovrò scrivere domani.

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