Conversazioni

SU NUOVI TENTATIVI ITALIANI AL ROMANZO INDUSTRIALE Conversazione con Marco Dezio, di Michele Infante

1. Il tuo libro Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli) può essere definito un romanzo industriale, intendendo per romanzo industriale quello che colloca le storie e le vicende dei personaggi all’interno di un preciso contesto socio-economico, mettendone in evidenza i problemi e le vicissitudini. Ma c’è un “come” si dovrebbe pensare oggi la fabbrica, oppure bisogna leggere il libro come una denunzia o tutt’al più come una testimonianza?

Mi sta bene la definizione di romanzo industriale o anche sociale; il trattamento a cui ho sottoposto la mia vicenda personale è una proiezione di ciò che ho visto,mediata da uno stile (ogni volta che rappresenti operi una distorsione nei fatti) nel tentativo di raccontare (meglio, rabberciare, con “licenza poetica”) quest’illusione: la realtà. La fabbrica subentra anche come metodo di narrazione: assemblaggio di fatti veri, dialoghi e accadimenti uniti a quel tanto che basta di fiction, che poi è il collante che doveva tenere assieme tutti questi pezzi che avevo raccolto. Il messaggio, se così si può dire, è che si è vittime delle proprie scelte. Che tutto questo può capitare soprattutto a chi parte da una bassa estrazione sociale: chi vuole può riflettere anche sul sistema scolastico che sforna queste risorse umane (menti infilate in un tritacarne come nel video The Wall di Alan Parker), sui sistemi (e rapporti di forza) con cui vengono valutati questi individui quando reclamano di avere accesso al mondo del lavoro. Registrare i fatti… ma quand’anche mi astenessi dall’esprimere un giudizio su come la vedo, la selezione o compilation di fatti narrati permetterebbe comunque al lettore di farsi un’idea su come la penso. Io ci sono dentro in quello che racconto. Ma non ho messaggi di saggezza da dare.

2. “Donnarumma all’assalto” di Ottiero Ottieri è considerato il primo libro di letteratura industriale. Nelle storie di e su di un operaio in fabbrica da Donnarumma a Nicola Rubino, cosa è cambiato?

Ai tempi di Ottieri c’era il cottimo e adesso c’è ancora il cottimo, solo che lo chiamano lavorare a progetto (forse neanche più co.co.co). C’erano i braccianti che si riunivano in piazza per essere scelti per raccogliere i pomodori dai caporali mentre adesso qualche volta arriva una chiamata per telefono che ti dice che c’è una prestazione da fare, da qualche parte (ultima offerta che mi hanno fatto gli interinali: addetto alle pulizie. Altre volte non vedono l’ora di mandarmi su in fabbrica al nord). Prima le campagne si spopolavano nel nome della certezza del posto fisso, ora il posto fisso è solo un miraggio ma bisogna guardare sempre al futuro con ottimismo. Futuro – tabellone luminoso, nodo scorsoio – dappertutto. Un sacco di eufemismi, insomma… La ritroviamo, questa massa bruta di dati (adesso solo statistici) quasi cinquant’anni dopo, bombardata dall’esposizione televisiva, nei rapporti tra precariato (definizione aggiornata di proletariato) e potere dei padroni e sue ramificazioni (manager, direttori di stabilimento, selezionatori del personale)… La gente nel nostro tempo, quella che incontro per strada o con cui devo confrontarmi, odiare e farmi odiare sulla postazione di lavoro. Gente che sa tutto degli amori di Costantino e Alessandra, che non legge libri o al massimo quelli dei comici.
Le fabbriche sono sempre esistite, epperò la letteratura aveva smesso di occuparsene, dal di dentro: e dal di dentro è cambiato molto, cambiati i mezzi di produzione, ci sono computer che velocizzano di molto le operazioni, si stanno perfezionando sistemi di controllo sul dipendente (quand’anche provvisorio o stagista), si verificano (almeno adesso si sa con che nome chiamarle su scala, ad esempio mobbing) delle dinamiche di sopraffazione sul più debole che non è riuscito a inserirsi nel gruppo di lavoro o team. Il più delle volte maschi. Ah, non ci si sporca più come prima e non si indossa più la tuta blu, ma la divisa coi colori della multinazionale… Non ho scritto di una fabbrica qualsiasi (gran parte dei casi le piccole imprese continuano a produrre ancora con metodi tayloristi e
non si adeguano alle norme previste dalla comunità europea, non adottano sistemi di sicurezza e prevenzione adeguati) ma di ciò che avviene in una grossa, oppressiva organizzazione. Un’accolita di esaltati mentali. La retorica dell’ottimismo sul futuro. Lavorare con velocità e pagati a poco
prezzo.

3. Mi sia permessa una provocazione, e forse una banalità. Perché scrivere un libro sugli operai quando gli operai non leggono libri?

Vengo da quell’esperienza lì, non puntavo certo a un target. Zola forse si poneva il problema quando parlava di operai e contadini e prostitute? Alla fine, il referente, colui che legge (o lettore forte), sarà sempre colto e istruito. Ma non sottovaluterei la categoria. Magari tra quelli c’è chi
legge pure (laureati che non hanno trovato altro, ad esempio), ci saranno ci sono senz’altro altri Nicola Rubino là dentro. Conto molto sugli insoddisfatti “consapevoli”, e ci sono. Poi la massa; se questi ex “compagni” della fabbrica per cui ho lavorato sapessero, venderei moltissime copie. Almeno un migliaio. Parlando di target, non bisogna mai sottovalutare la curiosità malevola, il pettegolezzo. Bisogna far leva su quello per arrivare eventualmente agli operai. E poi. Descrivendo un ambiente unico di lavoro non è detto che non si parli della realtà di tutti.

4. Cosa ha letto Dezio, e cosa legge oggi. Cosa pensa della letteratura italiana contemporanea? Ha qualcosa di nuovo da dire e come vuole dirlo?

I miei riferimenti letterari di sempre sono soprattutto due, Céline e Bret Easton Ellis. Poi si sono aggiunti Houellebecq, Vollmann, De Lillo e qualche scrittore avant-pop americano… ma non stravedo per il genere. Poi Irvine, Welsh, Selby Jr… Un posto di riguardo ovviamente meritano Volponi, Balestrini, Testori… Di recente. Stavo leggendo il libro di Lethem. Per adesso posso solo dire che ottimamente ben scritto ma non mi sembra questo gran capolavoro. Troppi riferimenti alla loro cultura… Mi hanno passato il libro di Nicola Lagioia (al momento sto leggendo quello) – che parrebbe essere un Wallace. Certo il suo non lo inscriverei nella categoria del romanzo sociale… Mi piacerebbe leggere Il libro di Ali Smith (non ricordo il titolo ma è uscito per minimum fax). Fino a qualche mese fa avevo fregola di leggere qualsiasi cosa di Palahniuk (ora invece no, quanto di più lontano) o della Homes (e pure quella, al momento non mi entusiasma più leggerla).
Quest’estate ho letto De Silva di “Certi Bambini” e, di seguito, Braucci di “Una barca di uomini impossibili” (o qualcosa del genere come titolo, adesso non ce l’ho sottomano). Poi, vediamo… Vorrei leggere altro di Vonnegut e Gombrowicz. Leggerò il Moresco de gli “Esordi”.
Quelli che ho citato finora – italiani – meritano senz’altro la lettura. Non saprei dire se ho letto tutto quello che c’era da leggere per farmi un giudizio sulla letteratura italiana… quindi non vorrei dire grosse stronzate in materia. Non sono un letterato, sono un lettore (forte, mi auguro) come tanti – e dispongo di un budget modestissimo. E da lettore mi auguro che ci siano più storie che entrano nel sociale, che abbiano un punto di vista dal basso… che raccontino la gente, così com’è ora. I protagonisti nella gran parte delle storie che leggo raramente sono alle prese coi problemi contingenti… (parole che girano tutte come dovrebbero, incapaci di trasmettermi sofferenza, di farmi davvero male)… è borghese, benestante, iperistruita. I prodigiosi parolieri non le mancano. Il protagonista o i protagonisti fanno dei lavori bellissimi, in ambienti raffinati… Scopano parecchio, con tutti: qualità della vita al massimo grado. Ecco, questa realtà che si vuol raccontare non ti prende veramente a calci in culo. Non te la fa puzzare, o detestare, la vita. Mica si deve per forza,
intendiamoci… Come se la passa un disoccupato?… e quanto gli girano i coglioni quando non riesce a trovare niente di niente? Ecco, potrei aver fame di queste testimonianze qui. Sono fissato con queste tematiche…
Prossimo materiale? Ho delle idee che ho abbozzato, ma siamo appena all’inizio: “ho tutto in testa ma non riesco a dirlo”, direbbe Manuel Agnelli. Quando si saranno smorzati i riflettori, le interviste e gli impegni sulla storia operaia e calerà il silenzio comincerò a pormi di fronte a questa sfida, coi miei mezzi… perché non è ancora finita.

Admin

Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE