Critica letteraria

SULLA SUPERIORITA’ DELLA LETTERATURA ANGLOAMERICANA di Gilles Deleuze – Parte II

Il grande errore, il solo errore, sarebbe quello di credere che una linea di fuga consista nel fuggire la vita; la fuga nell’immaginario o nell’arte. Ma fuggire al contrario significa produrre del reale, creare vita, trovare un’arma. Generalmente, è in un unico falso movimento che la vita viene ridotta a qualcosa di personale e che l’opera viene concepita come se potesse trovare in se stessa il proprio fine, sia quale opera totale, sia quale opera in via di costruzione, e che rinvia sempre a una scrittura della scrittura. Ecco perché la letteratura francese abbonda in manifesti, in ideologie, teorie della scrittura, e allo stesso tempo in diatribe personali, messe a punto di messe a punto, compiacimenti nevrotici, tribunali narcisistici. Gli scrittori fanno della loro vita un sudicio tugurio personale, e contemporaneamente trovano la loro terra, la loro patria, tanto più spirituale, nell’opera che vanno costruendo. Sono contenti di puzzare, dal momento che quel che scrivono è tanto più sublime e significante. Spesso la letteratura francese si rivela come il più sfrontato elogio della nevrosi. L’opera sarà tanto più significante, quanto più rinvierà alla strizzata d’occhi e al piccolo segreto nella vita; e lo stesso vale inversamente. Bisogna ascoltare i critici qualificati parlare dei fallimenti di Kleist, delle impotenze di Lawrence, delle puerilità di Kafka, delle fanciulle di Carroll. E’ ignobile. E sempre con le migliori intenzioni del mondo: l’opera apparirà tanto più grande, quanto più la vita sarà stata resa miserabile. In questo modo non si corre più il rischio di vedere la potenza della vita attraversare l’opera. Tutto è stato annientato in anticipo. E’ lo stesso risentimento, lo stesso piacere della castrazione che anima il grande Significante come finalità proposta dell’opera, e il piccolo Significato immaginario, il fantasma, come espediente suggerito della vita. Lawrence rimproverava alla letteratura francese di essere inguaribilmente intellettuale, ideologica e idealista, essenzialmente critica, critica della vita, piuttosto che creatrice di vita. Il nazionalismo francese nelle lettere: una terribile mania di giudicare e di essere giudicati percorre questa letteratura; ci sono troppi isterici fra simili scrittori e i loro personaggi. Odiare, voler essere amato, ma una grande impotenza ad amare e ad ammirare. In verità lo scrivere non ha un fine in se stesso, proprio perché la vita non è qualcosa di personale. O meglio, lo scopo della scrittura è quello di portare la vita allo stato di una potenza non personale. La scrittura abbandona così ogni territorio, ogni fine che risiederebbe in se stessa. Perché si scrive? Il fatto è che non si tratta di scrittura. Può darsi che lo scrittore abbia una salute fragile, una costituzione debole. Ciò non toglie che sia proprio l’opposto del nevrotico: un uomo pieno di vita (come Spinoza, Nietzsche o Lawrence), anche se è soltanto troppo debole per la vita che lo attraversa o gli affetti che passano in lui. Scrivere non ha altra funzione: essere un flusso che si congiunge con altri flussi – tutte le forme di divenire-minoritario del mondo. Un flusso è qualcosa di intensivo, istantaneo e mutante, fra una creazione e una distruzione. Soltanto quando un flusso è deterritorializzato riesce ad attuare la propria congiunzione con altri flussi che lo deterritorializzano a loro volta e viceversa. In un divenire-animale si congiungono un uomo e un animale, che non si assomigliano affatto l’uno all’altro e non si imitano a vicenda, mentre invece ciascuno deterritorializza l’altro e spinge più lontano la linea. Sistema di sostituzioni e di mutamenti attraverso il mezzo. La linea di fuga crea queste forme di divenire. Le linee di fuga non hanno territorio. La scrittura opera la congiunzione, la trasmutazione dei flussi, attraverso i quali la vita sfugge al risentimento delle persone, delle società e dei regni. Le frasi di Kerouac sono sobrie come un disegno giapponese, pura linea tracciata da una mano senza supporto e che attraversa le età e i regni. Ci vuole un vero alcolista per raggiungere una simile sobrietà. Oppure la frase-landa, la linea-landa di Thomas Hardy: non è che la landa si presenti come il soggetto o la materia del romanzo, ma un flusso di scrittura moderna si congiunge con un flusso di landa immemorabile. Un divenire-landa; oppure il divenire-erba di Miller, ciò che lui chiama il suo divenire-Cina. Virginia Woolf e la sua capacità di passare da un’età a un’altra, da un regno all’altro, da un elemento a un altro: ci voleva l’anoressia di Virginia Woolf per arrivare a questo? Non si scrive altro che per amore, ogni scrittura è una lettera d’amore: la Reale-letteratura. Si dovrebbe morire solo per amore e non di una morte tragica. E bisognerebbe scrivere solo per questa morte, o cessare di scrivere solo per questo amore, o continuare a scrivere, le due cose insieme. Non conosciamo un libro d’amore più importante, più insinuante, più grandioso dei Sotterranei di Kerouac. Lui non si domanda “che significa scrivere?”, proprio perché ne ha tutta la necessità; è l’impossibilità di un’altra scelta a creare la scrittura stessa, a condizione però che la scrittura a sua volta si costituisca di già per lui come un altro divenire; o a condizione che venga da un altro divenire. La scrittura: mezzo per una vita più che personale, invece di costituire la vita come un povero segreto per una scrittura che non avrebbe altro fine al di fuori di sé. Ah sì, la miseria dell’immaginario e del simbolico, con un reale che viene sempre rimandato a domani!

Parte seconda

L’unità reale minima non è costituita dalla parola, dall’idea o dal concetto, e nemmeno dal significante, bensì dal concatenamento. E’ sempre un concatenamento a produrre gli enunciati. Questi ultimi non hanno per causa un soggetto che fungerebbe come soggetto d’enunciazione, e nemmeno si rapportano a dei soggetti, quali soggetti d’enunciato. L’enunciato è il prodotto di un concatenamento, sempre collettivo, che mette in gioco, in noi e fuori di noi, popolazioni, molteplicità, territori, pluralità di divenire, affetti, avvenimenti. Il nome proprio non designa un soggetto, ma qualcosa che accade almeno tra due termini che a loro volta non sono soggetti, ma agenti, elementi. I nomi propri non sono nomi di persona, ma di popoli e tribù, di faune e flore, di operazioni militari o di tifoni, di collettivi, società anonime e uffici di produzione. L’autore è sì un soggetto di enunciazione, ma non lo scrittore, che non è un autore. Lo scrittore inventa dei concatenamenti a partire dai concatenamenti che l’hanno inventato, fa passare una molteplicità in un’altra. Il difficile è riuscire a far cospirare tutti gli elementi di un insieme non omogeneo, farli funzionare insieme. Le strutture sono legate a condizioni di omogeneità, ma non i concatenamenti. Un concatenamento significa co-funzionamento, “simpatia”, simbiosi. Credete alla mia simpatia. La simpatia non è un vago sentimento di stima o di partecipazione spirituale, ma al contrario è lo sforzo o la penetrazione dei corpi, odio o amore, dal momento che l’odio è anche una mescolanza, così che la simpatia risulta essere un corpo, e funziona bene solo quando si mescola a ciò che odia. La simpatia sono i corpi che si amano o si odiano, e ogni volta, in questi corpi o su questi corpi, si trovano delle popolazioni in gioco. I corpi possono essere fisici, biologici, psichici, sociali, verbali, in ogni caso son sempre dei corpi o dei corpus. L’autore invece, in quanto soggetto d’enunciazione, è innanzitutto uno spirito: tavolta egli si identifica con i suoi personaggi, o fa in modo che noi ci identifichiamo con essi oppure con l’idea di cui sono portatori; talvolta al contrario introduce una distanza che permette a lui e a noi di osservare, criticare, prolungare. Ma questo non va bene. L’autore crea un mondo, ma non esiste un mondo che sia in attesa di noi per poter essere creato. Né identificazione né distanza, né prossimità né allontanamento, perché, in ogni caso, si è portati a parlare per, al posto di… Al contrario bisogna parlare con, scrivere con. Con il mondo, con una parte di mondo, con la gente. Niente affatto un colloquio, ma una cospirazione, uno scontro di amore o di odio. Nella simpatia non c’entra alcun giudizio, ma solo convenienze fra corpi di ogni natura. “Son tante le forme di simpatia: amore, odio o semplice vicinanza. E quante sfumature dall’odio più violento all’amore più acceso!”.

9. Questo significa concatenare: essere nel mezzo, sulla linea d’incontro di un mondo interno e di un mondo esterno. Essere nel mezzo: “La cosa più importante per il genio consiste nel rendersi inutile, nel lasciarsi assorbire dalla corrente comune, nel divenire nuovamente un pesce e non uno scherzo di natura. Il solo vantaggio, mi dissi, che lo scrivere avrebbe potuto offrirmi, sarebbe consistito nell’eliminare le differenze che mi separavano dal mio simile”.

10.Bisogna dire che è il mondo stesso che ci tende le due trappole della distanza e dell’identificazione. Ci sono molti nevrotici e folli nel mondo, i quali non ci mollano fino a quando non sono riusciti a ridurci al loro stato, a trasmetterci il loro veleno, gli isterici, i narcisisti, il loro subdolo contagio. Sono molti i dottori e gli scienziati che ci invitano ad assumere uno sguardo scientifico asettico, da veri folli, paranoici. Bisogna resistere alle due trappole, quella che ci tende lo specchio dei contagi e delle identificazioni, e quella che ci indica lo sguardo dell’intendere. Ma noi non possiamo che concatenare fra i concatenamenti. Abbiamo solo la simpatia per lottare, e per scrivere, diceva Lawrence. Ma la simpatia non è nulla, è un corpo a corpo, un odiare ciò che minaccia e infetta la vita, un amare là dove la vita prolifera (niente posterità né discendenza, bensì proliferazione…). No, dice Lawrence, voi non siete il piccolo Esquimese che passa, giallo e unto, non dovete prendervi per lui. Ma forse avete a che fare con lui, avete qualcosa da concatenare con lui, un divenire-esquimese che non consiste nel fare l’Esquimese, nell’imitarlo o nell’identificarvi, nell’assumere l’Esquimese, ma nel concatenare qualcosa fra lui e voi: perché voi potete divenire esquimese solo se l’Esquimese diviene lui stesso un’altra cosa. Lo stesso vale per i folli, i drogati, gli alcolizzati. Ci si obietta: con la vostra miserabile simpatia vi servite dei folli, fate l’elogio della follia, e poi li lasciate precipitare mentre voi restate sulla riva… Ma non è vero. Noi cerchiamo di togliere dall’amore ogni possessione, ogni identificazione, proprio per divenire capaci di amare. Cerchiamo di estrarre dalla follia la vita contenuta in essa, pur odiando i folli che non cessano di far morire questa vita, di rivolgerla contro se stessa. Cerchiamo di estrarre dall’alcool la vita che contiene, senza metterci a bere: la grande scena della sbornia con l’acqua pura, in Henry Miller. Astenersi dall’alcool, dalla droga, e dalla follia, questo è il divenire, il divenire-sobrio, per una vita sempre più ricca. Questa è la simpatia, concatenare. Farsi il proprio letto, l’opposto di far carriera, non essere un istrione delle identificazioni, né il freddo dottore delle distanze. Se uno da sé si fa il letto e vi si corica, nessuno verrà a rimboccargli le coperte. Troppa gente vuole essere rimboccata, o da una gran mamma identificatrice, o dal medico sociale delle distanze. Sì, sì, che i folli, i nevrotici, gli alcolisti, i drogati, i contagiosi, se la cavino come possono, la nostra simpatia significa anche che questo non è affar nostro. Bisogna che ciascuno percorra la sua strada. Ma esserne capaci, questo sì che è difficile.

Una regola per queste conversazioni: più un paragrafo è lungo, e più è conveniente leggerlo molto in fretta. Le ripetizioni dovrebbero funzionare come accelerazioni. Certi esempi si ripetono costantemente: vespa e orchidea, oppure cavallo e staffa… si potrebbe proporne molti altri. Ma il ritorno dello stesso esempio dovrebbe produrre una precipitazione, anche a costo di una stanchezza del lettore. Un ritornello? Ogni musica e ogni scrittura fa questo percorso. E’ la conversazione stessa che risulterà un ritornello.

Sull’empirismo. Perché scrivere, perché aver scritto sull’empirismo, e in particolare su Hume? Il fatto è che l’empirismo è come il romanzo inglese. Non si tratta di fare un romanzo filosofico e neanche di mettere della filosofia in un romanzo. Si tratta di fare della filosofia da romanziere, essere un romanziere in filosofia. Si definisce spesso l’empirismo come una dottrina secondo la quale l’intelligibile “viene” dal sensibile, tutto ciò che appartiene all’intelletto deriva dai sensi. Ma questo è il punto di vista della storia della filosofia: avere la capacità di soffocare ogni forma di vita, col cercare e col porre un principio primario astratto. Ogni volta che si crede in un grande principio primario, non si possono produrre altro che dualismi sterili e grossolani. I filosofi vi si lasciano volentieri accalappiare e si mettono così a discutere attorno a ciò che dovrebbe costituirsi come principio primario (l’Essere, l’Io, il Sensibile?…). Ma non è veramente il caso di mettersi a invocare la concreta ricchezza del sensibile, se si tratta poi di farne un principio astratto. In realtà, il principio primario è sempre una maschera, una semplice immagine, qualcosa che non esiste; le cose cominciano a muoversi e ad animarsi solo a livello del secondo, terzo, o quarto principio, e a questo punto non sono neanche più dei principi. Le cose non cominciano a vivere che nel mezzo. A questo proposito, cos’è che gli empiristi hanno scoperto, non nella loro testa, ma nel mondo, cos’è che è come una scoperta vitale, una certezza della vita, qualcosa che cambia il modo stesso di vivere, nel caso che uno vi si appigli veramente? Non è affatto il problema di sapere se l’intelligibile viene dal sensibile, ma una questione completamente diversa: quella delle relazioni. Le relazioni sono esterne ai loro termini. “Pietro è più piccolo di Paolo”, “il bicchiere è sulla tavola”: la relazione non è interna né a uno dei due termini che risulterebbe quindi il soggetto, né all’insieme dei due. Non solo, una relazione può anche cambiare indipendentemente da un cambiamento dei termini. Si obietterà che il bicchiere risulta forse modificato allorché lo si sposta dalla tavola, ma questo non è vero: le idee di bicchiere e di tavola non sono modificate, e sono queste i veri termini della relazione. Le relazioni si trovano nel mezzo, ed esistono come tali. Una simile esteriorità delle relazioni non è un principio, ma una protesta vitale contro i principi. In realtà, se si vede qui qualcosa che attraversa la vita, ma ripugna al pensiero, allora si deve forzare il pensiero a pensarla, facendone il punto di allucinazione del pensiero, una sperimentazione che fa violenza al pensiero. Gli empiristi non sono dei teorici, ma degli sperimentatori: non interpretano mai, non hanno principi. Se si assume come filo conduttore, o come linea, questa esteriorità delle relazioni, si può vedere dispiegarsi, pezzo per pezzo, un mondo molto strano, un mantello d’Arlecchino o un patchwork, fatto di pieni e di vuoti, di blocchi e di rotture, attrazioni e distrazioni, sfumature e asprezze, congiunzioni e disgiunzioni, alternanze e intrecci, addizioni di cui non si fa mai la somma, sottrazioni il cui resto non è mai stabilito. Vi si può vedere bene come ne derivi il principio pseudo-primario dell’empirismo, e cioè quale limite negativo sempre respinto, una maschera messa all’inizio: in effetti, se le relazioni sono esterne e irriducibili ai loro termini, la differenza non può essere fra il sensibile e l’intelligibile, fra l’esperienza e il pensiero, fra le sensazioni e le idee, ma soltanto fra due specie di idee, o due specie di esperienze, quella dei termini e quella delle relazioni. La famosa associazione di idee non si riduce certamente alle piattezze che la storia della filosofia ha in seguito fissato riguardo ad essa. In Hume, ci sono le idee, poi le relazioni fra queste idee, relazioni che possono variare senza che varino le idee, e quindi ancora le circostanze, azioni e passioni, che fanno variare tali relazioni. Tutto un “concatenamento-Hume”, che assume le più diverse figure. Per diventare proprietario di una città abbandonata, bisogna toccarne la porta con la mano, o è sufficiente lanciare da lontano il proprio giavellotto? Perché in certi casi il sopra prevale sul sotto, e in altri casi è invece il contrario (il sole prevale sulla superficie, ma la pittura sulla tela, ecc.)? Sperimentate: ogni volta si dà un concatenamento di idee, relazioni e circostanze: ogni volta ci si imbatte in un vero romanzo, dove il proprietario, il ladro, l’uomo col giavellotto, l’uomo dalla mano nuda, il coltivatore, il pittore, prendono il posto dei concetti.

Questa geografia delle relazioni è ancora più importante dal momento che la filosofia, la storia della filosofia è ingombrata dal problema dell’essere, dell’è. Si discute sul giudizio di attribuzione (il cielo è blu) e sul giudizio di esistenza (Dio è), il quale presuppone l’altro. Ma si tratta sempre del verbo essere e della questione del principio. Son quasi soltanto gli inglesi e gli americani ad essere riusciti a liberare le congiunzioni, e a riflettere sulle relazioni. Il fatto è che essi hanno in rapporto alla logica un atteggiamento speciale: non la concepiscono come una forma originaria che racchiuderebbe i principi primari; loro ci dicono al contrario: la logica, o sarete costretti ad abbandonarla, oppure sarete portati a inventarne una! La logica è esattamente come la strada maestra, non ha inizio e nemmeno fine, non ci si può fermare. Per la precisione, non basta fare una logica delle relazioni, non basta conoscere i diritti del giudizio di relazione come sfera autonoma, distinta dai giudizi di esistenza e di attribuzione. Perché non c’è ancora nulla che impedisca alle relazioni, tali quali sono evidenziate dalle congiunzioni (ora, dunque, ecc.), di rimanere subordinate al verbo essere. Tutta la grammatica, ogni sillogismo, sono un mezzo per mantenere la subordinazione delle congiunzioni al verbo essere, per farle gravitare attorno ad esso. Bisogna spingersi più lontano: fare in modo che l’incontro con le relazioni penetri e corrompa tutto, mini l’essere, lo faccia vacillare. Sostituire la e all’è. A e B. La e non è neanche una relazione o una congiunzione particolare, è ciò che sottende tutte le relazioni, la strada di tutte le relazioni; ciò che fa filare le relazioni fuori dai loro termini, come pure dall’insieme dei loro termini, e da tutto ciò che potrebbe essere considerato quale Essere, Uno o Tutto. La e come extra-essere, inter-essere. Le relazioni potrebbero ancora stabilirsi fra i loro termini, o fra due insiemi, dall’uno all’altro, ma la e dà un’altra direzione alle relazioni, fa fuggire i termini e gli insiemi, gli uni e gli altri, sulla linea di fuga che essa crea attivamente. Pensare con e, invece di pensare è, di pensare per è: l’empirismo non ha mai avuto altro segreto. Provate, è un pensiero assolutamente straordinario, ed è tuttavia la vita. Gli empiristi pensano così, è tutto. E non è un pensiero da esteta, come quando si dice “uno di più”, “una donna di più”. Non è neppure un pensiero dialettico, come quando si dice “uno fa due che poi fa tre”. Il multiplo non è più un aggettivo ancora subordinato all’Uno che si divide o all’Essere che lo ingloba: é diventato un sostantivo, una molteplicità, che alberga sempre in ogni cosa. Una molteplicità non è mai nei termini, in qualsiasi numero essi siano, né nel loro insieme o nella totalità. Una molteplicità è solamente nella e, la quale non possiede la stessa natura degli elementi, degli insiemi e nemmeno delle loro relazioni. Anche se può costituirsi fra due soltanto, nondimeno essa sconvolge il dualismo. C’è una sobrietà, una povertà, una ascesi fondamentale della e. A parte Sartre, che tuttavia è rimasto preso nelle trappole del verbo essere, il filosofo più importante in Francia era Jean Wahl. Non soltanto ci ha fatto incontrare il pensiero inglese e americano, ma ha saputo farci pensare in francese su cose molto nuove. Per proprio conto ha portato molto lontano questa arte della e, questo balbettamento del linguaggio in se stesso, questo uso minoritario della lingua.

C’è da stupirsi se tutto ciò ci viene dall’inglese o dall’americano? E’ una lingua egemonica, imperialista. Ma essa è tanto più vulnerabile al lavoro sotterraneo delle lingue o dei dialetti che la minano da tutte le parti, e impongono ad essa un gioco di corruzioni e di variazioni molto estese. I fautori di un francese puro, non contaminato dall’inglese, ci sembrano porre un falso problema, valevole soltanto per discussioni di intellettuali. La lingua americana può basare la sua dispotica pretesa ufficiale, la sua pretesa maggioritaria all’egemonia, solo in seguito a quella straordinaria capacità, che le è propria, di torcersi, di rompersi, di mettersi al servizio segreto di minoranze che la lavorano dal di dentro, involontariamente, ufficiosamente, rodendo quell’egemonia man mano che essa si estende: l’inverso del potere. L’inglese è sempre stato lavorato da tutte quelle lingue minoritarie, anglo-gaelico, anglo-irlandese, ecc., che sono altrettante macchine da guerra contro l’inglese: la e di Synge, che prende su di sé tutte le congiunzioni, tutte le relazioni, e “the way”, la strada maestra, per segnare la linea del linguaggio che si snoda.

11. L’americano è lavorato da un black english, e anche da uno yellow, un red english, broken english, i quali sono ogni volta come un linguaggio sparato a colpi di spruzzi di vernice: l’impiego molto diverso del verbo essere, l’uso differente delle congiunzioni, la linea continua della e… e se gli schiavi devono avere una conoscenza dell’inglese standard, è solo per fuggire e far fuggire la lingua stessa.

12. Ah no, non si tratta di fare del vernacolo, né di restaurare dei dialetti, come i romanzieri di provincia che sono in genere dei guardiani dell’ordine stabilito. Si tratta di far muovere la lingua, con parole sempre più sobrie e una sintassi sempre più fine. Non si tratta di parlare una lingua come se si fosse uno straniero, ma di essere uno straniero nella propria lingua, nel senso in cui l’americano è appunto la lingua dei Neri. C’è una vocazione dell’anglo-americano per tutto ciò. Bisognerebbe contrapporre il modo con cui l’inglese e il tedesco formano le parole composte, delle quali entrambe le lingue sono ugualmente ricche. Il fatto è però che il tedesco è ossessionato dal primato dell’essere, dalla nostalgia dell’essere, e fa tendere verso di esso tutte le congiunzioni di cui si serve per costruire una parola composta: culto del Grund, dell’albero e delle radici, culto del Dentro. Al contrario l’inglese forma delle parole composte il cui solo legame è una e sottintesa, rapporto con il Fuori, culto della strada che non si infossa mai, che non ha fondazioni, che fila alla superficie, rizoma. Blue-eyed boy: un ragazzo, del blu e degli occhi, un concatenamento. E… e… e, il balbettare. L’empirismo non è altro che questo. Sono tutte le lingue maggiori, più o meno dotate, che bisogna spezzare, ciascuna in un modo particolare, per introdurvi questa e creatrice, la quale farà filare la lingua, e farà di noi quello straniero nella nostra lingua, proprio in quanto è la nostra. Trovare i mezzi propri al francese, con la forza delle sue minoranze, del suo divenire-minore (ed è un peccato a questo proposito che molti scrittori sopprimano la punteggiatura, la quale vale in francese come altrettante e). Questo è l’empirismo, sintassi e sperimentazione, sintattico e pragmatico, questione di velocità.

Su Spinoza. Perché scrivere su Spinoza? Anche qui, bisogna afferrarlo nel mezzo, e non a partire dal principio primario (sostanza unica per tutti gli attributi). L’anima e il corpo, nessuno mai ha avuto una coscienza così originale della congiunzione “e”. Ogni individuo, anima e corpo, possiede un’infinità di parti che gli appartengono sotto un certo rapporto più o meno complesso. In questo modo ogni individuo risulta a sua volta composto di individui di ordine inferiore ed entra nella composizione di individui di ordine superiore. Tutti gli individui si trovano nella Natura come su un piano di consistenza di cui formano la figura intera, variabile in ogni momento. Essi sono oggetto di affezione gli uni con gli altri, in quanto il rapporto che costituisce ciascuno forma un grado di potenza, un potere di subire un’affezione. Ogni cosa è incontro nell’universo, bello o brutto incontro. Adamo mangia la mela, il frutto proibito. E’ un fenomeno del genere indigestione, intossicazione, avvelenamento: questa mela marcia decompone il rapporto di Adamo. Adamo ha fatto un cattivo incontro. Ed ecco quindi la forza del problema di Spinoza: che cosa può un corpo? Di quali affetti è capace? Gli affetti sono modi di divenire: talvolta ci rendono deboli in quanto diminuiscono la nostra capacità di agire, e scompongono i nostri rapporti (tristezza), talvolta ci rendono più forti in quanto aumentano la nostra potenza e ci fanno accedere a un individuo più ampio o superiore (gioia). Spinoza non cessa di stupirsi del corpo. I corpi non si definiscono attraverso il loro genere o la loro specie, attraverso organi e funzioni, ma per quello che essi possono, per gli affetti di cui sono capaci, nella passione come nell’azione. Non si può definire un animale finché non si enumerano i suoi affetti. In questo senso c’è più differenza fra un cavallo da corsa e un cavallo da tiro, che fra un cavallo da tiro e un bue. Un lontano successore di Spinoza dirà: guardate la zecca, ammirate questa bestia, essa si definisce attraverso tre affetti, è tutto ciò di cui essa è capace in funzione dei rapporti coi quali è formata, un mondo tripolare, e questo è tutto! La luce la colpisce ed essa si arrampica fino alla punta di un ramo. L’odore di un mammifero la colpisce, ed essa si lascia cadere su di lui. I peli le danno fastidio ed essa cerca un posto sprovvisto di peli per penetrare sotto la pelle e bere il sangue caldo. Cieca e sorda, la zecca non possiede che tre affetti nella foresta immensa, e per il resto del tempo può dormire degli anni in attesa dell’incontro. E tuttavia quale potenza! Finalmente qualcuno che possiede sempre gli organi e le funzioni corrispondenti agli affetti di cui è capace. Cominciare dagli animali semplici, che hanno soltanto un piccolo numero di affetti, e che non sono nel nostro mondo né in un altro, ma con un mondo associato che essi hanno saputo incidere, tagliare, ricucire: il ragno e la sua tela, il pidocchio e la testa, la zecca e un angolo di pelle di mammifero, queste sono bestie filosofiche, e non la nottola di Minerva. Viene chiamato segnale ciò che libera un affetto, ciò che realizza un potere di subire un’affezione: la tela si scuote, la testa si increspa, un poco di pelle si denuda. Null’altro che qualche segno, come delle stelle in un’immensa notte nera. Divenire-ragno, divenire-pidocchio, divenire-zecca, una vita sconosciuta, forte, oscura, ostinata.

Quando Spinoza si esprime in questo modo: lo stupefacente è il corpo… noi non sappiamo ancora ciò che può un corpo… egli non vuole fare del corpo un modello, e dell’anima una semplice dipendenza del corpo. Il suo tentativo è più sottile. Vuole infatti abbattere la pseudo-superiorità dell’anima sul corpo. Esiste l’anima e il corpo, ed entrambi esprimono una sola e identica cosa: un attributo del corpo è anche qualcosa espressa dall’anima (la velocità, per esempio). Come non si sa cosa può un corpo, come esistono molte cose nel corpo che non si conoscono, che superano la nostra conoscenza, così esistono nell’anima molte cose che superano la nostra coscienza. Ecco il problema: che cosa può un corpo, di quali affetti siamo capaci? Sperimentate, sapendo però che ci vuole molta prudenza per sperimentare. Viviamo in un mondo piuttosto sgradevole, dove non soltanto la gente, ma anche i poteri stabiliti hanno interesse a comunicarci degli affetti tristi. La tristezza, gli affetti tristi sono tutti quelli che diminuiscono la nostra potenza d’azione. I poteri stabiliti hanno bisogno delle nostre tristezze per fare di noi degli schiavi. Il tiranno, il prete, i compratori d’anime hanno bisogno di persuaderci che la vita è dura e pesante. I poteri hanno meno bisogno di reprimerci che di angosciarci, o, come dice Virilio, di amministrare e organizzare i nostri piccoli intimi terrori. Il lungo pianto universale sulla vita: la mancanza-a-essere che è la vita… Si ha un bel dire “balliamo”, uno non è affatto contento. Si ha un bel dire “che disgrazia la morte”, si sarebbe dovuto vivere per avere qualcosa da perdere. I malati, sia nell’anima che nel corpo, non ci molleranno, come vampiri, finché non ci avranno comunicato la loro nevrosi e la loro angoscia, la loro prediletta castrazione, il risentimento contro la vita, l’immondo contagio. E’ tutta questione di sangue. Non è facile essere un uomo libero: fuggire la peste, organizzare gli incontri, aumentare la potenza d’azione, commuoversi di gioia, moltiplicare gli affetti che esprimono o sviluppano un massimo di affermazione. Fare del corpo una potenza che non si riduce all’organismo, fare del pensiero una potenza che non si riduce alla coscienza. Il celebre principio primario di Spinoza (una sola sostanza per tutti gli attributi) dipende da questo con-catenamento, e non viceversa. Esiste un concatenamento-Spinoza: anima e corpo, rapporti, incontri, potere di essere affettivamente segnato, affetti che occupano questo potere, tristezza e gioia che qualificano questi affetti. La filosofia diviene qui l’arte di un funzionamento, di un concatenamento. Spinoza, l’uomo degli incontri e del divenire, il filosofo della zecca, Spinoza l’impercettibile, sempre nel mezzo, sempre in fuga anche se non si muove mai molto, fuga in rapporto alla comunità ebraica, fuga in rapporto ai Poteri, fuga in rapporto ai malati e ai velenosi. Può essere anche lui malato e morire; sa però che la morte non è né l’inizio né la fine, ma che al contrario si tratta di passare a qualcun altro la propria vita. Quel che Lawrence dice di Whitman è proprio quanto si addice a Spinoza, è la continuazione della sua vita: l’Anima e il Corpo, l’anima non è né di sopra né di dietro, essa è “con”, e sulla strada, esposta a tutti i contatti, gli incontri, in compagnia di coloro che la seguono sullo stesso cammino, “sentire insieme a loro, cogliere la vibrazione della loro anima e della loro carne mentre passa”, il contrario di una morale della salvezza, insegnare all’anima a vivere la propria vita e non a salvarla.

Sugli stoici, perché scrivere su di loro? Mai fu espresso un mondo più oscuro e più agitato: i corpi… ma anche le qualità sono dei corpi, e lo sono le anime e i respiri, le azioni e le passioni stesse. Tutto è mescolanza di corpi, i corpi si penetrano, si sforzano, si avvelenano, s’immischiano, si ritirano, si rafforzano o si distruggono, come il fuoco penetra nel ferro e lo arroventa, come il mangiatore divora la sua preda, come l’innamorato sprofonda nell’amata. “C’è della carne nel pane e del pane nelle erbe, questi corpi e tanti altri entrano in tutti i corpi attraverso dei percorsi nascosti, e poi evaporano insieme…”. Orrendo pasto di Tieste, incesti e divoramenti, malattie che crescono nei nostri fianchi, tanti corpi che premono nel nostro. Chi dirà quale mescolanza è buona o cattiva, dal momento che ogni cosa è buona dal punto di vista del Tutto che simpatizza, e ogni cosa è pericolosa dal punto di vista delle parti che si incontrano e si penetrano? Quale amore non è amore di fratello e sorella, quale festino non è antropofagico? Ma ecco che da tutti questi corpo a corpo si leva una sorta di vapore incorporeo che non consiste più in qualità, in azioni e passioni, in cause che agiscono le une sulle altre, ma che è costituito invece dai risultati di queste azioni e passioni, dagli effetti che risultano dagli insiemi di tutte queste cause, puri eventi incorporei impassibili, alla superficie delle cose, puri infiniti di cui non si può neanche dire che esistono, in quanto partecipano piuttosto di un extra-essere che circonda ciò che è: “arrossire”, “verdeggiare”, “tagliare”, “morire”, “amare”… Un tale evento, un tale verbo all’infinito è anche proprio l’espressione di una proposizione o l’attributo di uno stato di cose. E’ la forza degli stoici quella di aver fatto passare una linea di separazione non più fra il sensibile e l’intelligibile, non più fra l’anima e il corpo, ma là dove nessuno l’aveva scorto prima: fra la profondità fisica e la superficie metafisica. Tra le cose e gli eventi. Tra gli stati di cose o le mescolanze, le cause, anime e corpi, azioni e passioni, qualità e sostanze da una parte, e dall’altra gli eventi o gli Effetti incorporei impassibili, inqualificabili, infiniti che risultano da queste mescolanze, che si attribuiscono a questi stati di cose, che si esprimono in proposizioni. Nuovo modo di destituire l’è: l’attributo non è più una qualità rapportata a un soggetto per mezzo dell’indicativo “è”, ma è un verbo qualunque all’infinito che sorge da uno stato di cose e lo sorvola. I verbi infiniti sono delle forme illimitate di divenire. Come una tara originaria al verbo essere si lega il fatto di rimandare a un Io, per lo meno possibile, un Io che lo surcodifica e lo declina alla prima persona dell’indicativo. Ma gli infiniti-divenire non hanno soggetto: essi rimandano soltanto a una “impersonalità” dell’evento (piove), e ineriscono per conto loro a degli stati di cose che sono delle mescolanze o dei collettivi, dei concatenamenti, anche al più alto livello della loro singolarità. Esso – marciare – verso, i nomadi – arrivare, il – giovane – soldato – fuggire, lo studente – di – lingue – schizofrenico – tappare – orecchie, vespa – incontrare – orchidea. Il telegramma è una velocità di eventi, non una economia di mezzi. Le vere proposizioni sono dei piccoli annunci. Sono anche le unità elementari di romanzo, o di evento. I veri romanzi operano con degli indefiniti che non sono indeterminati, degli infiniti che non sono indifferenziati, dei nomi propri che non sono delle persone: “il giovane soldato” che scatta o fugge, e si vede scattare e fuggire nel libro di Stephen Crane, “il giovane studente di lingue” di Wolfson…

Fra i due, fra gli stati di cose fisiche in profondità e gli eventi metafisici di superficie, esiste una stretta complementarità. Come potrebbe un evento non effettuarsi nei corpi, dal momento che esso dipende da uno stato e da una mescolanza di corpi in quanto sue cause, visto che è prodotto dai corpi, dai respiri e dalle qualità che si compenetrano qui ed ora? Ma ancora, come potrebbe l’evento venire esaurito con la sua effettuazione, dato che, in quanto effetto, esso differisce per natura dalla sua causa, dato che agisce esso stesso come una Quasi-causa che sorvola i corpi, che percorre e traccia una superficie, oggetto di una contraffazione o di una verità eterna? L’evento è sempre prodotto da corpi che si scontrano, si tagliano o si penetrano, la carne e la spada; ma questo effetto stesso non è dell’ordine dei corpi, battaglia impassibile, incorporea, impenetrabile, che strapiomba sul proprio compimento e domina la propria effettuazione. Non si è mai smesso di domandare: dov’è la battaglia? Dov’è l’evento, in che consiste un evento: tutti pongono affrettatamente questo problema: “dov’è la presa della Bastiglia?”; ogni evento è una nebbiosa miriade di gocce. Se gli infiniti “morire”, “amare”, “muoversi”, “sorridere”, ecc., sono degli eventi, è perché esiste in essi una parte che il loro compimento non è sufficiente a realizzare, un divenire in se stesso che non cessa nel medesimo tempo di attenderci e di precederci come una terza persona dell’infinito, una quarta persona del singolare. Sì, il morire si genera nei nostri corpi, si produce in essi, ma pure giunge dal Fuori, singolarmente incorporeo, e calante su di noi come la battaglia che sorvola i combattenti, e come l’uccello che sorvola la battaglia. L’amore è nel fondo dei corpi, ma anche su questa superficie incorporea che lo fa avvenire. Cosicché, agenti o pazienti, allorché agiamo o subiamo, resta sempre a noi di essere degni di ciò che ci accade. E’ senza dubbio questa la morale stoica: non essere inferiore all’evento, divenire il figlio dei propri eventi. La ferita è una cosa che ricevo nel mio corpo, in quel tal posto, in quel dato momento, ma esiste anche una verità eterna della ferita come evento impassibile, incorporeo. “La mia ferita esisteva prima di me, io sono nato per incarnarla”.

13. Amor fati, volere l’evento, non ha mai significato rassegnarsi, ancor meno fare il pagliaccio o l’istrione, ma sprigionare dalle nostre azioni e passioni questo lampeggiamento di superficie, controeffettuare l’evento, accompagnare questo effetto senza corpo, questa parte che va al di là del compimento, la parte immacolata. Un amore per la vita che può dire sì alla morte. Tale è il passo propriamente stoico. O anche il passo di Lewis Carroll: egli è affascinato dalla bambina il cui corpo è lavorato da tante cose in profondità, ma anche sorvolato da tanti eventi senza spessore. Noi viviamo fra due pericoli: l’eterno gemito del nostro corpo, che trova sempre un corpo acuminato che lo trafigge, un corpo troppo grande che lo penetra e lo soffoca, un corpo indigesto che lo avvelena, un mobile che lo urta, un microbo che gli provoca una pustola; ma anche l’istrionismo di coloro che mimano un evento puro e lo trasformano in fantasma, e che cantano l’angoscia, la finitudine e la castrazione. Bisogna giungere a “innalzare fra gli uomini e le opere il loro essere davanti all’amarezza”. Fra le grida del dolore fisico e i canti della sofferenza metafisica, come tracciare il proprio sottile cammino stoico che consiste nell’essere degno di ciò che accade, nel liberare qualcosa di lieto e amabile in ciò che accade, un bagliore, un incontro, un evento, una velocità, un divenire? “Secondo il mio modo di sentire, alla morte quale fallimento della volontà, io opporrei una voglia di morire che fosse l’apoteosi della volontà”. Alla mia voglia abietta di essere amato, io opporrei una potenza d’amare: non una volontà assurda di amare non importa chi o cosa, non l’identificazione con l’universo, ma liberare il puro evento che mi unisce a coloro che amo, e che non mi aspettano così come io non li aspetto, dal momento che solo l’evento ci attende, Eventum tantum. Fare un evento, per quanto piccolo sia, è la cosa più delicata del mondo, il contrario di fare un dramma, o di fare una storia. Amare coloro che sono così: quando entrano in una parte, non sono delle persone, dei caratteri o dei soggetti, ma una variazione atmosferica, un mutamento di tinta, una molecola impercettibile, una popolazione discreta, una nebbia o un nuvolo di gocce. Tutto è cambiato in verità. Anche i grandi eventi non sono fatti in modo diverso: la battaglia, la rivoluzione, la vita, la morte… Le vere Entità sono degli eventi, non dei concetti. Pensare in termini di evento non è facile. Tanto meno facile dal momento che il pensiero stesso a questo punto diviene un evento. Ci sono quasi solo gli stoici e gli inglesi ad avere pensato così. Entità = evento, qui c’è del terrore, ma anche molta gioia. Divenire un’entità, un infinito, come Lovecraft ne parlava, l’orribile e luminosa storia di Carter: divenire-animale, divenire-molecolare, divenire-impercettibile.

E’ molto difficile parlare della scienza attuale, di ciò che fanno gli scienziati, per quel che se ne capisce. Si ha l’impressione che l’ideale della scienza non sia più del tutto assiomatico o strutturale. Una assiomatica significava lo sviluppo di una struttura che rendesse omogenei o omologhi gli elementi variabili ai quali essa veniva applicata. Era un’operazione di surcodificazione, un riordinamento nelle scienze. Perché la scienza non ha mai smesso di delirare, di far passare dei flussi di conoscenza e di oggetti completamente decodificati secondo delle linee di fuga che andavano sempre più lontano. C’è dunque tutta una politica che esige che tali linee vengano colmate, che un ordine sia stabilito. Pensate per esempio al ruolo giocato in fisica da Louis de Broglie, per impedire che l’indeterminismo si spingesse troppo lontano, per placare la follia delle particelle: tutta una rimessa in ordine. Oggi sembra piuttosto che la scienza stia riprendendo a delirare. Non si tratta soltanto della rincorsa alle particelle introvabili. Il fatto è che la scienza diviene sempre più scienza degli eventi, invece che strutturale. Traccia delle linee e dei percorsi, fa dei salti, invece di costruire delle assiomatiche. La scomparsa degli schemi di arborescenza a profitto dei movimenti rizomatici ne è un segno. Gli scienziati si occupano sempre più di eventi singolari, di natura incorporea, e che si effettuano in corpi, in stati di corpi, in concatenamenti del tutto eterogenei fra di loro (da cui il richiamo all’interdisciplinarità). Si tratta di qualcosa di molto diverso da una struttura costituita di elementi qualunque, si tratta di un evento di corpi eterogenei, un evento in quanto tale che attraversa delle strutture diverse e degli insiemi specificati. Non è più una struttura che inquadra dei campi isomorfi, ma un evento che attraversa dei campi irriducibili. Ad esempio l’evento “catastrofe” quale viene studiato dal matematico René Thom. Oppure l’evento-propagazione, il “propagarsi”, che si effettua in un gel, ma anche in un’epidemia, o in un’informazione. Oppure lo spostarsi, che può segnare il percorso di un taxi in una città, ma anche quello di una mosca in uno sciame: non è un assioma, ma un evento che si prolunga fra insiemi qualificati. Non si evidenzia più una struttura comune di elementi qualsiasi, si espone invece un evento, si controeffettua un evento che taglia corpi diversi e si effettua in diverse strutture. Si dà allora qui qualcosa come dei verbi all’infinito, delle linee di divenire, linee che filano fra campi diversi, e che saltano da un campo all’altro, inter-regni. La scienza sarà sempre più come l’erba, nel mezzo, fra le cose e in mezzo ad altre cose, accompagnando la loro fuga (ed è vero anche che gli apparati di potere esigeranno sempre più un riordinamento, una ricodificazione della scienza).

Humour inglese (?), humour ebraico, humour stoico, humour zen, che curiosa linea spezzata. L’ironico è l’uomo che discute sui principi; è alla ricerca di un principio primario, ancora più primario di quello che si credeva primario; egli trova una causa ancora più primaria delle altre. Non smette di salire e di risalire. Ecco perché procede per problemi, è un uomo della conversazione, del dialogo, possiede un certo tono, qualcosa sempre dell’ordine del significante. L’humour è proprio il contrario: i principi contano poco, si prende tutto alla lettera, vi si aspetta al momento delle conseguenze (ecco perché lo humour non si realizza attraverso i giochi, i bisticci di parole, che appartengono al significante, e che sono come un principio nel principio). Lo humour è l’arte delle conseguenze o degli effetti: d’accordo, d’accordo su tutto, mi concedete questo? Allora vedrete cosa ne salta fuori. Lo humour è traditore, è il tradimento. Atonale, assolutamente impercettibile, esso fa filare qualcosa. é sempre nel mezzo, sul cammino. Non sale o non risale mai, è alla superficie: effetti di superficie, lo humour è un’arte degli eventi puri. Le arti dello zen, il tiro con l’arco, il giardinaggio o la tazza di tè, sono esercizi per far sorgere e sfolgorare l’evento su una superficie pura. Lo humour ebraico contro l’ironia greca; lo humour-Giobbe contro l’ironia-Edipo; lo humour insulare contro l’ironia continentale; lo humour stoico contro l’ironia platonica; lo humour zen contro l’ironia buddista; lo humour masochista contro l’ironia sadica; lo humour-Proust contro l’ironia-Gide, e così via. Tutto il destino dell’ironia è legato alla rappresentazione, l’ironia assicura l’individuazione del rappresentato o la soggettivazione del rappresentante. In effetti, l’ironia classica consiste nel mostrare come, nella rappresentazione, il più universale si confonda con l’estrema individualità del rappresentato che serve ad esso da principio (l’ironia classica culmina nell’affermazione teologica secondo la quale “il tutto del possibile” è al tempo stesso la realtà di Dio come essere singolare). L’ironia romantica, per parte sua, scopre la soggettività del principio di ogni rappresentazione possibile. Questi non sono i problemi dello humour, che non ha mai smesso di smontare i giochi dei principi o delle cause a profitto degli effetti, i giochi della rappresentazione a profitto dell’evento, i giochi dell’individuazione o della soggettivazione a profitto delle molteplicità. C’è nell’ironia una pretesa insopportabile: quella di appartenere a una razza superiore, e di essere proprietà dei maestri (un testo famoso di Renan lo dice senza ironia, dato che l’ironia finisce subito non appena parla di se stessa). Lo humour invece si rifà a una minoranza, a un divenire-minoritario: è lui che fa balbettare una lingua, che le impone un uso minore o che costituisce tutto un bilinguismo all’interno della stessa lingua. E per l’appunto non si tratta mai di giochi di parole (non c’è un solo gioco di parole in Lewis Carroll), ma di eventi di linguaggio, un linguaggio minoritario diventato esso stesso creatore di eventi. Oppure potremmo forse avere qui dei giochi di parole “indefiniti”, che sarebbero come un divenire invece di un compimento?

Che cos’è un concatenamento? E’ una molteplicità che comporta parecchi termini eterogenei, e che stabilisce dei legami, delle relazioni fra di essi, attraverso età, sessi, regni – nature differenti. In questo modo la sola unità del concatenamento è una unità di co-funzionamento: è una simbiosi, una “simpatia”. Importanti non sono mai le filiazioni, ma le alleanze e le leghe; non sono le eredità, le discendenze, ma i contagi, le epidemie, il vento. Gli stregoni lo sanno bene. Un animale si definisce non tanto per il suo genere o la sua specie, i suoi organi e le sue funzioni, quanto per i concatenamenti nei quali entra. Prendiamo un concatenamento del tipo uomo-animale-oggetto-manufatto: uomo-cavallo-staffa. I tecnologi hanno spiegato che la staffa permetteva una nuova unità di guerra, dando al cavaliere una stabilità laterale: la lancia può essere tenuta sotto un solo braccio, si giova di tutto lo slancio del cavallo, agisce come punta a sua volta immobile e trascinata dalla corsa. “La staffa sostituiva l’energia dell’uomo con la potenza dell’animale”. E’ una nuova simbiosi uomo-animale, un nuovo concatenamento di guerra, che si definisce attraverso il suo grado di potenza o di “libertà”, le sue forme affettive, la sua circolazione di affetti: ciò che può un insieme di corpi. L’uomo e l’animale entrano in un nuovo rapporto, l’uno non cambia meno dell’altro, il campo di battaglia si colma di un nuovo tipo di affetti. Non si deve pensare tuttavia che l’invenzione della staffa possa essere bastevole. Un concatenamento non è mai solo tecnologico, è anche il contrario. Gli utensili presuppongono sempre una macchina, e la macchina, prima di essere tecnica, è sempre sociale. C’è sempre una macchina sociale che seleziona o assegna gli elementi tecnici impiegati. Un utensile rimane marginale o poco utilizzato, finché non esiste la macchina sociale o il concatenamento collettivo in grado di accoglierlo nel suo “phylum”. Nel caso della staffa si tratta della donazione di terra, legata per il beneficiario all’obbligo di servire a cavallo, cosa che finisce con l’imporre la nuova cavalleria e catturare l’utensile in quel concatenamento complesso che è la feudalità. Prima di essa i casi erano due: o la staffa era già in uso, ma diversamente, nel contesto di un concatenamento completamente diverso, quello dei nomadi per esempio; oppure era conosciuta, ma senza essere impiegata, o essendolo solo in maniera molto limitata, come nella battaglia di Adrianopoli.

14. La macchina feudale coniuga nuovi rapporti con la terra, la guerra, l’animale, ma anche con la cultura e i giochi (tornei), con le donne (amore cavalleresco): ogni specie di flussi entra in congiunzione. Come si può negare al concatenamento il nome che gli tocca, “Desiderio”? Ecco che qui il desiderio diventa feudale. Qui come altrove esso è l’insieme degli affetti che si trasformano e circolano in un concatenamento di simbiosi definito dal co-funzionamento delle sue parti eterogenee.

In primo luogo, in un concatenamento ci sono come due facce o due teste, per lo meno. Degli stati di cose, stati di corpo (i corpi si penetrano, si mescolano, si trasmettono degli affetti); e poi degli enunciati, dei regimi di enunciati: i segni si organizzano in un nuovo modo, nuove formulazioni fanno la loro comparsa, emerge un nuovo stile per nuovi gesti (gli insiemi che individualizzano il cavaliere, le formule di giuramento, i sistemi di “dichiarazioni”, anche quelle d’amore, e così via). Gli enunciati non sono ideologia, non si dà ideologia, gli enunciati sono pezzi e ruote dentate nel concatenamento, non meno degli stati delle cose. Non c’è infrastruttura né sovrastruttura in un concatenamento; un flusso monetario comporta in se stesso almeno tanti enunciati quanto un flusso di parole, per parte sua, può comportare denaro. Gli enunciati non si limitano a descrivere degli stati di cose corrispondenti: sono piuttosto come due formalizzazioni non parallele, formalizzazione di espressione e formalizzazione di contenuto, in un modo tale che uno non fa mai quel che dice, né dice mai quel che fa, e tuttavia non mente, non inganna né si inganna, concatena soltanto dei segni e dei corpi come pezzi eterogenei della stessa macchina. L’unica unità deriva dal fatto che una sola e identica funzione, un solo e identico “funtivo” è l’espresso dell’enunciato e l’attributo dello stato di corpo: un evento che si distende o si contrae, un divenire all’infinito. Feudalizzare: é in un modo indissolubile che un concatenamento si dà contemporaneamente come concatenamento macchinico di effettuazione e concatenamento collettivo di enunciazione. Nell’enunciazione, nella produzione degli enunciati, non c’è soggetto, ma sempre agenti collettivi; e in ciò di cui parla l’enunciato non si troveranno mai degli oggetti, ma degli stati di macchina. Sono come le variabili della funzione, che continuano a incrociare i loro valori o i loro segmenti. Nessuno meglio di Kafka ha mostrato queste due facce complementari di ogni concatenamento. Se esiste un mondo kafkiano, esso non è certo quello dello strano o dell’assurdo, ma un mondo in cui l’estrema formalizzazione giuridica degli enunciati (domande e risposte, obiezioni, patrocinii, attese, deposizione di conclusioni, verdetto) coesiste con la più intensa formalizzazione macchinica, la macchinazione degli stati di cose e di corpi (macchina-nave, macchina-albergo, macchina-circo, macchina-castello, macchina-processo). Una sola e identica funzione-K, con i suoi agenti collettivi e le sue passioni di corpi, Desiderio.

C’è poi ancora un altro asse secondo il quale bisogna dividere i concatenamenti. Si tratta in questo caso di vederli dal punto di vista dei movimenti che li animano, e che li fissano o li superano, che fissano o superano il desiderio con i suoi stati di cose e i suoi enunciati. Non c’è concatenamento senza territorio, senza territorialità, ri-territorializzazione che comprende ogni specie di artifici. Ma non c’è concatenamento neanche senza punta di de-territorializzazione, senza linea di fuga, che lo porta verso nuove creazioni, oppure verso la morte. Feudalesimo, riprendiamo lo stesso esempio. Territorialità feudali, o piuttosto ri-territorializzazione, dal momento che ci si trova di fronte a una nuova distribuzione delle terre e di tutto un sistema di sotto-infeudamento. E il cavaliere stesso non giunge anch’egli a riterritorializzarsi sulla sua cavalcatura munita di staffe, dato che può dormire a cavallo? Ma nello stesso tempo, oppure all’inizio o alla fine, c’è anche un esteso movimento di deterritorializzazione: deterritorializzazione dell’impero, e soprattutto della Chiesa di cui si confiscano i beni fondiari per distribuirli ai cavalieri; un simile movimento troverà poi il suo sbocco nelle Crociate, le quali però portano a loro volta a una ri-territorializzazione imperiale ed ecclesiastica (la terra spirituale, la tomba di Cristo, il nuovo commercio). Il cavaliere non lo si è mai potuto isolare dalla sua corsa errante spinta dal vento, dalla sua deterritorializzazione a cavallo; e se il servo stesso non è separabile dalla sua territorialità feudale, non lo è nemmeno da tutte le deterritorializazzioni precapitalistiche che già lo attraversano.

15. I due movimenti coesistono così in un unico concatenamento, e tuttavia non si equivalgono, non si compensano, non sono simmetrici. Della terra, o piuttosto della riterritorializzazione artificiale costantemente praticata, si potrà dire che essa fornisce una particolare sostanza al contenuto, un certo codice agli enunciati, un qualche termine al divenire, questa o quella effettuazione all’evento, quel tale indicativo al tempo (passato, presente, futuro). Ma riguardo alla simultanea deterritorializzazione, per quanto da altri punti di vista, bisognerà dire che certamente essa non segna in misura minore la terra: infatti, ecco che libera una materia pura, smonta i codici, coinvolge le espressioni e i contenuti, gli stati di cose e gli enunciati, su una linea di fuga a zig-zag, spezzata, eleva il tempo all’infinito, libera un divenire che non ha più termine, in quanto ogni termine è un arresto che bisogna saltare. Sempre la bella formula di Blanchot, liberare “la parte di evento che non può realizzarsi con il compiersi di questo”: un morire puro, o sorridere, o combattere, o odiare, o amare, o andarsene, o creare… Un ritorno al dualismo? No, i due movimenti son presi l’uno nell’altro, il concatenamento li compone entrambi, tutto avviene fra i due. Anche qui c’è una funzione-K, un altro asse tracciato da Kafka, nel doppio movimento delle territorialità e della deterritorializzazione.

Certamente esiste un problema storico del concatenamento: quegli elementi eterogenei presi nella funzione, le circostanze in cui sono presi, l’insieme dei rapporti che uniscono in quel momento l’uomo, l’animale, gli utensili, l’ambiente. Ma oltre a ciò, l’uomo non cessa di divenire-animale, di divenire-utensile, divenire-ambiente, secondo un altro ambito di problemi che riguarda però sempre quegli stessi concatenamenti. L’uomo diviene animale, soltanto se l’animale, per parte sua, diviene suono, colore o linea. E’ un blocco di divenire sempre asimmetrico. Non è che i due termini si scambino, essi non si scambiano affatto, ma l’uno non può diventare l’altro, se non a condizione che l’altro divenga altra cosa, e che i termini si cancellino. E’ quando il sorriso si trova senza gatto, come dice Lewis Carroll, che l’uomo può effettivamente divenire gatto, nel momento in cui sorride. Non è l’uomo che canta o che dipinge, è l’uomo che diviene animale, ma proprio nel medesimo momento in cui l’animale diviene musicale o puro colore, o linea straordinariamente semplice. Gli uccelli di Mozart: è l’uomo che diventa uccello, ma in quanto l’uccello diviene musicale. Il marinaio di Melville diventa albatros nel momento in cui l’albatros stesso diventa straordinaria bianchezza, pura vibrazione di bianco (e il divenire-balena del capitano Achab costituisce un blocco con il divenire-bianco di Moby Dick, pura bianca murata). Allora è questo il dipingere, comporre o scrivere? E’ tutta questione di linea, non c’è differenza considerevole fra la pittura, la musica e la scrittura. Queste attività si distinguono per le loro sostanze, i loro codici e le loro territorialità rispettive, ma non per la linea astratta da esse tracciata, la quale fila tra di loro e le porta verso un comune destino. Quando si arriva a tracciare la linea, si può dire “si tratta di filosofia”. Non certo perché la filosofia sarebbe una disciplina ultima, una radice estrema che conterrebbe la verità di tutte le altre; è invece il contrario. Ancor meno si tratta di una saggezza popolare. Ma è perché la filosofia nasce o viene prodotta dal di fuori per opera del pittore, del musicista, dello scrittore, ogni volta che la linea melodica coinvolge il suono, o la pura linea tracciata porta con sé il colore, o la linea scritta attrae la voce articolata. Non c’è alcun bisogno di filosofia: essa viene prodotta forzatamente là dove qualsiasi attività spinge in avanti la propria linea di deterritorializzazione. Uscire dalla filosofia, fare non importa cosa, in modo da poterla produrre dal di fuori. I filosofi son sempre stati un’altra cosa, sono nati da altro.

E’ molto semplice scrivere. O è un modo per riterritorializzarsi, per conformarsi a un codice di enunciati dominanti, a un territorio di stati di cose stabiliti: e qui non si tratta soltanto di scuole e di autori, ma di tutti i professionisti di una scrittura anche non letteraria. Oppure, all’opposto, è divenire, divenire altro dallo scrittore, dato che, contemporaneamente, ciò che si diviene, diventa altro dalla scrittura. Qualsiasi tipo di divenire non passa attraverso la scrittura, ma tutto ciò che diventa è oggetto di scrittura, di pittura o di musica. Tutto ciò che diventa è una pura linea, che cessa di rappresentare alcunché. Talvolta si dice che il romanzo è arrivato al suo compiuto sviluppo nel momento in cui ha assunto come personaggio l’anti-eroe, un essere assurdo, strano e disorientato che continua ad errare, sordo e cieco. Ma questa è la sostanza del romanzo: da Beckett a Chrétien de Troyes, da Lawrence a Lancillotto, attraverso tutto il romanzo inglese e americano. Chrétien de Troyes ha continuato a tracciare la linea dei cavalieri erranti, che dormono sul loro cavallo, appoggiati alla loro lancia e alle loro staffe, e che non sanno più il loro nome e la loro destinazione, che continuano a muoversi a zig-zag, che montano sul primo carro che trovano, fosse pure quello dell’infamia. Punta di deterritorializzazione del cavaliere. Talora in una febbrile premura sulla linea astratta che li trascina, talora nel buco nero della catatonia che li assorbe. E’ il vento, anche una corrente inversa, che a volte ci precipita e a volte ci immobilizza. Un cavaliere dormire sulla sua sella. I am a poor lonesome cow-boy. La scrittura non ha altro fine: il vento, anche quando non ci muoviamo, “delle chiavi nel vento per farmi fuggire lo spirito e fornire ai miei pensieri una corrente inversa” – liberare nella vita quel che può essere salvato, quel che si salva da solo a forza di potenza e di ostinazione, liberare nell’evento quel che non si lascia esaurire nella sua effettuazione, liberare nel divenire quel che non si lascia fissare in un termine. Bizzarra ecologia: tracciare una linea di scrittura, di musica o di pittura. Corregge agitate dal vento. Un poco d’aria che soffia. Si traccia una linea, ed è tanto più forte quanto più è astratta, se essa è sufficientemente sobria e senza figure. La scrittura è fatta di agitazione motoria e di catatonia: Kleist. é vero che si scrive soltanto per gli analfabeti, per quelli che non leggono, o per lo meno per quelli che non vi leggeranno. Si scrive sempre per gli animali, come Hofmannsthal che diceva di sentire un topo in gola, un topo che mostrava i denti, “nozze o partecipazione contro natura”, simbiosi, involuzione. Ci si avvicina soltanto all’animale nell’uomo. Questo non significa scrivere a proposito del proprio cane, o gatto, o cavallo, o del proprio animale preferito. Questo non significa far parlare gli animali. Vuol dire invece scrivere nel modo con cui un topo traccia una linea, o torce la propria coda, o come un uccello emette un fischio, come un felino si muove, oppure dorme pesantemente. Divenire-animale a condizione che l’animale, topo, cavallo, uccello, felino, diventi esso stesso altra cosa, blocco, linea, suono, color della sabbia – una linea astratta. Perché tutto quel che muta passa per questa linea: concatenamento. Essere un pidocchio di mare, che a volte salta e vede tutta la spiaggia, a volte resta nascosto con il naso puntato su un unico granello di sabbia. Dovete sapere soltanto quale animale state per divenire, e soprattutto quel che esso diviene in voi, la Cosa o l’Entità di Lovecraft, l’innominabile, “la bestia intellettuale”, tanto meno intellettuale dal momento che essa scrive con le sue unghie, il suo occhio morto, le sue antenne e mandibole, la sua assenza di espressione, tutto un branco dentro di voi, al seguito di che? Di un vento stregato?

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