Critica letteraria

LA SCRITTURA DI JOSE’ SARAMAGO di Giulia Lanciani

LA SCRITTURA DI JOSE’ SARAMAGO
di Giulia Lanciani

“Dificílimo acto é o de escrever, responsabilidade das maiores” (Difficilissimo atto è quello dello scrivere, responsabilità delle più grandi): la frase, che apre un passo della Zattera di pietra, potrebbe essere assunta a motto della scrittura di José Saramago, nella quale responsabilità estetica e responsabilità culturale accompagnano sempre quella etica e quella civile. Nell’incontro che il premio Nobel ebbe nel maggio di due anni fa con gli studenti del nostro Ateneo, affermò: “Lo scrittore, prima di diventare tale, era un cittadino e non ha nessun senso che nel momento in cui comincia a scrivere dimentichi di esserlo. Io, almeno, non posso. Non sono uno, sono due, sono tre: sono il cittadino che sono, sono lo scrittore che sono, sono le due cose insieme. Di conseguenza, l’uno parla sempre anche per bocca dell’altro. È questo il mio modo di essere e di vivere. Se ciò pregiudichi o meno la qualità letteraria del mio lavoro, non sta a me dirlo”. E quando a Stoccolma gli fu consegnato il premio per la letteratura, dedicò i tre minuti concessi ai laureati per i ringraziamenti ad una riflessione sui diritti umani (e non solo perché ricorreva il cinquantenario della firma della Carta dei diritti umani): Saramago conosce il potere delle parole e la violenza del silenzio: “Cadono sul silenzio le parole — egli dice. Tutte le parole. Quelle buone e quelle cattive. Il grano e il loglio. Ma solo il grano dà pane”.
In un rapido quadro cronologico dell’opera saramaghiana fino al 1980, anno in cui appare Levantado do Chão (reso in italiano con Una terra chiamata Alentejo) si deve menzionare innanzitutto il romanzo della giovinezza, Terra del peccato, del 1947, solo da poco incluso nel canone dello scrittore. Ideato da un giovane ventiquattrenne, e con un titolo imposto dall’editore, che lo considerava più attraente di quello originale (La Vedova), quest’incursione esplorativa nel romanzo di matrice ancora ottocentesca è significativa in quanto esperienza di apprendistato di un autore che è in cerca di una sua propria via. In effetti, il tragitto di Saramago fino all’assunzione piena del romanzo come forma di espressione dominante è lungo e arduo e con una fluttuazione di generi che lo porta a frequentare altri, vari e molteplici, percorsi — la poesia, la cronaca, il teatro, il racconto. Quasi trent’anni di iniziazione fino al Manuale di pittura e calligrafia, che ha per sottotitolo Saggio di romanzo, considerato dai critici il crogiolo di elaborazione di tutte le tendenze pre-finzionali di José Saramago. Un romanzo che esita ancora tra finzione e verità, tra la rappresentazione del mondo e dell’uomo (il pittore che scrive i fatti della sua vita) e la produzione di un mondo specifico che è quello dell’arte (creazione dell’opera, riflessione su questa creazione e sul linguaggio che la veicola).
Una sorta di autoritratto, che ci dà la misura dell’incontro con se stesso proprio attraverso la frequentazione degli altri mediante la scrittura. Se all’inizio si aveva un doppio non coincidente (pittura/ scrittura), alla fine v’è una duplicità coincidente, l’incontro perfetto dell’altro e di se stesso. La calligrafia del titolo (che, se vogliamo, è la nozione accademica e pittorica di scrittura, scrittura d’immagine) si giustifica con l’indicazione di “manuale” (la mano che si ferma ed insiste, nella pittura, la mano che si muove e va avanti, nella scrittura).
Con Manuale di pittura e calligrafia Saramago fa la sua prima discreta entrata sulla scena letteraria, un’entrata che diverrà irruzione, trionfale e folgorante, con Levantado do Chão, un vero e proprio spartiacque nella sua produzione. Alla ricerca del romanzo come genere narrativo paradigmatico, egli elabora finalmente un’opera che di questo paradigma assume ciò che v’è di fondamentale, ma dove il fondamentale si trasfigura grazie all’accumulo dell’esperienza precedente, intensa e diversa: ne risulta una proposta di orditura finzionale specifica, singolare, un’invenzione che immediatamente seduce e trascina.
Levantado do Chão è il libro in cui Saramago “si trova” come romanziere:

“Eu acho que me encontrei num certo momento da vida e provavelmente encontrei-me no Levantado do Chão, que é um livro que foi escrito daquela maneira pelo facto de eu ter estado no Alentejo e de ter ouvido contar histórias. Estive no Alentejo em 1976 e saí de lá com o livro todo arrumado na cabeça. O livro foi escrito três anos depois, sendo certo que escrevi o Manual de Pintura e Caligrafia e Objecto Quase provavelmente [… ] porque não sabia como havia de escrever o Levantado do Chão”.

“In un certo momento della vita credo di essermi trovato, e probabilmente mi sono trovato in Levantado do Chão, un libro scritto così come è scritto proprio perché sono stato in Alentejo e ho sentito raccontare certe storie. Ci sono stato nel 1976, e son venuto via da lì già con il libro ben organizzato in testa. Il libro è stato scritto tre anni più tardi, ed è certo che nel frattempo ho scritto il Manuale di pittura e calligrafia e Oggetto quasi, probabilmente […] perché non sapevo come avrei dovuto scrivere Levantado do Chão”.

Per scrivere questa storia, egli abbandona alla fine del 1975 il lavoro di giornalista al “Diário de Notícias”, di cui era stato vicedirettore: in verità, non lo abbandona, ma viene licenziato. Racconta: “Fu quello un momento cruciale della mia vita. Mi domandai: che fare? Cercare un lavoro? Non lo feci […] e anche se lo avessi fatto, con tutte le difficoltà del momento, probabilmente non lo avrei trovato. La mia decisione, allora, fu di non cercare niente e di tentare di vivere scrivendo[…] ho tradotto migliaia e migliaia di pagine […] praticamente ho vissuto di traduzioni”.
Cronaca epica di una famiglia di contadini dell’Alentejo, il romanzo affronta la questione della secolare lotta dell’uomo contro l’oppressore, vissuta durante generazioni e che pertanto s’incrocia inevitabilmente con i movimenti della storia. La problematizzazione della storia diviene da allora un aspetto centrale dell’opera saramaghiana. In un saggio su “Storia e finzione narrativa” (apparso sulla rivista Jornal das Letras, Artes e Ideias, nel 1990), egli afferma:

“Diria eu que a História, tal como a escreve ou […] tal como a fez o historiador, é primeiro livro, não mais do que o primeiro livro. […] Restará sempre, contudo, uma grande zona de obscuridade, e é aí, segundo entendo, que o romancista tem o seu campo de trabalho”.

“Direi che la Storia, così come la scrive o […] così come la fa lo storico, è prima di tutto libro, non più che il primo libro […] Resterà tuttavia sempre una grande zona oscura, ed è lì, a mio parere, che il romanziere ha il suo campo di lavoro”.

Saramago è ben consapevole che la “Storia” non esiste in sé, ma è un prodotto dello storico: il quale decidendo che cosa del passato è importante e che cosa può essere trascurato e interpretando il materiale selezionato in funzione delle proprie convinzioni ideologiche o anche soltanto metodologiche, non scrive ma fa la storia, e non la Storia (con la s maiuscola), ma una delle tante storie possibili. Lo storico, in definitiva, non si limita ad esporre gli avvenimenti, ma li seleziona, li interpreta e quindi in qualche misura li crea. E il suo non è mai un viaggio definitivo nel passato, poiché può sempre ripercorrere quello stesso itinerario valendosi di altri punti di vista, di dati inediti, di nuove interpretazioni. Un viaggio aperto, dunque, nel quale permangono zone inesplorate. Ed è la coscienza di questa incompletezza, e della nostra incapacità di ricostruire interamente ciò che è stato, a generare l’inquietudine dell’incompiuto.
Di tale inquietudine si fa interprete lo scrittore che ha scelto per la sua finzione i cammini della storia, il quale agisce appunto su queste zone buie, inserendosi in quell’immensa fascia grigia tra la ragione e il dubbio, tra l’assoggettamento ad una “verità” sancita e la ribellione a tale verità. Non certo per ricostituire il passato — non è questo compito del romanziere —, ma almeno per correggerlo: “Quando dico correggere la storia — afferma Saramago —, non è nel senso di correggere gli eventi della storia, ma di introdurre in essa piccole cartucce, che facciano esplodere quel che sembrava indiscutibile: in altri termini, sostituire quel che è stato con quel che avrebbe potuto essere”.
La storia, pertanto, intesa non più come immagine fissa: tra il dato storico e il dato tràdito tutto è forse, la storia dubita di se stessa, dubita delle sue stesse certezze. Dunque non più storia come lezione, fatalisticamente trasmessa: la Storia, come verità assoluta, non esiste.
E a partire da queste premesse, l’ingegno scrittorio di José Saramago si definisce secondo un paradigma originalissimo, che pur facendo capo ad una chiara istanza ideologica, si ispira al contempo alla dialettica di una ragione fantastica, in cui la realtà storica, di cui essa si alimenta, soggiace all’atto liberatorio della reinvenzione poetica. L’intera opera di Saramago partecipa di questo “gioco” combinatorio, nel quale il lettore è in certo senso costretto a intervenire in prima persona, chiamato in causa da una sistematica provocazione, che lo scrittore attua negando quel che in un primo momento ha esposto come verità, e implicando il lettore a percorrere insieme a lui un itinerario possibile tra i tanti che la Storia offre: da Levantado do Chão, storia di uomini riletta nell’ottica di chi ha sempre sopportato il peso della Storia, e nella Storia non ha mai avuto né voce né spazio, a Memoriale del convento, fastoso polittico del Settecento portoghese, che intesse la vicenda di Blimunda e Baltasar sullo scenario della ciclopica costruzione del convento di Mafra; da L’anno della morte di Ricardo Reis, rivisitazione di un eteronimo di Fernando Pessoa a La zattera di pietra, racconto impossibile di una scissione tellurica, in cui la penisola iberica vaga alla deriva nell’Atlantico; dalla Storia dell’assedio di Lisbona, che inverte il dato annalistico — l’intervento dei crociati nella liberazione di Lisbona dai mori — affidandone la manipolazione e la rettifica alla ribelle fantasia di un correttore di bozze a Il Vangelo secondo Gesù Cristo, rilettura audace del messaggio divino; da Cecità, allegoria della incapacità di vedere che domina l’uomo e lo porta a forme estreme di abiezione; da Tutti i nomi , in cui prosegue l’indagine drammatica sul margine tra la vita e la morte, sul limite rovinoso al quale sono inevitabilmente esposte le culture, le fragili vite e le essenziali speranze dell’umanità, a La caverna, che contempla con pessimismo ma anche con accorata tenerezza un’umanità assediata e prigioniera di un occulto potere che la snatura e la rende sempre più alienat, fino al recentissimo L’uomo duplicato, un romanzo sull’alterità e al tempo sul senso più profondo dell’identità.
Dunque, se la pratica progettuale di Saramago cerca i suoi fondamenti epistemologici nella storia, intesa nella sua accezione più ampia, da storia di cose a storia di eventi a storia di uomini, ne disgrega tuttavia l’ordine costituito e lo sostituisce con altri ordini possibili. Sgretola, insomma, tutto ciò che la logica del potere e del possesso ha chiuso dentro un oscuro intrico di frasi, e con i frammenti, ricomposti e riconquistati, o reinventati, trasmette un messaggio diverso; rompe il sigillo di una verità consacrata dal principio di autorità, un sigillo che ha irrigidito la parola, e lo ribalta per farne parola capace di penetrare nella profonda e tenebrosa unità dell’intangibile, e di rivelare così i limiti e la relatività delle certezze del mondo.
Il mondo messo a rovescio di se stesso e delle sue certezze apparenti e reali si apre allora all’avventura romanzesca della decostruzione della determinatezza delle parole e delle cose, si lascia viaggiare nello straniamento che ne deriva, reincontra in segni antichi e cristallizzati nuovi segni per riscrivere la propria storia. Nuovi segni che si articolano, con grande perizia narrativa, in una lingua di figure che hanno l’inventiva dell’immaginazione, ma anche il rigore dell’esattezza e dell’eseguibilità. L’incontro tra l’immaginazione e la tradizione crea un luogo intermedio in cui si realizza il contatto tra due mondi, il mondo dell’idea e il mondo sensibile, un luogo in cui il profilo delle cose torna a disegnarsi nella luce di un pensiero che non ha più la disumana bellezza dell’assoluto, del categorico, dell’imperioso, ma che al contrario spezza quel codice all’interno del quale si depositavano le esperienze umane già atrofizzate e incomunicabili.
Con la sua attività poietica, Saramago rimuove le zone di torpore della realtà codificata, le redime dalla loro immobilità consacrata, trasferendole dallo spazio di tempi e di luoghi immoti alla dimensione di una vera e propria crucialità del pensiero e dell’azione etica. I suoi romanzi, instaurando un diverso rapporto con il tempo, divengono così redenzione e profezia: sono un tessuto di immagini, di storie in grado di riorientare la storia degli uomini e delle cose, del pensiero che muove gli uomini e le cose.
Una scrittura che è un immenso tessuto finzionale, in cui la meravigliosa potenza dell’invenzione permette allo scrittore di sviluppare il disegno ardito di storie che comunicano una nuova visione dell’infinita ricchezza e pluralità dell’uomo e del mondo, una visione che non possiamo certo chiamare verità, e che tuttavia ci aiuta a scoprire le parole e le immagini per riconoscere nel mondo oggetti, cose, profili che prima erano per noi invisibili.
Una scrittura che ben riflette la crisi contemporanea di una tradizionale “Imago Mundi”, ma che tale crisi supera aprendo la meravigliosa prospettiva di infinite “Imagines Mundi”:

“Nada é absoluto. Encontrar um ponto de apoio para viver que não seja absoluto, mas também a admissão que cada um de nós é uma pluralidade e que uma visão única é sempre limitante e incompleta. É preciso ir à procura de outras imagens do mesmo facto, pessoa, ou coisa”.

“Nulla è assoluto. Trovare un punto d’appoggio per vivere che non sia assoluto, ma anche ammettere che ciascuno di noi è una pluralità e che una visione univoca è sempre limitante e incompleta. Bisogna andare alla ricerca di altre immagini dello stesso fatto, persona o cosa”.

La zattera di pietra appare, in tale prospettiva, la grande metafora della scrittura saramaghiana: una scrittura capace di raffigurare, inventare, mutare e conservare il mondo e le sue eterne configurazioni nel continuo avvicendarsi di nuove separazioni e di nuovi congiungimenti, nel continuo sconvolgimento e superamento di frontiere che delimitano e limitano cose e persone:

“a viagem continua. […] Os homens e as mulheres seguirão o seu caminho, que futuro, que tempo, que destino. A vara de negrilho está verde, talvez floresça no ano que vem”.

“Il viaggio continua. […] Gli uomini e le donne proseguiranno il loro cammino, che futuro, che tempo, che destino. La bacchetta d’olmo è verde, forse fiorirà l’anno prossimo”.

E il viaggio è proseguito, e la bacchetta d’olmo, magica, ha tracciato sulla pagina ancora tanti segni e tanti ancora ne traccerà, per guidarci, quale indispensabile bussola, nel mare delle inquietudini e delle angosce con cui ci circonda e ci assedia il tempo presente.

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Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE