Critica letteraria

Recensione a “La Faccia. Omaggio a Kafka” di Gianfranco Pecchinenda

Gregorio è un ex-calciatore dell’Atletico Carabobo e lo scarafaggio è il suo avvocato, o almeno sembra. Perché nulla è chiaro. Sembra. Il delitto, aver ucciso la moglie, perché era una donna “castrante”. E perché la mamma, poi? Ne vogliamo parlare? E la società? Anche. E chi gli ha detto di rincorrere per gioco una palla di cuoio, non scherziamo non può essere una cosa seria. Giocare per professione. Il gioco della vita, il perdersi nel gioco e giocare a giocare.
Invece, è un testo “maledettamente” serio questo La Faccia. Un omaggio a Kafka di Gianfranco Pecchinenda, un testo autentico, sincero, né uno scherzo, né un tentativo letterario o omaggio, ma una vivisezione di un dolore che non si riesce ad esorcizzare. Quale? La solitudine.
Nonostante l’impressione che al testo siano mancate le cure di un buon editor, lo stile narrativo è compatto e la voce dell’autore ha una forte identità. Gregorio, ex-calciatore che non è riuscito mai a stare «per più di tre giorni a scuola o in un qualsiasi progetto di formazione», cita Kafka al proprio avvocato ed il suo flusso di coscienza è ossessivamente colto e si muove sempre su di un registro alto. Forse perché Gregorio incontra due ossessionati e complessi intellettuali, una donna polacca in corriera, questa sì, empatica e non castrante, ed un professore Augusto Cimmino, Augustus significava felice, ma non lo è, che è una sorta di alter ego di Gregorio.
La donna è la madre, la donna è la moglie, la donna è la mantide che mangia il cervello del nostro povero Gregorio. La mantide femmina decide di “far perdere la testa”. E Gregorio la perde, come perde il lavoro, ed infine la libertà, è in carcere alla fine del libro. Ma soprattutto, come spiega il professor Augusto Cimmino, perde il contatto con la realtà, l’ idios kosmos. La donna castrante, una di quelle donne in carriera, forte e volitive, magari una buona borghese della Firenze bene. Il matrimonio del nostro Gregorio fallisce, per la cronaca due erano falliti al professore alter-ego Cimmino, ed ora rimane solo la solitudine e la follia. Topos classico: lei lo lascia per andare a vivere con il suo miglior amico, meno banale la risposta di lui: rimani qua ed invita anche lui, non sarebbe bello avere due compagni? E così lui, il nostro scarafaggio-calciatore, rimane solo con le sue fragilità e debolezze e questi flussi di coscienze ed alterazioni di realtà, e l’ipertrofia del suo io.
Di certo Pecchinenda ha il merito di non aver fatto un pastiche di Kafka, non è un libro che fa il verso a Kafka, ma lo espande. Sia il narratore che i personaggi del libro sono “maledettamente” seri, precisi, scientifici nel raccontare la loro visione dei fatti e della realtà, del Fato, destino, il rimorso ed i soliti grandi temi dell’esistenza.
Si dice che Kafka ridesse mentre leggeva agli amici i suoi racconti, che noi preferiamo chiamare parabole. Se è vero non lo sapremo mai, ma di certo vi è un umorismo amarissimo nei testi di Kafka, tutto ebraico e kaddish; l’umorismo è un mistero della nostra specie. Tra l’altro, in questi giorni è uscito per Mondadori l’omonimo saggio che Pirandello scrisse per la conferma a professore ordinario – l’umorismo. Accademici, umorismo, flussi di coscienza, magari gli immancabili maestri del sospetto Freud e Nietzsche. Il paradosso è che l’accademia (come nei discorsi di Cimmino) vuole essere e pretende di essere scientifica, ma non ci crede nemmeno lo stesso professore Augusto Cimmino, teorico del tempo che passa e dell’io che non sono più io. Il tempo semplicemente passa, molta filosofia pure.
Il testo ci consegna inoltre, in una scrittura asciutta, anche delle piccole chicche, come la presentazione dell’assistente-lacchè in un sistema «paradossalmente paramilitare»; «Giorgio è stato uno studente certamente di prim’ordine, in progressivo percorso di inaridimento ben camuffato da un discreto e mai banale senso dell’umorismo».
È un testo scritto bene, preciso, senza sbavature. Curiosa è la pre-messa di Alfonso Amendola, utile per parlarci dell’autore e dei suoi lavori precedenti, sostituendo la solita bibliografia in quarta di copertina. Non mi sentirei di dire però che un racconto lungo come La faccia sia un omaggio, come scrive Amendola e come recita il sottotitolo del testo. Cos’è un omaggio? Mistero dei ministeri ed altri misteri degli accademici che amano le prefazioni e gli omaggi. Perché se dovessimo indicare il genere del libro o i registri in cui si muove, non sapremmo indicarlo con certezza. Né accademico (mancano i riferimenti colti “bibliografici” immancabili), né letteratura d’immaginazione pura, d’intreccio o d’ambiente (ad esempio, alla fine, Gregorio è alla ricerca di uno «scavafosse», vuole scavare, scavare, scendere nel profondo, e proprio perché ce lo dice e non c’è lo fa vedere, più che un’opera di immaginazione è didascalica), ma tanto meno anche se ci sono passaggi teorici, è un libro filosofico o sociologico, anche se l’idea che la vita è solo simulacro e simulazione, ci fa pensare a Baudrillard o ad un’ennesima edizione del mito della caverna di Platone.
Azzardiamo un’ipotesi: deve esserci qualcosa di una dolorosa esperienza autobiografica dell’autore nel testo: «la scrittura come ricerca della sincerità (non dell’autentico sia ben chiaro)», scrive Amendola nella premessa – perché si può scrivere come ricerca della falsità? Noi pensiamo che la messinscena del dolore e della fatica di vivere e di essere “normali” dei personaggi di Pecchinenda in questo testo sia autentica, in letteratura si dice verosimile, ma forse proprio per questo l’autore non è riuscito a gestirla, a svilupparla come uno scrittore forte, cioè ex-cattedra e con umorismo, che è sempre una forma di distacco dell’autore dall’opera. E non è detto che sia un male. Anzi. Più di altri libri che abbiamo in passato avuto modo di leggere dello stesso autore, qui vi è qualcosa di più vivo e meno letterario; sì, non è una brutta parola, qualcosa di più personale.
Ma rimane l’interrogativo di fondo. Qual è questa faccia che Gregorio vede fuori dal finestrino della corriera? Chi lo osserva? Vale la pena leggere il libro di Gianfranco Pecchinenda perché ognuno potrà dare un volto, il proprio volto, alla faccia dell’autocoscienza che lo guarda da fuori al finestrino della corriera (penso di aver scritto questa frase solo per poter citare ancora questa parola “corriera” che sembra uscire da un italiano degli anni Sessanta).
Corriera, corriere, correre, è un testo che corre via. Un libricino sul tempo e la solitudine, e le mantidi che mangiano gli scarafaggi, e si legge tutto d’un fiato.

Michele Infante

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