La mia ombra di spettatore su Riccardo III. Angiulli alla Galleria Toledo
da William Shakespeare
drammaturgia e regia Laura Angiulli
con Giovanni Battaglia, Alessandra D’Elia, Stefano Jotti
scena Rosario Squillace
luci Cesare Accetta
assistente alla regia Flavia Francioso
responsabile tecnico Luigi Agliarulo
Teatro coop. Produzioni
Galleria Toledo
La mia ombra di spettatore su Riccardo III. E ciò accade non in uno spettacolo d’avanguardia e nemmeno in una delle tante riletture delle opere Shakespeariane di cui abbondano i cartelloni di teatro contemporaneo (ma chi l’ha detto che bisogno necessariamente riattualizzare il bardo immortale e farlo parlare con la lingua d’oggi per coinvolgere il pubblico post-moderno? mica sono tutti Carmelo Bene!).
Allora, la mia ombra di spettatore su Riccardo III e non in una di quelle rappresentazioni che sconvolgono, o come dicono le brochure colorate, «propongono una rilettura di Shakespeare» con tante di effetti speciali e digitali, e che vogliono, sottolineo “vogliono”, anzi pretendono di coinvolgere il pubblico; ma in una messa in scena minimalista ed essenziale. E’ il Riccardo III, invito a corte di Laura Angiulli in scena per la seconda stagione e la seconda volta alla Gallaria Toledo. Ho colto l’invito, anche quest’anno – il sottoscritto c’era anche alla rappresentazione del 2011 – e così mi sono seduto a corte. Sedersi a corte, significa raccogliersi in scena come spettatori a pochi centimetri dagli attori, ci solo le sedie ed i tre attori, e le luci fioche da oratorio, da confessionale in penombra in una grande chiesa di quelle con i lucernai alti. Il fatto che ci sia tornato, dice tutto il piacere rinnovato che se ne possa provare, e anche che la scelta minimalista paga, perché non appesantisce e non snatura la poesia del testo. Il bis si può fare solo dei cibi leggeri.
Allora succede che nella scena finale del delirio, sogno onirico, ritorno alla realtà di Riccardo III, il classico fascio di luce che proviene dall’alto e dovrebbe colpire l’attore disteso sul palcoscenico, colpisce di spalle il mio corpo di spettatore, e vedo proiettato sul volto di Riccardo la mia faccia. Non è un effetto voluto, essendo il primo a destra, ed essendo l’attore disteso per terra a pochi centimetri da me, è inevitabile, causale, una magia nella magia imprevedibile del teatro, ed avviene solo per me.
Per un attimo, il meccanismo classico dell’immedesimazione ha funzionato, e ho visto le mie labbra ripetere le parole di Riccardo III (è un monologo – va detto – che so quasi a memoria). Quello della Angiulli è un teatro di parola, o meglio quello di Shakespeare è un teatro di parola, dialoghi poetici, e metafore tra le più leziose e raffinate. Seduzioni, intrighi, autocoscienza del male in pubblico, cose di tutti i giorni dunque, ma dove ogni parola e metafora essendo poesia nella sua essenza si presenta alle tue orecchie, e dice: “Guarda che sono nuova, non mi hai mai sentito prima, ti apro un mondo nella mente”. Non a caso, vado a vedere la Angiulli per ascoltare Shakespeare. Altrimenti rimarrei a casa su facebook, a parlare lo sgrammaticato dialetto ammiccante, con le “k” al posto delle “che” ed il misto tra colloquiale e scrittura, slang e napoletanismi che solo a me non fanno ridere.
Teatro di parole poetiche, invece, quello della Angiulli, tre attori, 5 personaggi, che non si cambiano nemmeno d’abito, e solo tre oggetti di scena, un libro di preghiere cristiane, un velo nero, ed una corona: falsa pietà, simbolo universale di lutto e quel “cerchio magico” (Enrico VI) che posto sulla testa di un Enrico, di un Edoardo o di un Riccardo, da potere. Nel Macbeth – il teatro di Shakespeare è ossessionato dal simbolo della CORONA – si legge «Così, sulla testa mi hanno messo una corona infeconda». Si noti come Riccardo III, sia l’alter ego di Macbeth di «Io mi sono satollato di orrori». Riccardo III, Enrico VI, Machbeth, aveva ragione Proust, un grande autore scrive un solo grande libro.
Cosa è vivo e cosa è morto nella lingua di Shakespeare. La parodia del male, fatta dal male stesso. Un protagonista che non si prende sul serio, e praticamente cerca il “suicidio” alzando di volta in volta l’asticella del male da compiere, e consapevole che in un mondo dove tutto è male, il prossimo a farsi male sarebbe stato lui stesso. E lo sa fin dall’inizio, non si deve scoprire il come va a finire, il-chi-ha-ucciso-chi, come quando seduti davanti al televisore al sicuro nel salotto di casa, guardiamo uno dei tanti mediocri gialli da “uh che brivido!” che tanto ci piacciono. Chi ha ucciso chi c’è lo dice l’assassino stesso Riccardo III, testa (movente) e mano (autore) dei delitti, e non c’è nessun commissiario del Montecalvario (il teatro è in via Concezione a Montecalvario) o del Montealbano (quello vicino Roma, s’intende) ad investigare, perchè il-chi-ha-ucciso-chi ha già da solo iniziato l’indagine su se stesso (vi dice niente Raskolnikov?), ed è Riccardo stesso.
Anzi, quando si legge Shakespeare ci viene quasi il dubbio che i veri assassini siamo noi stessi, quando guardiamo le solite trite trame dei romanzetti da Strega e/o leggiamo i soliti romanzi gialli, uccidendo la nostra immaginazione poetica.
Il teatro oggi rimane una forma mediale di intimità e concentrazione, per le spettacolarizzazione bisogna stare attenti (oltre che già ci sono Cameron e Spielberg), quelle come nella Ciociara di Annibale Ruccello vista al Bellini lo scorso anno per la regia di Roberta Torre, non aggiungono molto al testo. Beh, possiamo parlarne un po’ male, a distanza di un anno, e di passaggio in una recensione in cui non c’entra nulla? Di certo no. Ecco qui che l’effetto malvagio e cattivo di Ricccardo III rimane anche mentre scrivo questa recensione. “Domani quando scrivi la recensione pensa a me”.
Ormai il teatro diventa kitsch, mentre come in La morte di Babbo Natale del Tony Clifton Circus (visto sempre qualche anno fà alla Galleria Toledo) il kitsch può diventare teatro di altissimo livello. L’altra possibilità è lo stile, la scelta e la proposta teatrale della Angiulli, almeno che la sua non sia – in tempo di crisi come questo – una scelta di economia (niente sceneggiatore e niente arredamento di scena), tre attori, che possono mettere anche il vestito di scena direttamente quando partono in tournée, niente tir per gli spostamenti, e magari si leggono il libro di scena durante il viaggio :-). La scena. Ecco. L’intuizione è l’atmosfera ed il raccoglimento della scena.
La scena permette nella sua intimità di apprezzare le modulazioni di suono della voce di Riccardo III (interpretato da Giovanni Battaglia) con un tono un po’ malvagio, un po’ comico, o meglio sottolineando il lato comico della malvagità. La scena permette di vedere gli occhi stralunati e l’espressione del viso quasi caricaturale di Clarence (Stefano Jotti), che allude al fatto che Clarence non è l’agnellino sacrificale del cattivo fratellastro Riccardo, ma è il feroce Clarence dell’Enrico VI, sanguinario e feroce tanto quanto il fratello. Ed infine, lo spettacolo registra il tentativo dell’attrice Alessandra D’Elia d’interpretare tre diversi personaggi femminili senza cambiarsi di vestito, ma cercando solo di cambiare tono di voce. Lodevole, ma per sottolineare anche la differenza di età tra la vecchia regina Margherita, la giovane Anna, e la matura regina Elisabetta, l’interpretazione si fa forse un pò troppo carica, senza però da carica diventare carica-turale, rischio naturale per un testo come quello di Shakespeare ( lo sapeva anche lo stesso Vittorio Gasmann quando veniva imitato da Gigi Proietti per la sua voce “impostata”). E’ qui invece brava Alessandra D’Elia ad evitare l’effetto cappuccetto rosso. Cos’è? Quando la voce di un attore assomiglia alla voce del lupo che dopo aver mangiato la nonna di cappuccetto rosso e messosi al suo posto nel letto, finge di parlare come la nonna.
Gigioneggiano istrionici gli attori troppo consapevoli di interpretare Shakespeare il bardo immortale, ovviamente la mia perversione di critico, e soprattutto di letterato, molto più intensa della perversione di Riccardo III, sarebbe che gli attori si limitassero a leggere Shakespeare, e che la luce, invece di colpire la mia schiena, fosse indirizzata ai sacri fogli bianchi dove c’è il testo immortale e divino. Ma in quel caso, come potrei mai provare, il senso di spiazzamento che ho sentito quando la mia ombra ha proiettato il mio viso su quello di Giovanni Battaglia ai miei piedi e sono diventato Riccardo III?
Mi dia Cesare Accetta più luce, per meglio proiettarmi in scena, come in questa recensione.
Michele Infante
p.s. l’effetto cappuccetto rosso non cercatolo su google è una mia invenzione