Lei dunque capirà di Claudio Magris
Teatro Gobetti – Torino (22-27 gennaio 2013)
con Daniela Giovannetti
regia Antonio Calenda
[Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia]
Non vi è accesso per la poesia nella casa dei morti. Orfeo, come tutti i vivi, ne è bandito e escluso, e non può infrangerne le regole. Può illudersi, coltivare speranze, fidarsi del potere persuasivo del proprio talento. Ma le possibilità della sua arte si arrestano all’invocazione, e non possono sovvertire l’ordine delle cose: nessuno ritorna vivo. Euridice lo sa. E ce lo racconta.
D’altronde il testo di Magris (Garzanti, 2006), piuttosto che la rivisitazione del mito, ne è un’appendice, una prosecuzione. Siamo letteralmente nell’aldilà, nel dopo: Euridice, rivolata indietro per sempre e ormai sola nel suo antro, si rivolge ad Ade e comincia a parlare. Il suo monologo è un progressivo disvelamento di quel che si cela dentro il rapporto tra amore e poesia. Per quale motivo il miracolo ormai prossimo non si è compiuto e lei non è ritornata alla luce? Cosa è accaduto? E cos’è che realmente cercava Orfeo? Qual è la natura del poeta?
Dal profondo del suo abisso Euridice ci fa entrare nel laboratorio segreto della scrittura. Se il mito di Orfeo è il racconto dell’ispirazione generatrice, dello strazio poetico, qui veniamo posti dinanzi a un capovolgimento dei suoi canoni interpretativi. È Euridice la protagonista, la vera artefice, e mentre tesse la tela dei ricordi, tra rivendicazioni risentite e erotiche malinconie, sta in realtà ribadendo il suo ruolo attivo dentro i meccanismi della creazione artistica. La voce di tutte le muse, di tutti gli oggetti contemplati e rifatti dagli artisti, risuona nelle sue parole mostrandoci quel che il pubblico non ama vedere: l’arte non è che menzogna. E i poeti soltanto strumenti, vuoti prestatori di voce il cui bel canto non è che la maschera, l’ignaro belletto del nulla. È evidente: siamo dentro un territorio sotterraneo e vergognoso, in cui lei medesima soltanto ora trova il coraggio di muoversi con assoluta padronanza. E può farlo proprio perché è confinata nell’ombra senza fine, dove nessuno può ascoltarla, dove persino il suo muto interlocutore è un’assenza misteriosa, impalpabile, illusoria. L’inconsistenza corporea rende però il suo incedere libero e sicuro: nessuno parrebbe ascoltarla, ma essa non necessita crediti di attenzione, perché ci dice una verità che sta ben oltre la finzione degli incanti lirici che vige tra i vivi. La sua immersione irreversibile l’ha resa libera, sebbene il disincanto abbia il suo prezzo. Anche i morti non hanno scampo, perché non vi è alcun oblio, alcuna dimenticanza, alcuna redenzione. Nel sottosuolo continua a non esservi scopo né verità. Né c’è posto per l’illusione e l’ipocrisia estetica che dilettano il mondo dei vivi.
Euridice e la sua morte continuano ad alimentare il canto di Orfeo, perché la perdita e la mancanza sono la materia stessa della poesia. Con l’egoismo di tutti gli artisti lui tenta di andare a riprenderla per conoscere la verità della casa dei morti. Ma lì dentro una luce ugualmente fioca non lascia trapelare alcunché: motivo per cui la distanza non va colmata, anzi va preservata. Ed è questo l’estremo sacrificio, la definitiva rinuncia. Nessun amore è più forte di quello di lei che è morta. Di lei che sceglie di tenere separati il mondo di sopra e quello di sotto, le parole e il loro oggetto. Da quest’inganno si genera l’arte.
Tra l’amore e la morte c’è il vuoto di una soglia che un corpo di donna giovane attraversa, in cui essa si muove, riflette e ricorda. Questo corpo è un oggetto magico. Presta la voce a parole che sono finalmente libere da costrizioni e illusioni. Eppure lo spazio di questa scena non è che un sogno. Il sogno di un fantasma che svanisce, di un’ombra che sceglie di restare tale.
Roberto Balzano