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Un classico da riscoprire Un diario che diventa ossessione – La chiave di Junichiro Tanizaki letto da Davide L. Malesi

La chiave di Junichiro Tanizaki è un libro erotico. Non perché, in esso, abbondino le
minute e/o appassionanti descrizioni di atti sessuali (che non ci sono proprio); né
perché i protagonisti si abbandonino a chissà quali esperienze acrobatiche, sul fronte
della sessualità (di volta in volta riusciamo a intuire, più o meno, l’entità e la densità
delle trasgressioni compiute dai personaggi: vale a dire ch’essi ci raccontano di
aver vissuto un’esperienza particolarmente intensa, magari, ma poi questa esperienza
non viene descritta, bensì appena suggerita). Ne La chiave si parla di erotismo
non nel senso più “funambolico” o “descrittivo” del termine, bensì nel senso de “il
complesso delle manifestazioni dell’impulso sessuale sul piano psicologico, affettivo,
comportamentale” (come ci dice il De Mauro-Paravia). Ovvero: ne La chiave, questo
complesso di manifestazioni domina ogni azione dei protagonisti, ne pervade ogni
gesto, insomma ne detta il comportamento. Ciò che i personaggi fanno, lo fanno
perché spinti da una molteplicità d’impulsi di ordine sessuale. In questo senso, La
chiave è un libro terribilmente erotico. Com’è un libro erotico, per dire, Le relazioni
pericolose di De Laclos. Ed è un libro, nella sua brevità, dotato di certe qualità importanti
(importanti per un romanzo come questo, mi pare). Cioè: grande attenzione al
profilo psicologico dei protagonisti, asciuttezza della lingua (dove spesso i libri erotici,
veri o presunti tali, si perdono in barocchismi e ampollosità), un equilibrio del
testo pressoché perfetto nel “non dire” piuttosto che nel “dire”: col risultato che
tutto ciò che il libro nasconde diventa intensamente desiderato dal lettore: a riprova
(se mai ce ne fosse bisogna) del fatto che in materia d’erotismo, meno si vede e
meglio è. Si aggiunga che il libro è in forma di diario, un diario che (diversamente
da ciò che accade con molti romanzi “diaristici”) interagisce col mondo: vale a dire
che viene nascosto, spostato, preso, chiuso, aperto, serrato col nastro adesivo affinché
non venga letto. Perché, da parte di chi scrive il diario (e di diari ce ne sono, qui,
ben due: quello di un uomo di mezza età, e quello della moglie di dieci anni più giovane)
esiste il timore (o il desiderio, o tutt’e due le cose) che l’altro coniuge possa
leggere il proprio diario intimo.
Cerco di dirvi qualcosa della storia, senza per questo sottrarvi alcun piacere o rovinarvi,
inavvertitamente, questo o quel colpo di scena. C’è, in questo romanzo, una
coppia di coniugi giapponesi. Ciascuno tiene un diario, in cui annota essenzialmente
vicende relative alla propria vita di coppia, e alle proprie fantasie, o esigenze, sessuali.
Questo aspetto di “descrizione dell’immaginario erotico” è, all’inizio, più spinto
nel marito che nella moglie: dacché lui è descritto (anzi, si descrive da sé) come
un uomo animato da inquietudini erotiche, mentre lei (o vorrebbe essere) il ritratto
della moglie tradizionale giapponese, ancorata ai tradizionali valori della famiglia e
dell’obbedienza al marito. In realtà, si capisce da subito (e per questo non esito a
scriverlo qui) che quella della signora è un po’ una posa: e ch’ella, ben lontana dall’essere
una moglie docile e acquiescente, si serve spietatamente del ruolo che
impersona, per appagare le proprie fantasie più morbose.
Mi rendo conto che qui ci vorrebbe un esempio: e cerco di farlo, anche questo,
senza rovinarvi il gusto del libro. Uno degli episodi più intriganti del romanzo, è
quello in cui la signora – mentre si trova in apparente stato d’incoscienza – viene
fotografata nuda dal marito. La signora, in realtà, non è del tutto incosciente: si
accorge degli scatti del flash e, a un certo punto, capisce quel che le sta accadendo.
Ma non fa nulla per evitare che il marito ripeta, più volte, quello stesso gioco:
“se mio marito desidera farmi ubriacare per poi fotografarmi nuda mentre sono in
stato di semincoscienza”, è – in sintesi – il pensiero di lei, “è meglio ch’io sia obbediente:
è mio dovere di brava moglie giapponese. Certo, se provasse a farlo mentre
sono padrona di me glielo impedirei: ma visto che prima si accerta ch’io sia incosciente,
o finga di non esserlo, non ho motivo di opporre resistenza”. Tutto il libro
è zeppo, dal principio alla fine, di equilibrismi del genere (non solo da parte della
signora). Sembra quasi voler suggerire, Tanizaki, che l’esplorazioni delle più recesse
pulsioni erotiche imponga, a chi la esercita, una sorta di auto-giustificazione. “Lo
faccio perché sì, lo voglio: ma lo faccio anche perché lo vuole lui, o lei, o l’altro” (da
bravo romanzo erotico, La chiave contiene tutti questi caratteri: “lui”, “lei” e
“l’altro”).
Poi: questo è anche un libro tragico. La trama è sintetizzata, in quarta di copertina,
con queste parole: “La chiave di un cassetto, lasciata cadere apparentemente per
caso da un marito ansioso di esplorare nuovi orizzonti sessuali insieme alla moglie
dalla quale è irresistibilmente attratto, conduce la donna su una strada di lussuria e
perdizione dalla quale non riuscirà più ad allontanarsi. La donna scopre infatti, leggendo
il diario del marito, i suoi segreti, la sua inarrestabile passione, la necessità di
fomentare i suoi istinti sessuali con un gioco ingegnoso, ma rischiosissimo, alimentato
dalla gelosia, e si fa invischiare in questa rete, in una crescente tensione fatta
di amore-odio che coinvolge a poco a poco anche altre persone”. E ancora : “[questa
tensione] condurrà infine il protagonista all’autodistruzione e alla morte”. Ci
dev’essere una ragione profonda, da qualche parte, per cui molti grandi libri erotici
sono anche libri assai moraleggianti: in cui il percorso (tutto in discesa) verso l’appagamento
delle passioni, la sfrenatezza dei desideri, distrugge i protagonisti e le
loro intere vite. O forse è una ragione nemmeno tanto profonda: dacché, tramite
questi romanzi, ogni cultura incline alla sensualità (e poche culture sono sensuali,
cioè legate alla percezione dei sensi, quanto la giapponese) si informa, si avverte, si
mette a parte dei rischi dell’abbandono sensuale. Che è sì una delle esperienze più
inebrianti consentite a un essere umano, ma è pure una delle più rischiose: dacché
ci porta a concentrarci sul “qui ed ora” e a dimenticare valori, legami, freni morali
e via discorrendo, in favore di uno stato ch’è – appunto – di abbandono. Uno stato
in cui non siamo, più, padroni di noi stessi: il che è certamente gratificante, ma
anche pericoloso. E uno stato, pure, transitorio: in cui possiamo agire in modi tali da
farci rimpiangere, una volta che l’abbandono sensuale abbia fatto il suo tempo, gli
esiti delle nostre azioni.

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