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LA GUERRA NELLA TV – LA GUERRA DELLA TV a cura di Roberto Balzano

Tre settimane di combattimenti, migliaia di ore di trasmissioni televisive, centinaia di giornalisti accreditati al seguito dell’esercito anglo-americano, 13 vittime tra cronisti e reporter. Questo, per ora, il bilancio mediatico della guerra all’Iraq.
Al quale vanno aggiunti i mesi dedicati alle snervanti trattative diplomatiche, e l’enorme risonanza avuta nei media (principalmente europei) dalle iniziative del movimento pacifista.
Questa guerra ha rappresentato il maggiore evento mediatico degli ultimi anni, paragonabile soltanto al crollo delle Twin Towers in diretta televisiva l’11 settembre di due anni fa. Ma se quello fu un imprevisto, una tragedia non preventivata e non preventivabile, i media, questa volta, si sono preparati al conflitto in Iraq con mesi di anticipo, con investimenti miliardari, e uno sforzo anche professionale senza precedenti. Al centro di questo processo ci sono state le televisioni. Il pubblico di tutto il mondo, infatti, si è dato appuntamento davanti ai teleschermi la notte del 20 marzo scorso per assistere all’inizio della guerra. E da quel momento sono state tre settimane di guerra in diretta tv. Il balletto di cifre sui morti, le torture ai prigionieri, le bombe sui civili, l’avanzata nel deserto, la presa di Baghdad, le statue di Saddam: tutto è stato mostrato dalle televisioni. O, almeno, questo è quello che hanno tentato di farci credere.
In ogni caso resta indiscutibile che il conflitto in Iraq abbia indicato una nuova via, un nuovo modo di rappresentare la guerra da parte della televisione. Ma, forse, anche un diverso modo di servirsi della tv da parte dei governi. La guerra come evento mediatico, l’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa per veicolare messaggi durante il conflitto: potrebbero essere parte integrante di una precisa strategia “militare”. A questo punto, però, che tipo di scenari si prospettano? Bisogna ripensare il ruolo della televisione? E quali sono le responsabilità della politica?
Abbiamo invitato a discuterne esperti del mondo della cultura e della comunicazione.

Giancarlo De Cataldo

L’interesse per il conflitto in Iraq è stato reale e diffuso, e ha travalicato i limiti del circoletto mediatico. Se ne parlava al bar, nel cortile della scuola dove vanno i miei figli, a cena con gli amici. Ci hanno impressionato, in egual misura, lo scatenarsi repentino della guerra, il silenzio che ha accolto i moniti disperati del Papa e l’altrettanto repentina conclusione (almeno per il momento) delle operazioni più strettamente belliche. Non credo molto ai mostri domestici perché fra le persone è diffusa anche una sana diffidenza dal mezzo televisivo: oltretutto, questa guerra-in-tv, accanto ai noiosissimi esperti (sono sotto campana di vetro, artificialmente tenuti in vita, pronti a essere richiamati in servizio alla bisogna, ossia quando il vespone di turno spacca l’involucro o suona il gong) ha riportato prepotentemente alla ribalta il Giornalista in Prima Linea, quello che le bombe le vede cadere dal vivo, e non si limita a guardarle sullo schermo.
Certo il tam tam continuo di notizie rischia di generare una grande confusione nella platea televisiva! Ma la confusione è un’arma di governo, una potente arma di governo! La confusione è l’anima stessa dell’informazione via TV. Personalmente, sono contrario alle censure, di ogni genere, forma, tipo. Ma se c’è un appunto da muovere al carrozzone dei media è, semmai, quello di aver eccessivamente edulcorato la violenza della guerra. Non si può esecrare la violenza senza conoscerla. E, dunque, mostrarla. Ma dobbiamo comunque considerare che l’informazione è sottoposta ad una pesante operazione di filtraggio. Da quando è caduto il Muro di Berlino i media grondano ideologia. Il filtro ideologico è, come si diceva un tempo, “a monte”, nella confezione del servizio, nell’impaginazione retorico/propagandistica, nei commenti degli esperti. In tutto ciò, il reportage “puro e semplice”, laddove riesca a filtrare fra le rigide maglie del filtro ideologico, è una boccata d’ossigeno. Mentre il ring continuo dei programmi d’intrattenimento (o soi-disant di approfondimento) è ideologia brutale, manipolazione, contrazione del tempo umano necessario alla riflessione e alla verifica, sua trasformazione in un agglomerato di “shots” pieni (rectius: vuoti) di Nulla. Stupidità eletta a Sistema. E, nel contempo, accanto al modello “marziale” propugnato da questo tipo di programmi sopravvive, in ottima salute, il modello “Mulino Bianco” di molta fiction.
Si dovrebbe ripensare la televisione, ma è impossibile in un regime duo(mono?)-polistico. Se ne potrà cominciare a parlarne se e quando sulla scena si affacceranno dieci, quindici soggetti, latori di differenziati stili, idee, valori, visioni della realtà.
La guerra è mediatica (io credo) nella misura in cui gusti, orientamenti, vocazioni e culture si possano mediaticamente determinare. Ma se stiamo ai fatti, dobbiamo affermare che gli Americani hanno vinto:
– nei tempi previsti;
– nei modi previsti;
– con (dal punto di vista strettamente strategico) il miglior risultato possibile sul piano del conto profitti e perdite: infliggendo il massimo danno al nemico con il maggior utile proprio. Hanno vinto sul campo, mica all’obiettivo!
È questa la verità che si impone, di là dalla propaganda e dall’influenza (in questo caso limitata) del mezzo. Insomma, non sopravvalutiamo i media: controllarli è fondamentale, ma non esauriscono in sé tutte le infinite potenzialità dell’umana depravazione. La TV sarà anche diabolica, ma il peggior Satana resta pur sempre lui, il buon vecchio bipede implume.

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La II guerra del golfo si è basata, mediaticamente, su una serie di ambiguità.
Da un lato Saddam conosceva la debolezza della cultura occidentale e la sua avversione per la violenza e pensava di strumentalizzarla.
Come per la prima guerra del golfo, l’esibizione dei prigionieri poteva essere usata come arma impropria. Saddam sapeva anche che un protrarsi delle operazioni di guerra avrebbe portato all’esibizione delle vittime: donne, bambini, civili e puntava su un allungamento del conflitto. Lo strazio delle vittime è fondamentale per ottenere l’”effetto Vietnam”.
Bush non poteva replicare il vuoto mediatico della I guerra del golfo, perché si trattava allora di bombardamenti dall’alto. Per abbattere un regime, il territorio deve essere conquistato anche da truppe di terra. La guerra riacquista visibilità, inoltre, per la prima volta, con il videotelefono, le azioni, anche marginali, potevano andare in diretta senza difficoltà.
Lo sforzo dell’amministrazione americana è andato quindi in direzione di una mitizzazione della guerra. La guerra è stata presentata come guerra giusta. Sono stati rispolverati gli stereotipi hollywoodiani della guerra come fabbrica di civiltà. Per evitare l’effetto Vietnam la scommessa si è basata poi sull’accorciamento dei tempi del conflitto sul territorio.
Si è trattato di lavorare prima in campo lungo, con bombardamenti su obiettivi mirati. Le immagini scenografiche delle città in fiamme suggerivano con toni cromatici da technicolor, la dimensione eroica della guerra, in contrapposizione ai lampi verdi da videogame della I guerra del golfo.
Dato che i danni mediatici possono venire soprattutto dal prolungarsi del conflitto e da una visione ravvicinata sul territorio, per la prima volta i reporter di guerra sono stati affidati alla protezione delle truppe per ottenere l’effetto di una completa saldatura tra il punto di vista dei media e dei soldati. I giornalisti di guerra, condividendo le esperienze dei militari, sapevano anche che la loro vita dipendeva da loro. La loro visione non poteva che essere di parte.
Ma vi sono immagini che sfuggono a qualsiasi logica, a qualsiasi ideologia, a qualsiasi manipolazione.
Ci sono immagini che non possono essere recuperate. Così ancora una volta, il protrarsi del conflitto ha portato con sé la censura. Non a caso tra gli obiettivi militari di questa guerra troviamo le sedi della televisione irachena. E il bombardamento dei giornalisti all’Hotel Palesatine, non è stato certo giustificato dalla presenza dei cecchini.
L’informazione non è un obiettivo militare. La sua aggressione non è giustificata né giustificabile. Eppure evidentemente è considerata essenziale per battere il nemico.
C’è quindi anche una censura interna dei media americani. Nell’articolo su La Repubblica del 26-03-3003 “La guerra che si vede in Europa e che i media USA non raccontano”, Maurizio Ricci constata come le immagini americane sulla guerra siano a favore della tesi di governo “è una guerra pulita, asettica, dove, sui teleschermi, quasi non si vede sangue e i civili inquadrati sono quasi solo quelli che strappano, tra le uniformi dei marines, i manifesti di Saddam”. Insomma, le divergenze tra europei ed americani, su questa guerra, sono legate ad un uso strumentale delle immagini da parte dei media: “vediamo le cose in modo diverso, perché vediamo notizie diverse”.
Del resto l’informazione americana non si limita alla censura, all’omissione, al black-out.
Se il nemico della guerra è l’informazione, bisogna combattere sul piano dell’informazione.
La censura è solo una forma di difesa.
Per la prima volta accanto alle armi intelligenti sono state schierate le truppe dell’informazione di parte.
La rete di informazione Fox e addirittura la storica Cnn hanno assunto un atteggiamento attivo nei confronti della difesa delle ragioni della patria.
L’informazione americana sembra uscita definitivamente dalla storica fusione di critica e di controllo dell’azione pubblica per farsi braccio armato dell’ideologia ufficiale.
Ma, a questo punto, possiamo ancora parlare di libero orientamento dell’opinione pubblica? [•]

Angelo Guglielmi

Un evento come la guerra va maneggiato con cautela. L’eccessivo carico di notizie e il bombardamento mediatico, determinano quello che potremmo chiamare un “effetto rumore”: così come il rumore non permette di distinguere i suoni, allo stesso modo l’eccesso di informazione, al contrario di quanto auspicato, crea una sorta di azzeramento della notizia. Diviene talmente complicato riuscire a gestire e filtrare il flusso di comunicazione che lo spettatore si trova in una condizione praticamente inerte.
Oggi viviamo una fase di cambiamento storico: il giornalismo di guerra sta radicalmente mutando. Il realismo e la crudezza di certi servizi, la presenza massiccia di inviati dal fronte: si sta facendo strada un modo esoso di intendere il ruolo della tv nella rappresentazione della guerra. È evidente, ad esempio, che gli operatori che girano per la tv hanno in mente modelli “iconografici” direttamente derivanti dal cinema, dai film di guerra dei vari Kubrick e Coppola.
L’affermarsi di questo modello implica un ripensamento del ruolo della televisione, proprio in quanto veicolo potentissimo di messaggi, e sicuramente siamo di fronte ad una situazione dagli aspetti molteplici. In ogni caso, io tenderei ad evidenziare almeno un aspetto positivo di questa nuova via nel mostrare la guerra. Il maggiore realismo e la comunicazione così attenta, infatti, possono senza dubbio essere uno strumento forte per alimentare l’indignazione ed il rifiuto della guerra. È questo un fattore non secondario, una prospettiva da privilegiare, su cui insistere per adeguare la tv alle esigenze di civiltà e crescita sociale. Io credo, ad esempio, che la grande mobilitazione contro la guerra alla quale abbiamo assistito in questo periodo, sia stata senza dubbio favorita dall’attenzione riservata dai media. Si tratta, per adesso, di una tendenza, ma dalle enormi potenzialità.
La realtà della televisione di oggi, comunque, non è sempre incoraggiante. Pensiamo alla guerra all’Iraq: il flusso di informazioni, di notizie, di servizi e dibattiti, è stato enorme. Ma l’approfondimento, la spiegazione dei reali perché di un evento tremendo come la guerra, è stato, salvo rarissimi casi, di una superficialità disarmante. Il compito della tv deve essere quello di spiegare, di indagare, non di limitarsi a riferire o a mostrare. Molti, ad esempio, di quelli contrari alla guerra all’Iraq, si sono trovati a condividere la posizione di un conservatore come Chirac, ma siamo sicuri che le motivazioni del “no” fossero le stesse? Qualcuno ha provato a spiegarci le ragioni reali di questa guerra? Possibile che la posizione di Blair e degli inglesi fosse motivata soltanto da una non accertata sudditanza nei confronti degli americani? O c’è dell’altro? E se c’è, perché nessuno ce lo racconta? Aldilà di quello che si dice, il pubblico televisivo sarebbe in grado di comprenderlo benissimo…

Franco Monteleone

Non ho una concezione fondamentalista della tv. La realtà che essa mostra entra nelle consuetudini di ascolto di un pubblico molto cambiato. E che ad essa si adegua. È assolutamente naturale che lo spettacolo mediatico della guerra assorba l’attenzione dello spettatore in misura particolare. Ma, nel caso specifico della campagna “Iraqui Freedom”, la ripetitività delle immagini, sempre più o meno le stesse, ha finito per attenuare di molto l’interesse degli spettatori. La tv livella i prodotti che offre, ma per fortuna non è ancora riuscita a livellare la soglia della nostra percezione. Non a caso “Porta a Porta” ha tanto successo, perché almeno tenta, anche se in modo approssimativo, di spiegare ciò che i Tg mostrano soltanto.
Pensiamo ai film di guerra. Essi corrispondono ad un immaginario fortemente correlato all’emotività di un ricordo diretto o indiretto, soprattutto della seconda guerra mondiale. Spesso sono stati grandi opere – Il giorno più lungo o Attack! solo per fare due esempi magistrali – frutto di intensa creatività spettacolare. La realtà descritta dall’immaginazione, come dimostra la fantascienza, è assai più seducente della realtà reale: spesso brutta, sudicia, e sofferente. Questa realtà, diversamente da ciò che si può pensare, non è affatto senza veli, anzi è sempre più censurata e addomesticata.
Proprio per questo non aggiungerei altri filtri a quelli già disposti dagli Uffici Stampa degli eserciti di tutto il mondo. Possiamo dire, per esempio, di aver visto, in un mese di conflitto in Iraq, dei veri reportages? Io non me ne sono accorto. Mi sono accorto invece di una insopportabile iterazione di non-notizie, scodellata sul video, in particolare da una corrispondente del TG 3, con una enfasi emotiva del tutto inutile. L’unica televisione che ha cercato di realizzare una buona copertura informativa sulla guerra è stata Al Jazeera. I media italiani sono stati certamente brillanti nella loro dovizia espositiva ma sostanzialmente inefficaci. Quelli anglosassoni, e soprattutto i media americani, addirittura reticenti, cauti o, come afferma Mark Hertsgaard, falsamente patriottici. I media, è logico, accorrono là dove accadono i disastri: è nella logica dell’informazione. Si tratta di saperli raccontare con coraggio e grande professionalità. Ma ci vuole molta più bravura nel raccontare una battaglia che nel fare il resoconto di un consiglio dei ministri. Il fatto è che nessuno racconta più le guerre, dal momento che non è più libero (e lo sarà sempre meno) di rischiare, di vedere, di riferire. L’esplosione mediatica in estensione ha sacrificato la profondità.
La tv va ripensata, certo, ma la questione andrebbe rivolta a chi governa l’intero sistema, cioè alla politica. Credo, tuttavia, che la politica – nonostante il continuo strapparsi i capelli – sia molto soddisfatta della tv che ha concorso a generare. Almeno in Italia.

Mario Morcellini

Un primo bilancio del ruolo della comunicazione nel conflitto in Iraq non può prescindere dalla constatazione di come la riflessione sull’operato del sistema mediale abbia rappresentato un corollario centrale – se non la vera e propria cifra distintiva – dell’informazione di guerra. In molti casi, e per gran parte del conflitto, il tema della guerra ha rappresentato una sorta di “prisma” attraverso cui ogni mezzo di comunicazione proiettava il racconto di se stesso e degli altri media: mai, prima d’ora, l’autocoscienza dei media era sembrata così coessenziale al conflitto, e persino alla pace.
E, ancora, il tema della guerra – non solo per i media, ma soprattutto per la “gente” – risulta il principale argomento di discussione, all’interno di un panorama in cui la televisione, insieme alla carta stampata, si conferma ancora una volta il vero fulcro del bisogno di comunicazione in momenti di non ordinaria emergenza informativa. Ancora una volta, di fronte alla forza trascinante che – in “tempo di guerra” – il mainstreaming televisivo esercita sul pubblico, molte delle altre forme di mediazione sono sembrate letteralmente impallidire. Tuttavia, i rapporti di forza in campo non sembrano più riducibili all’idea di uno strapotere dei media rispetto alla platea del loro pubblico, ma segnano di fatto una più spiccata capacità di critica e di elaborazione, soprattutto da parte di quel settore di opinione pubblica maggiormente abituata alla frequentazione dei media.
Giorno dopo giorno, le immagini e le notizie sono state esse stesse armi per la battaglia, strumenti di guerra, vero e proprio terreno di contesa. In questo senso, l’aumento dell’attenzione nei confronti delle prestazioni dei media è sicuramente in grado di produrre un’informazione più critica, più puntuale e più libera: il tributo di vite di molti giornalisti sta lì a ricordarcelo.

Pino Scaccia

Il rischio che la guerra diventi spettacolo indubbiamente c’è. Ma ritengo che sia un rischio da correre. Nella gente non c’è semplice curiosità, c’è reale interesse perché anche quest’ultima guerra può avere ripercussioni dirette sulla nostra vita. Dunque, la televisione diventa strumento essenziale per un’informazione in presa diretta. Sarebbe stupido e culturalmente dannoso in certi momenti occuparsi di altro.
L’altro rischio è senza dubbio una sorta di esibizionismo che va evitato rispettando le regole di buonsenso e di coscienza. Credo che molti filtri siano stati messi. Del resto, non va neppure del tutto nascosta la “crudezza” della guerra, altrimenti davvero si sfiora un rischio peggiore: di trasformare la guerra in un esercizio militare, come se non ci fossero lutti e rovine, come se fosse tutto finto.
Nel complesso, parlo della televisione italiana, il conflitto in Iraq è stato seguito bene e in maniera sufficientemente corretta. Soprattutto per la prima volta forse si è stati alla pari con le grandi reti americane sul piano tecnologico, che è la vera svolta della televisione moderna. L’importante ormai non è esserci, ma avere la capacità di comunicare (se possibile, nel momento stesso in cui accade). È evidente che la corsa al futuro è su questo piano, con strumenti sempre più potenti. Ciò richiede uno sforzo economico non indifferente ma è indispensabile per restare competitivi. Il video-telefono ha dimostrato che si possono, ad esempio, coprire anche carenze politiche, si può cioè superare il divieto di trasmettere via satellite: un handicap che nella prima guerra del golfo sfavorì tutte le televisioni del mondo, fuorché la Cnn che riuscì ad ottenere un accordo con il governo di Saddam, diventandone in cambio il megafono. Ma si può fare di più.
In ballo non c’è soltanto una supremazia televisiva, ma lo stesso futuro del mondo. Non c’è dubbio che ormai le guerre, aldilà delle armi, siano diventate conflitti essenzialmente mediatici. L’uso della comunicazione può risultare decisivo e non è più un appannaggio esclusivo della cultura occidentale. Mi diceva la mia interprete croata durante la guerra con i serbi: “Vale più quell’occhio che dieci stinger. Perché con gli stinger si uccidono cento nemici, con quello si vince la guerra”. L’occhio, naturalmente, era quello della telecamera.

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Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE