COMINCIANDO DALL’ INIZIO. RIFLESSIONI SULL’ ESPERIENZA POETICA DEGLI ULTIMI TRENT’ ANNI. di Alfonso Berardinelli
Quando nel 1975 fui chiamato a curare l’antologia Il pubblico della poesia insieme a Franco Cordelli per l’editore Castelvecchi, realizzai un libro di cui non ero fiero. Era un libro nostro, ma anche un libro collettivo, che in un certo senso si era fatto da sé. Noi curatori ne avevamo solo propiziato la nascita. Le idee che ci avevano guidato mi sembravano, naturalmente, abbastanza giuste. Rifiutandoci di fare un’antologia “di tendenza” e cercando invece di capire e di documentare un fenomeno culturale nuovo e imprevisto, andavamo però contro le aspettative non solo della generazione precedente ma anche della nostra. Avanguardisticamente (e secondo un’idea troppo militante dello stesso Benjamin) era ancora diffusa in quegli anni la convinzione che in letteratura e in ogni arte contasse soprattutto la tendenza e non il prodotto finito. Tutto il merito doveva consistere nell’essere più avanti o più indietro nel cammino progressivo della Storia.
Anche se nessuno voleva essere storicista, a me quella sembrava una superstizione storicistica come le altre: solo che alla lotta fra progresso e reazione che aveva caratterizzato la vecchia sinistra, la nuova sinistra aveva sostituito il conflitto fra “avanzato” e “arretrato”, fra avanguardia e retroguardia, nell’illusione di battere il Capitale Sviluppato sul suo stesso terreno. Anche gli artisti e gli scrittori avrebbero dovuto correre e mettersi al passo, come se il tempo nel quale ogni esperienza avveniva fosse unitario, lineare e omogeneo.
Era un modo, mi pareva, per rendere l’arte tautologica e superflua, omologandola alla Storia. Una Storia tra l’altro di cui ci si illudeva di conoscere in anticipo la logica di sviluppo.
Invece il bello della letteratura e soprattutto della poesia per me era soprattutto nelle sue discronie e disomogeneità, nel suo mostrare la Storia più come multiversum che come universo intellettualmente dominabile. Così Cordelli ed io fa¬cemmo un’antologia che accettava di accogliere una pluralità di tendenze e che si apriva a stella in direzioni diverse.
E tuttavia il libro in sé non riusciva a convincermi.
Ma perché avrebbe dovuto? Come ho già detto, sembrava essersi fatto da sé e io non volevo diventare il portavoce e promotore della mia generazione. Quella che avevamo registrato nel corso della nostra inchiesta era indubbiamente una realtà letteraria che emergeva in quegli anni. Ma tutti quei poeti mi interessavano poco e il fatto che l’autocoscienza storica in molti di loro diminuisse, da un lato mi dava il senso di aver scoperto un fenomeno nuovo e dall’altro mi lasciava indifferente. Anni dopo capii che nella nostra antologia-inchiesta pren¬deva corpo una situazione della poesia che si sarebbe ri¬velata tutt’altro che transitoria. Tutti i tentativi successivi di chiu¬dere in un progetto ideologico-editoriale, in una poetica, in un canone minimo di autori quella preoccupante pluralità cen¬trifuga degli anni Settanta si sarebbero rivelati tentativi ingenui o astuti, ma soprattutto inefficaci e fuorvianti. Per tut¬ti i venticinque anni successivi in realtà non si è riusciti a ca¬pire che cosa fosse diventata la nuova poesia italiana.
Noi intanto nel 1975 avevamo messo da parte l’equivoco che aveva permesso ai Novissimi di avere tanto successo: credersi ancora avanguardia e fingere di vivere mezzo secolo prima. Proporre se stessi come la soluzione più avanzata del problema dell’arte era un gioco che ancora piaceva molto, pro¬metteva di fare un certo scalpore e ovviamente gratificava parecchio gli autori. Credersi più moderni e più attuali di ogni altro dà senza dubbio qualche soddisfazione e infatuazione. A rischio di non avere successo e di sconcertare i lettori, noi però scegliemmo di andare nella direzione opposta. I poeti della mia generazione erano non meno bravi dei molti che nel decennio precedente erano stati pubblicati con l’etichetta del Gruppo ’63. Ma non si nutrivano di idee.
C’era in loro una notevole naïveté, che se da un lato li preservava dai guai di credersi garantiti da teorie e ideologie, dall’altro li faceva spesso sembrare sprovveduti, poco consapevo¬li di se stessi e del mondo.
Dovendo descrivere questa situazione e questi fenomeni, mi convinsi che la sola cosa possibile era teorizzare non una tendenza, ma la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni. L’idea centrale era questa: non è vero che in ogni situazione storica esista una e una sola tendenza giusta in letteratura, come avevano creduto in fondo sia gli engagées sia gli avanguardisti. Era vero invece che nessuna situazione storica dell’arte è definibile a priori in termini di autocoscienza politico-teorica, ma che questa definizione si può ottenere (in termini comunque non univoci) solo a posteriori, leggendo gli autori che pur vivendo negli stessi anni scrivono ognuno a modo suo. L’ambivalenza che è stata subito notata nel mio saggio in¬troduttivo Effetti di deriva esprimeva appunto i miei dubbi, anche se nel gergo teoricistico di allora. I poeti della mia generazione erano manifestamente più liberi di andarsene ognuno per la sua strada: ma questa libertà derivava anche da una diminuita coscienza critica, da una pretesa di innocenza che minacciava di rendere troppo disinvoltamente produttivi troppi nuovi autori. La nuova poesia nasceva ormai fuori dall’autocoscienza storica (e da molti suoi eccessi soffocanti e sofistici).
Si poteva fare di tutto in poesia: inventare e ritrovare soluzioni formali moderne, premoderne, manieristiche, neoclassiche, colloquiali, di esibito esoterismo o di smaccato autobiografismo. Questo era indubbiamente (come si disse più tardi) “postmoderno” e faceva sentire più liberi di essere quello che si era senza la costrizione di adeguarsi ad un super-io ideologico o formalistico. Questa inedita libertà creativa, pe¬rò, avrebbe richiesto una capacità di autocontrollo critico per¬¬fino superiore a quella che si era vista in passato. Invece avevo il sospetto che anche quando scrivevano poesie migliori di quelle di Sanguineti, Porta e Balestrini, i poeti de Il pubblico della poesia sapevano meno chiaramente quello che face¬vano: lo facevano a volte benissimo, ma più a caso. Come autori erano poco strutturati. Per questo proposi di intitolare l’ultima sezione dell’antologia Come credersi autori? L’intenzione era questa: indicare che i poeti più intelligenti conservavano un congruo scetticismo sulla figura pubblica dell’autore, sulla figura mitica del poeta, ma anche sulla figura professionalmente pro¬duttiva del poeta “in carriera”. Essere poeta era secondo me un rischio anche maggiore che in passato. I fatti lo hanno confermato. I critici e gli editori da allora in poi hanno lasciato i poeti a se stessi. A volte li hanno del tutto trascurati, altre volte li hanno consacrati un po’ a caso.
Il risultato è che oggi, quasi trent’anni dopo la pubblicazione di questa antologia, invece che pluralità e compresenza di tendenze, c’è piuttosto una vera e propria confusione critica. Con gli anni Ottanta si è formato un “piccolo canone” comprendente una decina di autori, ma questo è avvenuto non perché un certo numero di critici fossero al lavoro e si discutesse della qualità dei testi. È avvenuto per decisione editoriale o perché alcuni autori mostravano di avere un talento autopromozionale più spiccato di altri. Così oggi se si vanno a vedere le collane di poesia dei maggiori editori italiani si può trovare di tutto: i nomi dei poeti effettivamente migliori si trovano accanto a quelli di autori che non si capisce neppure perché siano stati pubblicati e da quale mai genere di lettori possano essere letti.
Riproporre oggi Il pubblico della poesia può perciò avere un significato: ricominciare dall’inizio della vicenda, riaprire il discorso sui poeti venuti dopo Amelia Rosselli e Giovanni Ra¬bo¬ni, invitare la critica a riflettere se i poeti favoriti dall’edito¬ria a partire dagli anni Ottanta sono ancora da leggere e se, una volta letti, dicono davvero qualcosa. Se la nostra antologia ha avuto una “funzione storica” credo che sia stata nell’indicare che la situazione del fare poesia era cambiata, che il pubblico era ormai prevalentemente composto da poeti reali o potenziali, che il rischio consisteva appunto in una crescente autoreferenzialità di questo genere letterario.
In quel momento i miei personali dubbi erano messi in ombra e ritenuti antipatici a causa di un generale ottimismo sul “ritorno della poesia” dopo gli eccessi della politicizzazione. Ricordo che questo ottimismo era condiviso in particolare da due scrittori autorevoli (e quasi due fratelli maggiori) come Enzo Siciliano e Giovanni Raboni, che parlarono dell’antologia come di un evento letterario originale e liberatorio. Ma anche Franco Fortini apprezzò il nostro tranquillo rovesciamento dei criteri neoavanguardistici, parlò dell’antologia in un articolo sul «Times Literary Supplement» e concluse il suo libro I poeti del Novecento (Laterza, 1977) con una citazione dal mio saggio introduttivo.
Qualche anno dopo, Pier Vincenzo Mengaldo, nel suo Me¬ridiano Mondadori sui Poeti italiani del Novecento, pur fermandosi ad Amelia Rosselli, Giovanni Raboni e Franco Loi, indicò tuttavia che Cordelli e io avevamo offerto un’«ottima» guida per orientarsi nei labirinti della poesia più recente.
Quello che a distanza di tempo si vede anche meglio è che gli autori de Il pubblico della poesia, più che essere accomunati da scelte stilistiche, condividevano una certa euforia creativa, che i movimenti politici, dopo il ’68, da un lato tendevano a reprimere e dall’altro esaltavano. Così quello della nuova poesia sembrò (e volle essere) un altro “movimento”, o un settore del più generale e sempre più caotico movimento anticapitalistico che nella seconda metà degli anni Settanta annegò nel terrorismo. Quello che tutti i poeti della mia generazione cercavano era un nuovo pubblico, un pubblico allargato, perfino di massa, capace di liberare la poesia dalla vergogna di essere un ghetto elitario, una conventicola di individualisti incapaci di comunicare con tutti. In realtà la sola cosa che veniva comunicata a quei “tutti” che affollavano le letture di poesia era la voglia di fare tutti poesia, di produrla in proprio invece che leggere e ascoltare quella scritta da altri, da quegli individui speciali che pretendevano di essere loro e solo loro poeticamente creativi.
La poesia divenne più il pretesto per speciali happening e performance teatrali d’avanguardia e di massa che non un fenomeno propriamente letterario. Quel nuovo pubblico della poesia non era un pubblico di lettori, ma di ascoltatori impazienti e inquieti che avrebbero voluto salire loro sul palco piuttosto che starsene ad ascoltare con attenzione la lettura di testi composti da poeti veri o presunti.
In quegli anni alcuni cominciarono ad agire perciò su due piani: da un lato si fingeva di accettare e approvare l’ideologia o mitologia di una creatività diffusa e di una poesia per tutti fatta da ognuno e da tutti, dall’altro si lavorava a correggere quell’onestà inconcludente e alquanto autodistruttiva che aveva portato Cordelli e me a registrare pluralità e caos, vitalità, illusioni ed effettiva originalità (anche sociologica e culturale) dei nuovi poeti. Alcuni cercarono di inventare gruppi e tendenze perché solo così (secondo quanto indicava la tradizione novecentesca) si poteva rendere visibile e promuovere un qualche manipolo di autori. Come si è visto più tardi con i Pulp o Cannibali, i gruppetti e le etichette offrono dei vantaggi, aiutano i critici e i compilatori di manuali a fornire informazioni veloci e maneggevoli. Dal nostro Il pubblico della poesia invece si potevano ricavare più dubbi e problemi che soluzioni. La cosa che più mi interessava allora non erano tanto i singoli poeti che antologizzammo, né i sottogruppi e le categorie stilistiche in cui potevano essere sistemati, quanto la strana e irripetibile atmosfera di quegli anni. Finiva il No¬vecento, si scioglieva il nodo che aveva legato poesia e Storia, la tradizione della modernità si interrompeva, non c’erano più davanti a noi direzioni di marcia né opzioni letterarie storicamente più fondate di altre, il pubblico prometteva di allargarsi enormemente mentre in realtà si restringeva: scrivere poesie sembrava una straordinaria avventura esistenziale e in realtà era diventato un rischio editoriale e culturale forse anche più temibile che in passato. [*]
[*] Dalla prefazione al Pubblico della poesia, curato con Franco Cordelli per l’editore Castelvecchi.