Conversazioni

NOSTALGIA, OVVERO L’ INVENZIONE DEL PASSATO. Conversazione con Andrea Cortellessa di Michele Mari e Tommaso Pincio.

Cortellessa:
Ci invitano a mettere “Generazioni a confronto: due autori di diverse generazioni raccontano l’arte dal loro punto di vista”. L’incontro di oggi è dedicato alla letteratura: ed eccoci con Michele Mari e Tommaso Pincio. L’associazione che organizza questo incontro si chiama “Futuro” – sicché la prima cosa interessante è che siamo iscritti all’insegna di un tempo. Il futuro, nella fattispecie; anche se oggi parleremo soprattutto del passato (ma vedremo che le cose non sono così semplici).
La seconda cosa interessante è che queste “generazioni diverse” sono separate da appena otto anni di differenza. Ma forse invece un discrimine c’è, una linea separa questi due autori. Per quanto riguarda il titolo, intanto, denuncio sùbito il mio plagio. Quando mi hanno proposto di organizzare questo colloquio avevo appena letto un articolo di Pincio, su Alias, dedicato proprio alla nostalgia1. Nostalgia creatrice. Nostalgia produttiva. Nostalgia creativa. Tutti aggettivi che assomigliano parecchio a quelli che un 20-30 anni fa, ai bei tempi dell’Anti-Edipo, si associavano volentieri alla nevrosi. Nevrosi creativa, certo.
Così ho pensato che anche la nostalgia può essere un tema inquietante. Una malattia, o comunque qualcosa che – in termini spinoziani, deleuziani e ora celatiani – ci rende “affetti”2. Questo qualcosa – questo ultracorpo, diciamo – non sappiamo bene se provenga dall’esterno o dall’interno; arriva comunque da una zona dislocata. In effetti, l’origine del termine nostalgia proprio in termini di storia della scienza, e in particolare di storia della medicina, è stato studiato da Jean Starobinski in un saggio raccolto qualche anno fa da Antonio Prete, insieme ad altri interessanti materiali, in un bellissimo libro, Nostalgia. Storia di un sentimento3. Come dunque ormai sappiamo bene, il termine è stato usato per la prima volta, alla fine del Seicento, per diagnosticare il malessere da cui erano affetti i soldati svizzeri, per lungo tempo distanti da casa. È sin dal suo “isolamento” – per continuare la metafora medica –, dunque, che la nostalgia è qualificata come qualcosa di perturbante.
Non mi dilungo in presentazioni. Mi limito a dire, per quanto riguarda Michele Mari, che i libri di cui parleremo sono soprattutto i suoi ultimi tre4: Filologia dell’anfibio. Diario militare (Bompiani 1995), Tu, sanguinosa infanzia (Mondadori 1997) e Rondini sul filo (Mondadori 1999). Mentre per quanto riguarda Tommaso Pincio, che ha esordito nel 1999 con M. (Cronopio), parleremo soprattutto del suo Lo spazio sfinito, uscito l’anno scorso da Fanucci. I due libri di Pincio una volta si sarebbero definiti di fantascienza. Peraltro sui generis: una fantascienza delle emozioni, forse una fantasy delle emozioni, ancor meglio una sperimentazione, o forse proprio uno sperimentalismo delle emozioni. Di sicuro una lettura molto emozionante. Così come straordinariamente emozionanti sono gli ultimi libri di Michele Mari. Dico sùbito che tra questi uno fa eccezione, Filologia dell’anfibio, perché come mi ha spiegato una volta Michele in realtà risale a diversi anni prima della pubblicazione. Quindi un repêchage, una ricostruzione filologica del proprio vissuto, insomma un episodio di autobiografia filologica: ricostruzione – proprio in senso ecdotico – del soggetto. Anche qui, a partire dalle emozioni e dal vissuto.
Aggiungo sùbito, a scanso di equivoci, che in nessuno dei due la nostalgia – come invece troppo spesso nella narrativa italiana degli ultimi 20-30 anni – è lallante vagheggiamento di un’origine perduta, di una couche biografica realisticamente, deterministicamente intesa. Non si tratta di ricostruire à rebours i percorsi che hanno portato il soggetto a divenire – come diceva Nietzsche – quel che è. Si tratta piuttosto di una ricostruzione indiziaria – e di un’invenzione.
Nello Spazio sfinito di Pincio siamo di fronte a quella che si potrebbe definire – come sono state definite quelle di Philip K. Dick – narrazione ucronica. Nel senso che ricostruisce sì il passato (gli anni Cinquanta, in questo caso), ma un passato alternativo: nel quale figure dell’immaginario collettivo quali Marilyn Monroe, Arthur Miller e Jack Kerouac hanno connotati assai diversi da quelli passati alla storia. Questa operazione di Pincio non è mero divertissement, come non lo è la sua scelta di chiamarsi in questo modo persino provocatorio. Infatti è proprio un radicale antistoricismo la principale lezione che egli cerca in un mostro sacro come Thomas Pynchon. Di Pincio ho potuto leggere un saggio ancora inedito (e dal titolo già di per sé significativo, Almost but not quite me), in cui spiega come la radice prima dell’immaginazione dell’autore di Gravity’s Rainbow sia da ricercare in una sorta di “luddismo storiografico”, in virtù del quale il narratore scrive un passato, come per esempio nell’ultimo Mason & Dixon, non proprio ucronico ma comunque assai diverso dal “normale”. Un passato scrutato con metodo indiziario, direbbe Carlo Ginzburg: seguendo la pista delle tracce: ingenerando un’aura di universale sospetto. Spesso ci sono più passati che si contraddicono l’un l’altro in Pynchon – per esempio in V. che è il suo primo capolavoro e dove infatti s’impalca appieno questo lavoro sulla storia, questa ricostruzione della storia non come accertamento di dati “reali”, cristallini e indiscutibili come ce li ha consegnati la vulgata: ma come qualcosa da plasmare, riformulare, rimettere in questione.
Nel caso di Pincio gli anni Cinquanta sono un panorama mentale, una specie di schermo bianco sulla superficie del quale è possibile proiettare brevi film sulle emozioni, sui sentimenti. Nello Spazio sfinito il film è sulla solitudine. Jack Kerouac è un impiegato che la Coca Cola manda in orbita, e da questa cellula di miele orbitante nello spazio contempla il suo passato, rivisita le esperienze che l’hanno portato fin lì; a un certo punto sente questo rumore “che non c’è”, una sorta di mugolio universale. Il lamento di ciò che non esiste – e che solo lui riesce ad ascoltare.
Anche Rondini sul filo di Mari è un’inchiesta sul passato. Non un passato collettivo, anzi squisitamente personale; per la precisione un vissuto di coppia. Uno scrittore di nome Michele indaga ossessivamente il passato di una donna – che attualmente vive con lui ma che in un troppo recente passato egli ancora non conosceva. S’innesca un’infinita ossessione, in cerca di “una cronologia sicura precisa, una descrizione esauriente, documenti probanti, autenticazioni, expertises… un po’ di filologia, un po’ d’archivistica che male c’è? un’indagine storica ben condotta, le discipline ausiliarie… tutto a verbale” s’intende, firmato e controfirmato, solennemente giurato”5. Anche qui, dunque, un’ossessione storiografica, ma soprattutto il metodo del filologo: cioè precisamente la ricostruzione per tracce, per indizi, per frammenti di quanto non è possibile verificare – e sfugge, sino alla fine, come un asintoto tormentoso. Simile al lamento di Pincio per ciò che non c’è, qui c’è il lamento per ciò che non si può appurare fino in fondo – e sino alla fine resterà un cuore di tenebra, un punto nero nello spazio.
A impressionare è lo struggimento assoluto che dà la lettura di libri fra loro così diversi. Uno struggimento che non risiede nella storia che raccontano, evidentemente, ma neppure nello stile: che non si potrebbe immaginare, nei due, più diverso. Probabilmente il punto è che entrambi hanno saputo cogliere un senso che circola, o forse è sospeso in aria allo stato colloidale. Un senso, e diciamo pure un sentimento, che prende, in due autori pure così vicini per età, modalità assai diverse. Ma tale che un lettore come me, che poi è di una generazione ancora successiva (sono molto brevi le generazioni, man mano che ci avviciniamo sino a noi), provi un’emozione grandissima. E credo che chiunque li legga, questi due scrittori, possa provare la stessa emozione.
Volevo leggere una pagina dai due libri come specimen, diciamo, di questa idea del passato. All’inizio di Filologia dell’anfibio c’è una “Giustificazione”, come usava nei saggi di una volta, che recita: “Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione reale. Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato; di tale aggiornamento essi hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta invece come perdita. È in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura”6. In questo caso la scrittura, dunque, anziché ricostruire una presenza – un dato oggettivo, una verità –, cancella un’esperienza dolorosa, la imbalsama e così la oggettivizza; archiviandola l’esclude dal circuito delle proprie sensazioni primarie. La filologia, anziché ricostruire un dato, circoscrive una lacuna. Forse come succede in quel salto nell’iperspazio intuitivo che i filologi chiamano divinatio: quando di fronte a un elemento che non torna patiscono l’esperienza dell’arbitrio. È allora che interviene la scrittura, cioè l’immaginazione – cioè appunto l’invenzione del passato. La nostalgia.
Di Pincio per il momento non voglio leggere frasi quanto, se ci riesco, degli spazi bianchi. Ricostruisco un po’ la vicenda: Neal Cassady, appunto un personaggio dell’immaginario letterario americano che è anche un personaggio dello Spazio sfinito, si è innamorato di una donna che è Marilyn Monroe. In realtà si capirà che c’è stato uno scambio di persona (come uno scambio di persona è alla radice dello strazio biografico di Marilyn: che è Marilyn ma sino alla fine resta anche Norma Jean Baker). Proprio in quello scambio di persona – in quella pseudosomiglianza, in quella coincidenza imperfetta, in quella lacuna, in quel minimo spazio bianco fra Marilyn e Norma Jean – c’è il mistero di cui, forse, s’innamora Neal Cassady. In qualche modo viene in possesso di un numero che crede essere telefonico, lo chiama ripetutamente, e il telefono squilla e squilla ancora. A vuoto. Marilyn, si sa, ha sposato Arthur Miller. Quel che non sapevamo è che la celebre coppia vive sulla celebre Casa sulla cascata disegnata da Frank Lloyd Wright. Una casa che a un certo punto comincia a perdere consistenza: allo stesso modo di Marilyn-Norma Jean. Sempre, in Pincio, gli oggetti, i personaggi, i sentimenti hanno luogo nella propria sparizione, nel proprio cancellarsi. E allora, cap. 40: “Il giorno seguente Neal Cassady ritelefonò come le aveva promesso. Lasciò squillare a lungo ma alla casa sulla cascata non rispose nessuno”. Il resto della pagina è bianco. Poi, cap, 41: “Neal Cassady provò ancora a richiamare la sua Marilyn Monroe. Lasciò squillare finché non cadde la linea. Al telefono della casa sulla cascata non rispose nessuno”. Il resto è bianco. Cap. 42: “Neal Cassady chiamò e richiamò. Lasciava squillare fin quando non cascava la linea e poi richiamava. Al telefono della casa sulla cascata non rispondeva nessuno”. Bianco. Il cap. 43 che al posto di parole riporta un’immagine, la fotografia di una cascata. Infine il cap. 44 consiste di una pagina completamente bianca7. Vediamo meglio la foto che costituisce il cap. 43, allora. È la cascata sulla quale verrà poi costruita la famosa Casa di Wright: una normalissima fotografia, forse scattata in un sopralluogo dagli architetti che poi eseguirono i disegni di Wright. È naturale: prima della casa c’era solo la cascata. Però per la nostra immaginazione, per la nostra memoria, questo è il luogo di un’assenza.
Cos’è successo? È successo che tornando nel passato, un passato inventato, abbiamo incontrato un luogo che fa parte del nostro paesaggio mentale. Dovremmo sapere bene che le cose vengono costruite, che si sovrappongono e si aggiungono l’una all’altra. Tutto il nostro mondo è un’infinita serie di addizioni, di sovrapposizioni. Eppure rimaniamo stupefatti dal sapere che nel 1930, o nel 1940, sulla cascata non c’era la casa – e magari che nel secondo secolo avanti Cristo non c’era il Colosseo. Se vedessimo una foto di quello spazio senza il Colosseo penseremmo che qualcuno l’abbia rubato, o magari venduto – come si faceva in qualche commedia all’italiana.
Per terminare questo piccolo apologo vorrei leggere una pagina di Giorgio Manganelli. Una conferenza che Manganelli tenne a un convegno su Jung e la letteratura. Questo testo davvero singolare (anche per la media del Manga) contiene un inciso singolarmente appropriato alla nostra situazione. Manganelli sta parlando delle lingue morte. Ogni scrittore – il Manga l’ha detto molte volte, a partire dal famoso saggio su d’Annunzio nella Letteratura come menzogna – è in effetti, in quanto scrittore, morto. Quel che c’interessa è che l’assenza – la morte – qui non è solo frutto di un’estinzione (qualcosa che prima c’era e poi, fatalmente, non c’è più). Esiste anche un’inesistenza, diciamo, inversa. Scrive Manganelli: “il futuro anticipa il non esistere dal punto di vista del presente tale e quale come il passato, cioè c’è una morte futura e una morte passata e la lingua può partecipare dell’una e dell’altra; ma è costantemente una lingua morta”8. Quel che ci spiega Manganelli è che il rimpianto per ciò che non esiste non è solo la contemplazione della morte, ma anche la delusione per ciò che non è ancora nato, per ciò che forse sappiamo bene non potrà mai nascere. Ciò che è impossibile. (Racconti impossibili, per Landolfi, sono quelli che si scrivono malgrado già si sappia che sarà impossibile portarli a compimento.) Questa attenzione per qualcosa che non c’è ancora e però sentiamo necessario, e che già sappiamo ci mancherà sempre, è ciò che per me accomuna davvero questi due scrittori (nonché, forse, tutti gli scrittori degni di questo nome): l’insoddisfazione per ciò che c’è – il cattivo infinito del presente, la prosa della vita, il lato diurno dell’esistenza – e l’attrazione maniaca, invece, per tutto quanto può costituire un’alternativa, un aldilà, un oltre. Appunto il passato, per esempio: qualcosa di estinto, che si può ricostruire filologicamente, per tracce e residui. Da cui sogniamo – forse temiamo – possa venir fuori qualcosa di inaspettato, una folata di vento nella nostra vita. Qualcosa che non possiamo far altro che attendere. Invano.
Mari oltre che scrittore è per l’appunto, di professione, filologo (insegna Letteratura Italiana all’Università di Milano). Ma è filologo anche in Tu sanguinosa infanzia: per esempio in uno dei suoi racconti più belli, Le copertine di Urania. Anche qui il futuro si mescola col passato, intride il passato o meglio il passato – l’archiviazione, la “conoscenza esoterica” di Henry James – si tatua sul futuro, sul presente, sull’immaginario: cioè sulla nostra attesa o (come si poteva dire sino a qualche tempo fa), appunto, nostalgia di futuro. Le copertine di Urania è uno degli episodi di Tu, sanguinosa infanzia più struggenti: proprio perché cerca di toccare quello che non si può toccare in quanto si sta sbriciolando, non ha più la forza di stare insieme, non ha più energia per esistere. È qualcosa che si sta staccando, si sta scollando, si sta sfibrando. Qualcosa di sfinito, insomma.
Ora, scorrendo le pubblicità presenti nelle ultime pagine dei vecchi Urania degli anni Sessanta, Michele trova il modo di citare Tre forme di esistenza mancata di Ludwig Binswanger (dove si trova un fondamentale saggio sul Manierismo) e poi Il manierismo nella letteratura di Gustav René Hocke. Questo senso di sfibramento è spesso proprio del manierismo, infatti, così come lo descrive Binswanger: appunto l’incapacità di tenere insieme qualcosa che non ha confini, non ha pareti, e allora si sfilaccia. Proprio come quelle copertine che si staccano, che non tengono più: che sono struggenti – alla lettera – nell’abbandonare l’oggetto fisico del libro e andare a tatuarsi indelebilmente nell’immaginazione. È un racconto meraviglioso (scusate l’esclamazione). La “filologia” di Michele in questo caso s’appiglia a oggetti fragili – proprio come fa, spesso, la filologia vera e propria con fragilissimi lembi di carta. Dopo Filologia dell’anfibio, Michele da ultimo ha ricostruito, ancora una volta da autofilologo, un periodo del suo passato, quello fumettistico: quando adolescente illustrava minuziosamente i Sepolcri di Foscolo o Il visconte dimezzato di Calvino9.
Cos’è dunque la filologia? In Proust c’è un episodio – quello della gelosia di Marcel per Albertine prigioniera – che Mario Lavagetto nella Cicatrice di Montaigne ha studiato proprio come ricostruzione filologica. Nel libro di Lavagetto c’è un capitolo che s’intitola Ecdotica, sulla ricostruzione per processo indiziario, da parte di Marcel, della vita di Albertine10. Però in generale in Proust il passato è involontario: e la nostalgia irrompe all’improvviso e invade il soggetto. Invece la memoria come filologia di Rondini sul filo è anamnesi fortemente volontaria, volontaristica, addirittura eroica (in senso foscoliano): il soggetto è colui che con un massimo di volontà rivisita il passato. Magari illudendosi, in questo modo, di cambiarlo.

Mari:
A proposito di queste tue ultime considerazioni posso fornire una testimonianza. Mi è capitato recentemente di leggere un saggio di Eugène Minkowski11 sulla tendenza di un certo tipo nevrotico a “topicizzare” la memoria, o meglio il passato, plasticizzandolo e reificandolo come se fosse un paesaggio, un luogo: un luogo visitabile e ripercorribile all’infinito, perché in esso tutto è fermo e bloccato, ma non (si badi) concluso: bloccato e pietrificato, invece, proprio nella sua incompiutezza, nella sua frustrazione, e in quanto non ci soddisfa e finalmente ci angoscia: rapporti con gli altri, comportamenti propri, discussioni, situazioni, gesti, tutto sembra pronto per rimettersi in gioco, come un “fermo immagine” che attenda di ripartire. Questo naturalmente non è dato, ma la sola riconsiderazione di quelle virtualità e di quegli atti mancati o distorti, la loro classificazione e ripetizione e numerazione (e alla fine stilizzazione) regala una sorta di gratificante illusione, quella di avere tutto sotto controllo, letteralmente, di “vederlo”, e vedendolo di circoscriverlo, recintarlo, esorcizzarlo (ma non escludo forme più masochistiche e morbose di voluttà ricapitolativa, come quando grattandoci infiammiamo la zona irritata). In ogni caso muoversi nel grande canyon della propria memoria come sul set di un film di John Ford comporta la condizione paradossale di storicizzare-comprendere i propri mali attraverso la geografia, che essendo la scienza dello spazio fornisce la tecnica di “aggirare” i luoghi scabrosi dell’indicibile.
Leggendo Minkowski ho anche capito perché, ad esempio, sin da ragazzino, sin dalla prima adolescenza sono rimasto “segnato” da un libro come L’invenzione di Morel di Bioy Casares, un libro che mi mostrò il mondo come tutto il mio essere già tendeva a rappresentarselo: tanto che quasi per una dolorosa coazione ogni tre o quattro anni io devo rileggermi questo libro. Declinare spazialmente angoscia, nevrosi e memoria, in ogni caso, è la ratio di chi ha un rapporto insoluto con il proprio passato, e sente che vivere, continuare a vivere, è l’indebito aggiornamento o perfezionamento sovrastrutturale di ciò che dev’essere prima “sistemato” strutturalmente: come chi sapendo di aver gettato precarie fondamenta continui fra i sensi di colpa nella costruzione e, peggio ancora, nell’arredamento di una casa (questo almeno è quanto ho voluto dire con il racconto Laggiù, perché veramente io oggi, io scrittore, io professore, io quarantenne, io marito e padre, mi sento in tutti questi miei stati l’“arredatore” di una vita la cui struttura risale a un periodo che non va oltre il 1966). L’espressione che usa Minkowski in proposito è “spazio chiuso” o “spazio fissato” (nota bene: non “tempo chiuso” o “tempo fissato”, come se un tempo-non tempo di questo tipo fosse automaticamente uno spazio).
In Filologia dell’anfibio, in Tu, sanguinosa infanzia ma soprattutto in Rondini sul filo (dico soprattutto per via dell’elemento ossessivo-ripetitivo) è appunto quest’esito spaziale del tempo a consentire al narratore di essere insieme soggetto e oggetto della propria indagine memoriale, perché quel canyon, quella terra desolata, quei crepacci sono la sua vita, e costituiscono un “panorama” ricostruibile a partire da qualsiasi dettaglio o punto di partenza. E poiché ogni dato, ogni giocattolino, ogni frase, ogni gesto è una monade che contiene tutto (“dice” il tutto), e poiché il centro è raggiungibile da qualsiasi entrata del labirinto, ne deriva una straordinaria saturazione di ogni singolo dato: in questo paesaggio nulla è neutro, perché anche la più piccola pietra è condannata alla maledizione della pregnanza. Non c’è nulla di museificato in questo tipo di memoria schiavizzante, non esiste un reperto 1012, ma ogni reperto è ogni volta tutta la collezione, è tutta la propria vita (incontrare e riconoscere per strada un compagno delle elementari che non si ricorda non solo di me, ma di quella stessa scuola, è uno di quegli accadimenti che mi esaltano e schiantano insieme, come se in quel momento io fossi di fronte alla “verità”, all’“essenza”, al “mistero” di tutta la mia vita, come se quel volto perplesso fosse l’ingresso nella dimensione vera – quella strutturale, appunto – di una vita che dal 1966 è diventata ogni anno un po’ più falsa).
Voglio anche commentare quanto tu hai detto con grande precisione circa il “patimento” dell’esperienza dell’arbitrio. Avendo io come scrittore delle aspettative di tipo classico (diciamo foscoliano) nell’altitudine della parola letteraria, e aspettandomi dalla letteratura ogni salvezza, essendo appunto vissuto come uno che ha sempre visto nella letteratura qualcosa di divino, tendo a responsabilizzare la parola letteraria al massimo grado, investendola di una sacralità, di una “esattezza” (in virtù di una discontinuità con l’inesattissima vita) e di una potenza che altro non sarebbero se non la sua stessa natura. Dunque io mi aspetto che la parola letteraria sia più adatta della parola comune a prendere per le corna il toro-vita, ma al tempo stesso ho il terrore che ci sia comunque un margine di inadeguatezza, come se la mia religione potesse tradirmi. E però tanta trepidazione, e in un romanzo come Rondini sul filo tanta maniacalità, da cosa nascono se non, mimeticamente, da un’ossessione “veridica” asssolutamente preletteraria? Io credo di essere diventato scrittore e filologo da bambino, quando, per motivi legati al carattere dei miei genitori e a certi episodi che si ripetevano frequentemente in casa mia, rimanevo disorientato di fronte all’incoerenza soprattutto di mio padre, che a parità di “sollecitazione” un giorno diceva una cosa e il giorno dopo un’altra. Per esempio, di norma urlava e mi sgridava duramente quando io facevo rumore o mettevo qualcosa in disordine, ma arrivava la volta in cui, rimanendo silenzioso e pressoché immobile come un soldatino prussiano, io mi sentivo dire da lui: “Ma come? Non giochi? Gioca! Tutti gli altri bambini sono vispi, vivaci, tu sembri un deficiente”. Quindi io mi mortificavo, non capivo e mi tormentavo per capire dove avessi sbagliato, e se il giorno dopo (con lo spirito di chi fa un compito, senza più un briciolo di naturalezza) mi concedevo un po’ di esuberanza infantile, subito incorrevo di nuovo nelle più severe reprimende. E poiché questa era la regola, io mi abituai a ricorrere a una sorta di oracolo musaico, di grande enciclopedia della lingua e della semantica che era mia madre. Andavo da mia madre e le riferivo tutto per filo e per segno imitando il tono di voce di mio padre (e ripetendo l’imitazione finché non mi soddisfacesse): ”Senti, il papà ha detto questo, io avevo fatto questo e lui ha detto così e così. Come lo devo interpretare?”. A volte mio padre aveva intercalato un “magari”. Io restavo ossessionato da quel “magari”, me lo ripetevo ottantacinque volte nella mente cercando di ripetere l’inflessione giusta, ma come tutti sanno quando si ripete qualcosa a oltranza la si destituisce di senso. E quindi io più mi avvitavo e mi ingorgavo in questo esercizio ripetitivo e decostruttivo più perdevo il senso delle parole, più sentivo che la realtà mi sfuggiva. Quindi avevo bisogno di un interprete e andavo dalla mamma e le dicevo: ”Senti questo ‘magari’, l’hai sentito? Lo devo prendere come una promessa o come una minaccia? Lo devo prendere come un invito o come una sfida, come cavolo devo prenderlo?”
Credo inoltre di aver sviluppato in modo un po’ morboso tutta una serie di fantasticherie legate ad avventure mentali, a integrazioni che come protesi applicavo ai libri che leggevo: e sempre con questa componente un po’ sadica e masochistica insieme di chi prende la parola, la infilza e la mette sul tavolo sotto un fascio di luce: fondamentalmente per un’autopsia. Questa è veramente la “situazione” che lega i miei libri (cui peraltro io penso come a individui molto diversi fra loro): in essi è comune l’aggressione alla cosa, alla materia, all’episodio nel tentativo di farlo cantare come un poliziotto che riempia di botte un sospetto, il che spiega forse perché io mi senta sempre un po’ brutale nei confronti delle cose di cui parlo.
Infine sono d’accordo con quanto tu hai detto verso la fine del tuo discorso, cioè che la nostalgia ha come oggetto non ciò che si è perduto ma ciò che non è stato e che poteva essere. Io in effetti sono molto più insoddisfatto della mia vita passata di quanto lo sia della mia vita presente. E quindi è vero: parlare del passato significa sempre riattualizzare partite mai chiuse. A me capita ancora adesso (ogni tanto mi ci sorprendo e inorridisco di me medesimo) di trovarmi a rivolgere in mente conversazioni avvenute ventott’anni fa rammaricandomi per non aver detto la tal cosa o perso la tale occasione, come si trattasse di un episodio di poche ore prima. E tuttavia anche vedendo la cosa dal di fuori, anche rendendomi conto della mostruosità, io ancora sento come possibile (anzi come necessaria) quella continuazione-integrazione-correzione. Come ho già accennato, mi capita, quando incontro lontani compagni di scuola, di citare episodi anche minimi con l’animo di chi li riattualizza: la sospettosa incomprensione cui vado incontro mi certifica che la differenza non è fra ricordare dando importanza e ricordare non dando importanza, ma fra ricordare perché si è continuato a dare importanza e non ricordare perché si è smesso di dare importanza o non si è mai data importanza. Illudersi di apportare aggiunte significative o anche solo plausibili a una materia che ancora le può tollerare, che può concrescere sulla base di quelle aggiunte, non è un lusso concesso alle persone dotate di memoria eccezionale: è il motore di quella stessa memoria. A intermittenze (dolorosissime) mi rendo conto che le bandierine, i colori, le perline che continuamente aggiungo cadono nel vuoto perché quella cosa (quella dichiarazione d’amore da fare, quella palla da calciare in rete) non esiste più, è stata rasa al suolo. Si vive dunque come postumi, in un limbo che non è anteriore ma appunto posteriore, senza però che da questo derivi una resa, e con la resa una qualche forma di pace. Al contrario, come credo sia evidente in Rondini sul filo, ci si vota a uno stato di permanente agonismo, nella speranza folle che alla millesima ripetizione di qualcosa che ci dicono morta ci sia un’eccezione, uno scarto, un imprevisto che retroattivamente modifichi tutto il nostro destino: giacché al vero agonista non interessano vittorie future che non riscattino sconfitte passate.

Pincio:
Per quanto mi riguarda, devo ripetermi certe cose fino all’esasperazione per persuadermi che siano effettivamente andate in un determinato modo, per convincermi che non c’è nulla di ambiguo, nulla di opaco, nulla di impreciso nella certezza di quegli eventi. A ben guardare, ripeto a me stesso le stesse cose perché mi illudo sempre che qualcosa cambi. Non parlo di un cambiamento a posteriori, ma piuttosto retroattivo. Parlo dell’illusione che le parole possano servire a cambiare concretamente il passato. Una cosa impossibile, perché cosa c’è di veramente concreto nel passato a parte le sue rovine?
Ascoltando Michele Mari in merito alle persone che hanno un rapporto irrisolto con il passato, alla tendenza a trasformarlo in uno spazio praticabile, mi sono sentito chiamato in causa per quanto ho scritto finora. Desidero dunque chiedere a Michele — visto che mi ha colpito questa ansia interpretativa delle parole, questa scelta di indagare le illusioni retroattive che si possono fare sul passato — come si collochi la sua scelta della lingua “celiniana” all’interno dei problemi che lui dichiara di avere con la parola.

Mari:
Questa maschera céliniana non è stata “scelta”, ma mi si è imposta quasi immediatamente. Avendo da poco letto e riletto diversi libri di Céline si era creato come un contagio musicale, fenomeno al quale, devo dire, vado facilmente soggetto. E quindi si è trattato di una suggestione quasi meccanica, in ogni caso fisiologica. Poi devo dire che Céline, come persona intendo, mi è servito in quanto prototipo dell’indifendibile, di colui che si pone come quello che manda al diavolo tutti, che insolentisce tutti, che può dire qualsiasi cosa e che si offre volontariamente all’abominazione universale. Siccome ero consapevole di dover dire cose piuttosto sgradevoli e antipatiche, ho voluto proteggermi con questa maschera: un po’ come nel mio primissimo libro, Di bestia in bestia12, in cui sono riuscito a parlare di cose che sentivo come molto scabrose, al limite dell’indicibilità, grazie alla maniera di un linguaggio paludato, irto di citazioni e di vezzi accademici che per me, proprio per la loquacità che mi consentivano, avevano invece lo stigma dell’autenticità (inutile dire che questo è un equivoco che mi ha sempre accompagnato, intendo l’interpretazione della mia lingua in chiave ludico-virtuosistica, laddove io so di essere autentico e “realistico” soprattutto quando attraverso o cavalco simili registri).

Pincio:
Rondini sul filo è uno dei libri più belli che io abbia letto negli ultimi anni. Mi ha profondamente colpito l’uso che fai della lingua di Céline. Dietro questa maschera che indossi per dire l’indicibile, il passato riemerge come rovina. La lingua di Rondini sul filo rimanda ai paesaggi europei devastati dalla follia della guerra e questo senso di distruzione permea anche le ossessioni della voce narrante del tuo romanzo. C’è poi un altro aspetto che considero importante, vale a dire l’impossibilità della lingua che usi. Il “celiniano” è ovviamente un assurdo perché è mutuato dal filtro della traduzione, dal suono italiano che ci siamo abituati ad attribuire alla lingua di Celine. Nel tuo caso il filtro si raddoppia e costituisce una lingua totalmente nuova: la lingua tradotta di Celine tradotta a sua volta in “mariano”.
Ma per venire al tema del nostro incontro, comincerò parlando dello stomaco e delle sue patologie. Non che nutra chissà quale interesse per gli argomenti di carattere medico, nonostante certe mie fissazione ipocondriache tipiche da scrittore. Il fatto è che proprio due giorni ho terminato di scrivere il mio nuovo romanzo13 e per scriverlo, tra le tante cose, ho dovuto documentarmi sullo stomaco e le sue patologie. Come vedrete, questo argomento non è poi così lontano dalle questioni che stiamo trattando, in particolare quella dell’invenzione in generale, ma in parte anche dell’invenzione strettamente letteraria. Il romanzo che ho finito di scrivere è dedicato a Kurt Cobain e, malgrado lo consideri essenzialmente un romanzo — vale a dire un’opera di finzione letteraria — non faccio difficoltà ad ammettere che la storia narrata è per molti versi riconducibile all’esperienza effettivamente vissuta da Cobain. Ora, è noto a tutti che Kurt Cobain si sia tolto la vita sparandosi in bocca. La cosa non sorprese più di tanto all’epoca. Infanzia tormentata, depressione, asocialità, tossicomania: il personaggio Cobain sembrava il ritratto del tipico soggetto con vocazioni suicide. C’erano tutti gli ingredienti necessari. Personalmente mi sono però fatto l’idea che Cobain si sia ucciso per il mal di stomaco di cui soffriva. Ovviamente non intendo dire che si sia ucciso soltanto per un mal di stomaco, ma che esso sia stato l’elemento scatenante all’interno di un quadro psicologico già di per sé traballante. Parliamo naturalmente di un mal di stomaco particolare, vale a dire di una forma cronica di mal di stomaco. Costituzionalmente cagionevole, il fisico di Cobain aveva una spiccata propensione a cronicizzare le sue patologie: soffriva di scoliosi cronica, di bronchite cronica e, per l’appunto, di un cronico mal di stomaco. Questo malessere in particolare non gli dava tregua. Appena mangiava qualcosa avvertiva un bruciore allo stomaco e dopo dieci minuti era costretto a vomitare. I medici non hanno mai capito quale fosse la causa. Molti, a dire il vero, non lo prendevano seriamente: con lo stile di vita che conduceva — alcol, eroina, fumo malgrado la bronchite — un po’ di mal di stomaco sembrava il minimo che potesse capitargli. C’è da dire però che Cobain, si è sottoposto anche a visite specialistiche senza risolvere il problema. Uno di questi specialisti ha avanzato l’ipotesi che tutto nascesse dalla curvature della sua spina dorsale: un qualche nervo collegato allo stomaco schiacciato tra due vertebre. L’ipotesi, peraltro tutta da dimostrare, non ha cambiato di fatto lo stato delle cose. Cobain si è tenuto il suo mal di stomaco fino a che questo non ha definitivamente minato la sua capacità di sopportazione. Per darvi un’idea dello stato d’animo, dell’importanza che ha rivestito il mal di stomaco nella vita di Cobain vi leggerò una delle tante cose che lui stesso ha dichiarato in proposito: “Tante volte mentre mangiavo il dolore diventava insopportabile e nessuno se ne rendeva conto. Sono stufo di lamentarmi per questo motivo. A volte mi prende in maniera molto dolorosa anche quando siamo in tour ma non posso fare altro che andare avanti negli impegni che ho. Dopo uno spettacolo devo costringermi a mangiare qualcosa. Sto seduto nella mia stanza d’albergo, sforzandomi di mangiare, di dare un morso, bevo un sorso d’acqua, e mi piego in due dal dolore e poi vomito. A metà del tour europeo ricordo di avere detto che non sarei più andato in tour senza aver prima risolto il problema, perché mi volevo ammazzare. Volevo farmi saltare le cervella, ero davvero stufo. Ero psicologicamente fottuto. Avevo un sacco di problemi di testa perché sentivo questo dolore cronico ogni giorno”.
Cobain soffocava il dolore con l’eroina, ma aveva trovato anche un rimedio legale e relativamente sicuro: il Buprenex, un oppiaceo leggero e sintetico che si iniettava direttamente nello stomaco durante gli attacchi. Raccontata così può sembrare incredibile che una persona sia affetta da un dolore dalle origini tanto misteriose e tanto intenso da indurre al suicidio. Mi sono informato sull’argomento e ovviamente non ho ottenuto risposte meno vaghe di quelle date a Cobain. Paradossalmente la risposta più pertinente l’ho trovata andando indietro nel tempo e precisamente agli inizi del Seicento, quando visse Jean Baptiste van Helmont, un medico belga che avanzava tesi piuttosto bizzarre sul funzionamento del corpo umano. Non mi dilungherò sul complesso delle sconclusionate teorie di questo signore e mi limiterò all’oggetto in questione: lo stomaco. Van Helmont era convinto svolgesse una funzione più che centrale. Riteneva che la bocca dello stomaco fosse la sede dell’anima. Prova ne era, a suo avviso, che un corpo violento alla bocca dello stomaco causava una perdita di coscienza. La tesi per quanto assurda ha una sua fantasiosa e perversa logica, anche se è facile obiettare che colpendo in testa una persona si possono ottenere gli stessi risultati con facilità probabilmente maggiore. Anche “all’epoca di Van Helmont era ormai accettata da tempo l’idea secondo cui il cervello partecipava ai processi mentali. Per ovviare a quel fastidioso problema, il medico replicò che, pur essendo importante, il cervello era secondario rispetto allo stomaco. Secondo la sua logica di ispirazione divina, esso fungeva da intermediario tra lo stomaco e il resto del corpo perché era collegato a entrambi dai nervi. Lo studioso attribuiva al cervello le facoltà della memoria e dell’immaginazione — al cuore spettava invece la libera volontà — ma la capacità di capire, che a suo parere era quella fondamentale della mente, poteva essere imputata solo allo stomaco, in accordo con le sue tesi che fosse quell’organo la sede della mente stessa”14. Vale forse la pena notare che queste convinzioni Van Helmont le maturò mentre era sotto gli effetti di un veleno che si era somministrato da solo per dimostrare altre sue teorie non meno bizzarre sui poteri dei veleni. Un altro esempio: Van Helmont era convinto che tutti corpi potessero essere ridotti ad acqua, l’unica forma pura della materia. Questa ipotesi derivava da un passo della Bibbia, Genesi 1, 2: “… e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”. Si parla evidentemente di tempi in cui la verità scientifica delle cose era del tutto secondaria a quella del dogma religioso. In quanto scienziato, egli non poteva però accontentarsi di citare i testi sacri. Gli serviva una “prova sperimentale”. Piantò dunque un salice dopo averlo pesato e lo nutrì solo con acqua per cinque anni. Al termine di questo periodo, l’albero era cresciuto in modo considerevole, raggiungendo i 76 chilogrammi di peso. Van Helmont non ebbe dubbi a spiegare il fenomeno in questi termini: “Dall’acqua sono nati 74 chilogrammi di legno, corteccia e radici”. Dove si vuole arrivare citando cose che altro non sono se non abbagli e cantonate di una pseudoscienza medica? E soprattutto cosa c’entra tutto questo con il problema specificamente letterario dell’invenzione del passato? Per cominciare, il modo in cui van Helmont arriva a definire la sue teorie ha molto dell’invenzione letteraria. Egli non arriva a conclusioni, bensì parte dalle conclusioni. Dato che lo stomaco deve essere per forza la sede dell’anima, egli si inventa un percorso che lo porti a quella conclusione. In questo era un ottimo allievo di Galeno, il quale, tanto per dirne una, essendosi messo in testa che la milza (organo le cui funzioni erano così oscure da essere chiamato plenum mysterii organum, l’organo avvolto dal mistero) era in stretta relazione con il fegato non riuscendo a spiegarsi il fatto che si trova dalla parte opposta, cioè sopra lo stomaco, si inventò che inizialmente la Natura aveva stabilito di posizionare la milza dietro al fegato ma poi, non avendo trovato abbastanza spazio, aveva deciso di metterla nell’unico buco rimasto.
Ora, noi possiamo anche sorridere di fronte a quelle che non dubitiamo un solo istante a definire sciocchezze assolute. Ma ci dimentichiamo di applicare lo stesso metro di giudizio quando invenzioni non meno improbabili ci vengono proposte in letteratura. Si dirà che la scienza e letteratura non sono affatto la stessa cosa, che quanto si chiede alla prima non ci si aspetta dalla seconda. Il che è indubbiamente innegabile. Vanno però notate due almeno due cose. La prima è che il metodo inventivo di certa scienza, e in particolare quello di Van Helmont, è un modo essenzialmente narrativo. Allo stesso modo di chi racconta una storia, egli parte dalla fine per risalire al principio. La seconda è che alla letteratura viene spesso chiesto ciò che si chiede alla scienza: raccontare le cose come stanno. Questa diffidenza verso l’invenzione è determinata dalla stessa necessità che ispira la scienza, la necessità di distinguere tra ciò che è vero e ciò che non lo è. Da questa distinzione ne derivano altre molto importanti per la letteratura come: finzione/realtà soggettivo/oggettivo spazio individuale/spazio collettivo, fino a giungere alla distinzione più importante di tutte dal mio punto di vista: quella che separa le storia della letteratura dai fatti della Storia. Così come scienza medica e letteratura hanno a cuore la salute dell’essere umano, seppure e ovviamente in modi molto diversi, storia e letteratura tendono entrambe a privilegiare la dimensione del passato, con una sostanziale differenza: mentre alla letteratura viene concessa la libertà di inventare, alla Storia si chiede di attenersi scrupolosamente ai fatti evitando di inventare alcunché. La condizione dello scrittore non è però così diversa dallo storico come sembra. E nemmeno più libera. Il racconto presuppone infatti una specie di patto tra chi narra e chi ascolta, una specie di accordo implicito in base al quale, per lo spazio di tempo dedicato al racconto, si finge che la storia, qualunque essa sia, rientri nel novero di un passato accaduto. Tanto è vera questa cosa, che perfino nei casi di un romanzo fantascientifico, l’elemento narrativo del già accaduto è prevalente rispetto al generale contesto futuribile del racconto. La questione dell’invenzione deve essere dunque letta tenendo presenti quali sono i due estremi di qualunque narrazione: da un lato abbiamo chi pretende (finge) di raccontare cosa è accaduto, dall’altro chi aspetta di sapere come andrà a finire. La tradizionale linea temporale passato-presente-futuro nel caso della narrazione può essere letta così: il presente occupato da chi racconta; il futuro occupato da chi aspetta di sapere come finirà il racconto; il passato occupato dalla storia vera e propria, inventata o reale che sia. Tutto questo sembra ovvio, come il fatto che si possa conoscere il passato meglio del futuro semplicemente perché il passato è già accaduto mentre il futuro è per definizione ignoto. Ma se questo può essere vero da un punto di vista fisico, purtroppo non è altrettanto vero dal punto di vista umano. Spesso nella nostra vita ci troviamo di fronte a situazioni che ci prospettano un futuro tutt’altro che incerto. Più spesso ancora accade un’altra cosa: che tanto più certo appare il futuro più questo si profila spiacevole. Ciò accade perché alla resa dei conti siamo esseri mortali e quindi soggetti, volenti o nolenti, a rispettare un contratto a termine. Sappiamo quindi che, per quello che ci riguarda in quanto esseri umani, tutto finisce: gli amori passano, la bellezza sfiorisce, si invecchia, e si muore. In questa prospettiva il passato diventa paradossalmente più incerto. È incerto perché ci sono molte cose che non sappiamo del passato; perché spesso i ricordi sono confusi; perché il passato ci appare meglio di come lo abbiamo vissuto; e soprattutto perché, nella prospettiva funebre di cui sopra, il passato consente di avanzare alternative ipotetiche che il futuro esclude: cosa sarebbe accaduto se… Questa vaghezza che ci permette di inventarci il passato ha un nome: nostalgia. Anche se può sembrare paradossale, tra le letterature del nostro tempo quella statunitense deve essere considerata tra le più nostalgiche. Ci sono molte ragioni per cui la letteratura americana ha sviluppato tanto a fondo questo tema, ma riguardano aspetti specifici della cultura di quel paese sui quali non è il caso che mi soffermi. Dirò soltanto che, come ha scritto un critico, “il peculiare carattere della nostalgia americana risiede non soltanto nel far rivivere qualcosa che si è perduto nel passato, ma anche suggerire la tragedia di un futuro perduto”. Vi offrirò ora un esempio particolarmente emblematico di nostalgia americana. È un passo da Le Avventure di Huck Finn di Mark Twain:

Appena era notte ci spingevamo al largo; e quando eravamo arrivati al centro, lasciavamo galleggiare la zattera lungo la corrente; poi accendevamo le pipe, e spenzolando le gambe nell’acqua parlavamo su ogni specie di argomenti… eravamo sempre nudi, giorno e notte, quando le zanzare ce lo permettevano… i vestiti nuovi che aveva fatto la gente di Buck erano troppo belli per essere comodi, e inoltre, ad ogni modo, non m’importava molto dei vestiti. A volte avevamo il fiume tutto per noi per dei lunghissimi periodi. In lontananza c’erano le rive e le isole in mezzo all’acqua; e forse una candela alla finestra di qualche capanna, e ogni tanto potevate vedere una o due fiammelle sull’acqua… a bordo di una zattera o di una chiatta, capite; e forse, da uno di quei battelli, potevate sentir giungere il suono di un violino o una canzone. È bello vivere su una zattera. In alto c’era il cielo tutto punteggiato di stelle, e ce ne stavamo coricati a guardarle e a discutere se fossero state create o fosse stato soltanto un caso… Secondo Jim erano state create, ma io dichiaravo che era stato un caso; reputavo che ci sarebbe voluto troppo tempo per farne tante. Jim disse che poteva averle deposte la luna, be’, questo sembrava piuttosto ragionevole, e così non ebbi nulla da ridire, perché avevo visto una rana deporre altrettante uova e dunque naturalmente era possibile. Avevamo anche l’abitudine di guardare le stelle che cadevano striando il cielo. Jim diceva che erano andate a male e che venivano buttate fuori dal nido.15

Questa immagine finale delle stelle cadenti che verrebbero buttate via perché andate a male spiega un fenomeno naturale con criteri molto simili a quelli adottati dal medico belga e Galeno: i criteri di una scienza narrativa. In questo caso non ci troviamo però davanti a una spiegazione che ha pretese scientifiche in senso stretto. Tutto il passo è pervaso da una forte nostalgia e la spiegazione fa appello più ai sentimenti e al senso del tempo passa. È in altri termini una spiegazione essenzialmente di tipo narrativo che ha a ben poco da spartire con la scienza. Ciò che è in ballo non è infatti il fenomeno in sé — le stelle cadenti — quanto il modo in cui il passare del tempo pone in una luce diversa il fenomeno stesso. Il passato riveste un ruolo fondamentale per la nostra conoscenza. È un patrimonio che ci mette in condizione di trovare una spiegazione a molti fenomeni. Se ne può fare un uso strettamente scientifico — è il caso della Storia — oppure più sentimentale, come avviene in Mark Twain e in moltissima parte della letteratura.
L’uso narrativo o nostalgico del passato non preclude però la possibilità di una conoscenza meno significativa delle cose. È possibile infatti travalicare l’ambito ristretto dei sentimenti personali e fare della propria nostalgia una condizione emblematica. È possibile, cioè, assurgere a una nostalgia di tipo critico; una nostalgia che sia di fatto una critica al modo in cui l’umanità racconta “scientificamente” il passato non dando conto delle ingiustizie perpetrate ai danni delle persone più deboli, quelle persone che sono troppo anonime per poter sperare di vedere il proprio passato riscattato o risarcito dalla Storia. Sto parlando di una nostalgia dove il passato raccontato, inventato o rielaborato dagli scrittori entra in conflitto con quello ricostruito e documentato della Storia. Sto parlando di storie contro la Storia e per rendere più chiari i termini del conflitto ho portato un altro libro: il romanzo di uno scrittore tedesco. Non credo sia necessario precisare chi è lo scrittore in questione. Il passo che leggerò renderà chiaro all’istante ciò che intendo quando parlo della possibilità di dare voce per mezzo della nostalgia e dell’invenzione del passato a chi ha subito ingiustizie ma non ha diritto di parola nel consesso della storia. Mi limiterò dunque a spiegare in due parole il contesto in cui si inserisce la pagina che leggerò. Chi parla è un ragazzo che ha vissuto la sua infanzia nella Berlino divisa per settori. Questo ragazzo è cresciuto e, mentre il Muro cadeva, si è ritrovato a vivere, da quasi adulto, in un mondo nuovo e, per certi versi, anche migliore. C’è però anche il fatto che la Berlino divisa per settori era comunque la Berlino della sua infanzia, la Berlino di un periodo particolarmente importante, quello che avrebbe dovuto essere il periodo più felice della sua vita. Tra il mondo migliore in cui si ritrova a vivere e il tempo migliore che è andato perduto c’è qualcosa che non torna in termini di equilibrio e di giustizia. Ecco come il ragazzo mette a posto la sua storia personale dando una spiegazione Storica a ciò che di fatto è senza spiegazione: perché è nato a Berlino Est quando sarebbe stato molto meglio e più giusto che egli nascesse a Berlino Ovest?

Nella vita le occasioni per comunicare il proprio indirizzo sono infinite, e Michael Kuppisch, che abitava a Berlino nella Sonnenallee16, notava ogni volta che la Sonnenallee era in grado di suscitare sentimenti di bonarietà, se non addirittura di tenerezza. Secondo l’esperienza di Michael Kuppisch la parola Sonnenallee agisce proprio nei momenti di incertezza e persino nelle situazioni di tensione. Anche gli ostili sassoni diventavano quasi sempre gentili quando apprendevano di avere a che fare con un Berlinese della Sonnenallee. Michael Kuppisch poteva benissimo immaginare che anche durante la conferenza di Potsdam nell’estate del 1945 quando Josif Stalin, Harry Truman e Winston Churchill suddivisero in settori la ex capitale del Reich, la Sonnenallee avesse avuto una sua influenza. Anzitutto con Stalin; notoriamente dittatori e i despoti sono destinati ad essere vittime del sussurro poetico. Una via con quel bel nome, Sonnenallee, Stalin non intendeva lasciarla agli americani, perlomeno non tutta. Con Harry S. Truman rivendicò quindi qualche diritto alla Sonnenallee, che lui naturalmente respinse. Ma Stalin tenne duro e minacciò di passare subito a vie di fatto. Il naso di Stalin e quello di Truman erano quasi arrivati a toccarsi, quando il premier britannico si intromise tra i due e li separò accostandosi di persona alla carta geografica di Berlino. Vide subito che la Sonnenallee è lunga oltre quattro chilometri. Per tradizione Churchill stava dalla parte degli americani, e in quella stanza chiunque avrebbe escluso che lui intendesse assegnare la Sonnenallee a Stalin. Per chi lo conosceva, Churchill avrebbe dato una boccata al suo sigaro riflettendo un attimo, poi, scuotendo la testa, avrebbe inspirato il fumo prima di passare al successivo punto delle trattative. Ma mentre dava una boccata al mozzicone, Churchill si accorse con disappunto che quello si era spento un’altra volta. Stalin fu tanto premuroso da porgergli del fuoco e, gustata la prima boccata, Churchill si chinò sulla carta di Berlino pensando a come ricambiare adeguatamente il gesto di Stalin. Mentre inspirava di nuovo il fumo Churchill concesse a Stalin una striscia della Sonnenallee lunga 60 metri e cambiò argomento. Doveva essere andata così, pensò Michael Kuppisch. Altrimenti come era possibile che una strada tanto lunga venisse divisa in due a pochi metri dalla fine? A volte pensava anche: se quello stupido di Churchill fosse stato attento al suo sigaro oggi noi vivremmo in Occidente.17

Mari:
Sono assolutamente d’accordo con Pincio sulla riscrivibilità del passato. Credo che la letteratura in questo abbia qualcosa di magnanimo: una magnanimità che ho sempre sentito mancare nella maggior parte dei sistemi filosofici. Quando al liceo sentii citare la frase hegeliana hegeliana per cui solo il reale è razionale e solo il razionale è reale, che è forse la cosa più nazista che sia mai stata pensata e scritta, quando sentii quest’agghiacciante sentenza capii che non sarei mai stato un filosofo. Per fortuna non tutti i filosofi sono Hegel, però dover comunque dedicare la propria vita a confutare Hegel mi sembrava una dissipazione. Quindi ho preferito praticare sin dall’inizio quelle che Tommaso chiama le “strade alternative”, ed esperire sulla mia pelle la verità di quanto Gaston Bachelard ha scritto un giorno a proposito di nevrosi, di narcisismo e di manierismo: “La vie réelle se porte mieux si on lui donne des justes vacances d’irréalité”.

Admin

Origine - genesi sociale degli immaginari mediali - Direttore MICHELE INFANTE